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domenica 30 settembre 2012

Barbera 1968, G. Ratti. Di N.Desenzani


L'apertura segue quella di un'altra bottiglia di età imprecisata, credo anni '70, totalmente marsalata o, peggio, alcool e acidità e più nessun aroma.
La regola quindi è: se ti va male con un anno, ritenta la fortuna con un'annata più vecchia!
La roulette russa del paleoenofilo.
E mi è andata quasi bene. Quasi.




Mi ritrovo un liquido limpido e consistente, che avrei scommesso il mio santissimo destro, alla vista, che fosse tè.
Qualcosa dunque è salvo nel colore, vista l'aranciatura, e nel sapore, visto il ricordo rimasto di gusto di vino.
Dura la vita per valorizzare questi cimeli!

Il profumo/odore è di gomma alcoolica con un'eleganza che ricorda vecchie stanze di antichi mobili riempite. In bocca è di grande acidità ma sotto sotto il frutto resiste.
Poco. Non a sufficienza per poter dire che sia un sorso piacevole, ma quanto basta per renderlo interessante.
Conosco bene i prodotti di questa vigna, allora meno che trentenne, e forse posso dire che qualcosa ancor ci ritrovo. Ma probabilmente è la suggestione al lavoro...

Infine rinuncio.
Ma tengo la bottiglia, metà scarsa e con la sua enorme camicia sul fondo e la metto in frigo.

Sarà una piacevolissima sorpresa sorseggiarne il contenuto la sera dopo a mo' di aperitivo, fra un buon Xeres e un ricordo sempre più vivido e materico della Barbera, fino all'ultimo bicchiere, versato attraverso un colino, con una tinta sempre più rosseggiante, opacità quasi totale; ma ecco il frutto ancora reperibile, persino... Un refolo di carbonica.
E mi sovvien l'eterno...




venerdì 28 settembre 2012

Monferrato Rosso Doc, Freisa 2011, Oreste Buzio, Vignale Monferrato (AL)



Sebbene i miei natali siano di un paese molto vicino a Vignale e sia stato svezzato a Barbera e Grignolino.
Ignoravo che il Freisa fosse una cultivar molto presente nel vigneto del Monferrato Casalese.
Maurizio Gily ipotizza che servisse insieme al Grignolino ad infoltire i tannini, alleggerire il corpaccione zuccheroso, nobilitare i profumi della Barbera per allungarne, forse, la vita.
Questa ipotesi mi pare plausibile e probabilmente nei vini della mia infanzia il Freisa c’era ma in miscela perché in purezza, cosa che invece si faceva e si fa con il Grignolino, non mi è mai capitato di berlo.
Mentre scrivo mi ritornano in mente accenni sul Freisa che avevo dimenticato: nel Grignolino d’Asti ne è tollerata una presenza percentuale se sono presenti delle piante nei vigneti.
Ebbene, sebbene non sia un esegeta del Freisa l’ho acquistata, l’ho raffreddata e l’ho bevuta.
Giovanissima, sulla tenuta negli anni bisogna chiedere a Maurizio Gily grande esperto dei vini di questi luoghi, ma già molto succosa.
Colore intenso
Pepe e spezie orientali e fragoline di Bosco in profusione.
Quasi una composta.
Tannino piccante, vegetale ma rotondo (sarà dunque vero che le argille del Monferrato Casalese smorzano i tannini e arrotondano le asperità).
Acidità gradevole e morbida.
Vino glu glu.
Mi piacerebbe riassaggiarlo fra un po’ perché, come voi mi insegnate, il Freisa ha molto acido desossiribonucleico in comune con il Nebbiolo.
Quindi la curiosità c’è.
In quel di Vignale da Buzio si fa anche un ottimo Grignolino, una Bonarda zero solfiti molto intrigante, della Barbera.
Bonne degustation

Luigi

mercoledì 26 settembre 2012

Argal, 2007, Pinerolese Rosso Doc, Dora Renato



Ogni tanto ragiono su un concetto espresso da Maurizio Gily.
Maurizio sosteneva in un suo intervento che i blogger parlano sempre degli stessi produttori, per lo più introvabili nella comune distribuzione e che rappresentano una nicchia, mentre nella realtà italiana i produttori imbottigliatori sono più di ventimila.
In realtà Maurizio estendeva questa sua velata critica anche alle guide le quali recensiscono più o meno duemila trecento produttori, circa il dieci per cento del totale.
Mi sono sentito toccato su questo punto e dentro di me, mentendo spudoratamente, dicevo che se non risultavano in nessun blog e in nessuna guida era perché i vini non erano all’altezza.
Però un dubbio mi rimaneva e rimane.
Ultimamente ho acquistato due bottiglie, quella di cui vi parlo oggi e un Ruchè di Massimo Marengo a Castagnole Monferrato (AT) dopo una rapida occhiata ho visto che nessuno dei due compare in queste guide: Sloowine, Gambero Rosso, Espresso, Duemila vini; peraltro anche Tenuta Migliavacca compare solo su Sloowine.
Ho voluto assaggiare entrambe.
Perché subisco sempre la fascinazione per gli eroi perdenti, per coloro che abitano il limite dell’oblio e il mio sospetto è sempre, e spesso ne sono corroborato, che sia il caso, il giro del vento mediatico che porta alcuni vicini alla boa del traguardo e altri a bolinare nelle retrovie*.
Non parlatemi di marketing, non è quello il punto.
E’ quel sottile filo che lega un passato di stenti (per tutti i contadini di qualunque zona viticola d’Italia) alla invenzione di una tradizione che malgrado sia inventata, spesso velleitaria e ingannevole riesce a far fissare nella memoria del consumatore e del critico un nome e una storia (sia nel senso prettamente storico sia nell’accezione di racconto) prima che un luogo.
E non venitemi a dire che le tradizioni non si inventano!
Chi volesse puntualizzare le mie asserzioni su questo tema consiglio la lettura di Eric Hobsbawm e il suo “Invenzione della tradizione” e le decine di pagine su questo argomento di Marco Aime.
Così come si inventano i gusti ahimè! 
Così come si inventa cosa è giusto o sbagliato, degno e indegno!
Ma questo è un altro discorso, o forse no?
Senza il mito di Juliette Colbert di Maulévrier al secolo Marchesa Giulia Falletti di Barolo e del Conte Camillo Benso di Cavour cosa sarebbe il Barolo?
Agglutiniamo  senso e narrazioni e costruiamo miti ecco cosa facciamo tutto il giorno per superare la fatica quotidiana del vivere.
E a qualcuno adesso, domani chissà, la bolina diventa un lasco mentre per altri che si trovano sulle mura sbagliate l’arrivo si allontana*.
L’Argal lo fanno a Frossasco (TO) vicino a Pinerolo (TO), esiste persino una Doc Pinerolese sconosciuta al 90% dei Piemontesi e al 99,9% degli Italiani.
Hanno vigneti sui rilievi pedemontani e in alcune aree propriamente montane come i Coutandin ma anch’io ne so poco di questa realtà e prossimamente ci farò un salto per toccare con mano la viticoltura Occitano Valdese.
Sono alla periferia dell’Impero coltivano varietà inflazionate o dimenticate (Barbera e Freisa e Neretto) e le montagne alle loro spalle sono sempre state un rifugio inaccessibile o una via di fuga dall’Italia.
L’Argal dicevo è un blend di Barbera, Freisa e Neretto, non è per nulla un anomalia la fusione funzionale delle prime due cultivar.
Maturazioni carnose, alcol e acidità della Barbera si fondono con le speziature pepato vegetali e i tannini del Freisa un mix che lascerebbe ben sperare nel lungo affinamento.
Si faceva un tempo anche nei vini del Monferrato Casalese (nord Monferrato) da dove, guarda caso, proviene il Ruchè di Massimo Marengo.
Con ciò non voglio dire che sia il miglior vino del Piemonte ma sicuramente un posto al sole lo meriterebbe anche solo per il fatto che costa sugli otto euro in enoteca e in tavola dura poco, a me è piaciuto parecchio.
Vi giro gli appunti così come li avevo presi subito dopo la degustazione.
Spezie e tannini vegetali piccanti.
Barberoso di frutta matura e dolcezza su telaio acido.
Legni bagnati e humus.
Terroso e cupo.
Bonne degustation

Luigi

*perdonate il parallelo velistico ma rende molto bene l’idea che una rotazione anche minima del vento avvantaggii in maniera netta e definitiva alcune imbarcazioni  sancendo la sconfitta delle altre, senza che sia veramente l’abilità dell’equipaggio a determinarne la sorte


Poscritto
Ho una bottiglia del 2001 in cantina che voglio aprire e condividere al più presto, l’ho comprata a Pinerolo da un enotecario che mi diceva che non riusciva a vendere i vini del Pinerolese neanche a Pinerolo.
Così va la vita.



lunedì 24 settembre 2012

Le vin de jardin 2011, La Grange aux Belles


Naso smaltato, caratteristico di fermentazione senza solfiti. Fruttini sotto spirito e una qualche corteccia aromatica. In bocca una bella acidità, agrumi, ciprie, un bel velo amarognolo, piuttosto caldo, ma con un retrogusto un po’ ciliegioso molto ghiotto (probabilmente figlio di una macerazione carbonica).  Dopo un po' dall'apertura perde alcuni degli aspetti più fastidiosamente aromatici. Si dipana esplicitando la grammatica di base dei vini naturali, appoggiandosi a un vitigno meno conosciuto (vecchie viti di grolleau in Anjou, Loira), che in questa chiave si fa davvero interessante perché cambia si scompone e si ricompone infine dando una sensazione caramellosa, accattivante. Mi ha ricordato il Rosso si Antonuzzi a base grechetto rosso.
Prototipo del vin de soif che si beve oggi nelle peggiori (leggi migliori) cave transalpine, dove la beva quantitativa è decisamente più sdoganata che al di qua delle Alpi.

venerdì 21 settembre 2012

Ruchè, San Marziano, 2009, Poggio Ridente



E’ una bottiglia che mi sono trovato in casa ma non ricordo assolutamente da dove provenga.
L’ho lasciata lì alcuni anni, poi è sparita fra gli scaffali, infine è ricomparsa ed è stata bevuta.
Ormai miei gentili lettori del Ruchè sapete tutto per cui non vi tedio più.
Voglio solo aggiungere un paio di concetti del tutto futili e personali.
Io amo questo vitigno per una serie di motivi altamente soggettivi e confutabili.
Così tanto soggettivi da divenire universali.

Numero uno: l’area ristrettissima di produzione del vino ( il Ruchè Docg si può fare solo nei comuni di Castagnole Monferrato, Grana, Montemagno, Portacomaro, Refrancore, Scurzolengo e Viarigi tutti in provincia di Asti) ricade nel centro dei luoghi delle vacanze estive della mia infanzia e anche solo parlarne mi provoca un tuffo al cuore come la madeleine proustiana.

Numero due: questa bottiglia proviene (così dicono in etichetta) da un vigneto di Viarigi (AT).
Viarigi è il paese natale di mio padre e le sue colline e le sue strade bianche sono state il mio campo giochi adolescenziale.
Una torre medievale ghibellina o guelfa (ma che importava ad un bambino che ogni giorno ci saliva fino in cima) svetta, in cima alla collina tufacea, nel tentativo arduo, per un paese di argilla ancorato ad argille collose e alla pesantezza dell’agricoltura, di toccare il cielo.


Numero tre: questa bottiglia proviene non solo da Viarigi ma da un vigneto in località San Marziano.
E a San Marziano c’è una chiesetta barocca (poco più di una cappella votiva) che era uno dei miei luoghi preferiti e ci arrivavo passando per le strade di servizio ai vigneti, in cresta e toccando altri “lieu dit” viarigini: San Bastiano, la Mandulera, il Cascinot del Preive, Là d’nans, Munt’ usagn.
Dai rovi che infestavano la chiesa di San Marziano a fine agosto raccoglievo le more.

Numero quattro: adoro l’aromaticità di questo vino. L’uva non l’ho mai assaggiata, perché trenta cinque anni fa era piuttosto rara e nelle mie vendemmie non l’ho mai incrociata o mi è passata inosservata distratto com’ero dal profumo del pane caldo e del salame appena insaccato.

Numero cinque: ero curioso di assaggiare un Ruchè con qualche anno sulle spalle e devo dire che i quasi tre anni gli hanno giovato ed è rimasto potentemente aromatico con un probabile incremento di complessità.
Tannini linfatici e speziature di geraneo e mineralità di terra e polvere, solidamente innestato in una composta di fragoline di bosco aromatizzate alla rosa.
Bonne degustation 


Luigi

Poscritto
Tutto ciò che proviene dalla mia memoria degli anni passati è potenzialmente falso, una cosa sola è vera ed incontrovertibile: i vigneti ricoprivano le colline ora a bosco o a noccioleto e questi vigneti erano inerbiti e nessuno era a rittochino perché a nessun villano del tempo sarebbe piaciuto trovare, dopo le piogge, il vigneto a fondovalle.

Poscritto Viarigino
Non tanto tempo fa un vecchio amico di mio padre gli disse: ”Sai, Giovanni (mio padre ndr), quella vigna (non chiedetemi quale, non ricordo dove fosse) lì, te la ricordi no! Beh l’ho venduta perché la Barbera sapeva di terra, a me non è mai piaciuta”.
Temo abbia venduto la sua migliore vigna, la mineralità leggermente untuosa di miche argillose mi pare essere il marchio di fabbrica di questo pezzo di Monferrato.


mercoledì 19 settembre 2012

Rugiada del mattino, Colli Tortonesi Doc bianco, 2009, Cascina i Carpini, Pozzol Groppo (AL)


Cortese più Favorita più un pochetto di Timorasso.
Del Cortese e del Timorasso sappiamo tutto.
La Favorita invece naviga di conserva, presente in sordina nel vigneto e nel bicchiere piemontese.
Un vin de soif semplice, il più delle volte troppo semplice, banale.
Invece sembrerebbe avere natali importanti e grandi parti di acido desossiribonucleico in comune col blasonato Vermentino, di cui potete leggere un’ode di Niccolò.
Nella Rugiada del Mattino di Cascina i Carpini alias Paolo Carlo Ghislandi, mi sembrerebbe invece prendere il comando dei giochi.
O quantomeno scende in campo con piglio ed eleganza.
E a mio avviso infonde alla miscela una delicata aromaticità fruttata e floreale, acidità (di concerto col Cortese), un ammandorlato suadente e amarostico e una mineralità sapida, pietrosa prima che idrocarburica (l’idrocarburo monocorde, potente come un marchio di fabbrica è ciò che, di solito, mi allontana dal Timorasso).
Si sentono le pesche e i fiori bianchi mielosi, sferzati da acidità e salino e residuali scorzette agrumate.
Colore intenso e corpo agile, saporito.
E tutto questo da vigneti (a quanto leggo sul sito aziendale) giovani se non giovanissimi.
Ottima e coraggiosa scelta questa miscela di 45% Cortese e 45% Favorita e 10% Timorasso.
Considerando che in zona estirpano il Cortese, della Favorita non credo ci sia traccia, per piantare la gallina dalle uova d’oro il Timorasso.
Bonne degustation

Luigi

Poscritto
Paolo Carlo non avertene a male ma le etichette proprio non mi piacciono per niente!
Campione omaggio.

lunedì 17 settembre 2012

Cinsault 2011, La Sorga di Antony Tortul. Di N. Desenzani


Ribaltare il concetto di gusto. Vini che sono fatti di fondo. Torbidi. La consistenza è ricercata. Eppure non sono vini vinosi. Forse grazie a fermentazioni senza so2 essi guadagnano in tempi relativamente brevi una grande profondità di gusto, rotondità. E aiuta certo la sostanza spessa che è come di frutto carnoso fermentato, torbido succo di uva alcoolico.
E poi c'è un descrittore comune a questi vini: la polverosità. Diversa da un tannino essa gioca un ruolo complementare, più sul fronte della consistenza che dell’astringenza. Sono vini con una certa rugosità. Freschi ma al contempo sostanziosi, evoluti ma dissetanti.
Se vogliamo mettere la granita di limone e quella di mandorle a degl'ipotetici antipodi della dissetanza, ecco che questi vini se la giocano nel mezzo allargandosi verso il terzo polo della granita al caffè.
Ma di beva dunque si tratta. Di dissetare con sostanza. E di inebriare. Con gioia e digeribilità.



Fra le bevute memorabili degli ultimi mesi, alla ricerca di questa espressione estrema della beva, trova un posto d’onore il vino di La Sorga di Antony Tortul, uno splendido Cinsault da vigne vecchissime (86 anni), vinificato con uve non diraspate, commercializzato in Francia a poco più di 10 europei, che mi ha letteralmente fulminato per l’eleganza, la forza e la beva trascinante.
Rileggendo le mie note scarne, cerco di riempire gli spazi vuoti, i suggerimenti, che sono proprio l’arricchimento che ho avuto da questo assaggio.

Frutto-fiore rosso compatto su nucleo acido, equilibrato, è l’idea che ti dà subito il vino. Se pensi poi all’aspetto più tattile del sorso ecco che ti arriva un’impressione di polverosità, quasi di rugosità, che probabilmente dà come suggerimento aromatico il tabacco (io sono un ex fumatore di tabacco e so quale sia il piacere tattile che può dare una fumata).
Poi ecco che rifletto e di queste sensazioni viene da immaginarsi la causa: l’estrazione. Chiaro che siamo al sud, chiaro che le vigne son vecchie e il vitigno aromaticamente robusto, ma qui c’è la scelta di non perdere niente.
Si aggiunge la qualità del tannino, che invita alla beva. E forse qui ci sta lo zampino dei raspi.
Ma la ricchezza aromatico-tattile non si ferma e le spezie giocano a punzecchiar la lingua e infine il residuo carbonico suggella, entusiasma.


Ritornando al generale, ecco che l’uva è meridionale e la scelta è di imbottigliare un vino giovanissimo, ma da viti vecchie. Perché la vite vecchia ti può dar profondità al sorso e forse dà un vino già più pronto, più immediato. Possiamo avere freschezza senza perdere profondità. Una scelta che affascina e nel bicchiere funziona.
Il vino vuole essere integrale. Si vuol mettere tutto il possibile nella bottiglia, non perdere niente.
Con queste scelte messe in atto si arriva al miracolo di spessore e leggerezza di spensieratezza e profondità, di franchezza, pur rimandando a numerosi descrittori: le erbe aromatiche, come il timo selvatico, e la frutta, come la gelatina di fragola fino agli agrumi e le spezie, come il pepe.
Per onestà devo dire che mi è capitato abbastanza spesso con questi vini praticamente senza solforosa di notare un deterioramento nel giro delle prime ore/primo giorno che io percepisco al palato come un sapore un po’ selvatico di pelliccia umida (è la miglior traduzione in parole che son riuscito a dare per quel tipo di sentore, in inglese avrei detto funky). Tuttavia non tutte le persone con cui ho potuto confrontarmi percepiscono quel sentore, o magari non lo percepiscono come un difetto/deterioramento.
Io, che professo la soggettività dell’assaggio, ritengo che siano questi effetti indesiderati che un poco di solforosa probabilmente correggerebbe. Ma tale è la forza che trasmettono questi vini che li bevo volentieri così come sono e difficilmente arrivano al giorno dopo. Quindi forse non c’è bisogno che durino di più di qualche ora!






domenica 16 settembre 2012

Gattinara 1974, Bastone. Di N. Desenzani


Ancora vivo e acido. Nell'ossigenarsi montano (bevuto a quota di oltre 900 metri), evolve. Su binari di grande austerità e grande beva. Un ricordo lontano di fruttini rossi, su una base che rimanda più alla radice e all'incenso. Terziari moderati e semplici su un tessuto ancora giovanile e carnoso. 
Sempre più opaco man mano che la bottiglia si svuota. Gran consistenza. Strano da un vino così vecchio e conservato in verticale. E che forse ha visto più di un principio di congelamento (cantina di montagna).
Si beve facile facile.
Il colore ancora abbastanza acceso e solo appena mattonato.
Dopo qualche ora forse è all'apice.
Fresco ed ecclesiastico lascia in bocca nitido il sapore dell'acino.
Pare quasi impossibile.
La bocca è pulita e lievemente balsamizzata.

Bella bevuta inattesa e ancora una volta il piccolo artigianato ha da raccontare qualcosa di importante.
E produce opere mirabili.



Non vi è molta traccia di questo produttore. Sul web quasi niente eccetto una citazione sul Catalogo Ufficiale 
dell’Esposizione Internazionale di Torino del1911 nelle cui appendici vengono nominati “Colombo e Bastone” di Gattinara in qualità di produttori di “Vino fino da bottiglia”.
Appendice
Etichetta scritta a mano.

venerdì 14 settembre 2012

Grignolino del Monferrato Casalese Doc 2011, Tenuta Migliavacca, S.Giorgio Monferrato (AL)


Della Tenuta Migliavacca ho già parlato una volta.                    
Ebbene una volta scoperti ho cominciato ad assaggiare i loro vini.
E la cosa incredibile è che questo splendido Grignolino 2011 sino a due mesi fa si trovava sfuso a Torino a 2,50 o 3,00 euro il litro!
Devo ammettere che l’assaggio del Grignolino 2010 non aveva dato la stessa soddisfazione, un poco di ridotto e profumi un po’ scomposti (magari la bottiglia chi lo sa?) su di un corpo che però si intuiva interessante.
Il 2011 invece esplode di frutta e a me ricorda il melograno con tutto il suo corredo di dolcezze, acidità, vegetalità e amarognolo tannico della pellicina.
Il pepe forse un po’ latita ma è la morbidezza del tannino affusolato che impressiona (dicono che i Grignolino del Monferrato Casalese siano meno tannici o quanto meno abbiano tannini più rotondi) e la beva travolgente sostenuta da acidità, dolcezze, tannini, amarognolo e succulenze sapide.
Sgrassava una enorme bistecca con estrema efficacia e professionalità.
Un vino (a dispetto del suo essere un liquido) asciutto ma gentile.
Neanche a metà della bistecca di brontosauro è finito per cui ordino una Barbera 2011 sempre di Tenuta Migliavacca.
Ordino con l’ansia di provare qualcosa di nuovo e la paura di cadere da un ottimo vino ad una sciacquetta!
Ebbene la Barbera 2011 è all’altezza.
Colore nero in confronto al petalo di rosa del Grignolino.
Frutta matura succosa, terra, acidità ma non troppo.
Masticabile e golosa.
Dovevo berne un calice.
Mi sono fermato con fatica al terzo.
E barcollando sono andato a pagare.
Bonne degustation

Luigi

La tenuta Migliavacca è stata inserita da Tirebouchon e me nell'elenco dei produttori da andare a trovare in azienda.
Penso che avremmo bisogno di due o tre vite per ottemperare ai nostri desiderata!

mercoledì 12 settembre 2012

Trebbiano 2002, Valentini. Di N. Desenzani


Mi ha colpito quello che risponde Josko Gravner in un’intervista alla domanda su quali vini gli piaccia bere a parte i suoi: confessa di non bere più i suoi vini vecchi filtrati e afferma che per lui il vino “oltre ad essere buono, deve contenere batteri, enzimi e lieviti”.
Ricordo che in un’altra intervista egli ammetteva di apprezzare i vini di Valentini.
Io credo proprio perché contengono batteri, enzimi e lieviti.
In una parola, perché sono vini vivi.

Per me questa vitalità è un chiodo fisso e aborro la filtratura come il Diavolo l’Acqua Santa. La mia avversione per questa pratica è tale che mi sono scaricato l’app “Torcia” dell’Iphone col preciso intento di poter guardare dentro alle bottiglie e farmi un’idea sulla consistenza della materia ivi racchiusa.
Ok potete farmi un TSO, a questo punto.


Fino a ora la mia esperienza con questo produttore leggendario  si limitava a due bottiglie di Cerasuolo 2003, un bicchiere di Trebbiano 2005, un sorso di 2008 e uno anche di Montepulciano d’Abruzzo.
Grazie a un amico che negli ultimi anni ha avuto occasione di comprarne un po’ di tutte le annate, ho potuto bere questo nettare e trovare conferma della peculiarità di questi splendidi vini vivi.
Il tappo è di ottima fattura, ma ho avuto l’impressione che fosse molto morbido e quasi friabile all’interno, come se volesse fondersi con la materia animata che teneva imprigionata.  
E il primo sbuffo al naso è nettamente solfidrico, in barba al modernismo tanto osannato. Ma basteranno pochi minuti perché questa puzzetta si dilegui completamente e lasci spazio al vino.
Goloso.
Perché io trovo che i vini di Valentini che ho assaggiato avessero proprio la golosità e la beva iperuranica come carattere primario.
Poi una miriade di suggerimenti sia al naso che in bocca: caramello e mou, erbe aromatiche (salvia e rosmarino), frutta esotica, miele, Vov… e sul palato un equilibrio sospeso fra le spezie e il burro, fra il metallo e la piuma d’oca, e imperante, fisso e incancellabile il gusto dell’uva matura e succosa.
Come ho avuto modo di dire a proposito di un Barbacarlo, il vino è così cangiante e così parlante che diventa esso stesso un commensale: così mentre si parlava ogni tanto uno di noi usciva con un commento estemporaneo su una qualità, un’emozione, una sfumatura del vino.
E un residuo carbonico si accendeva a intermittenza.
Ma non voglio star qui ad arricchire di fronzoli il racconto, perché in un certo senso tradirei lo spirito di questo vino. Che è infine franco e solo da bere.
A vasche.

lunedì 10 settembre 2012

Vin d’Alsace, Aoc Alsace, Riesling 2009, Domaine Ostertag



Il riesling è un vitigno che attira il bevitore seriale.
Perché è un nobile signore del Nord Europa aggrappato a terre difficili, spesso a piede franco, spesso allevato ad alberello arroccato al limite geografico della maturazione della vite.
Un abitante del limite.
E i suoi profumi sono espressione di questo essere di frontiera e della sua durezza rocciosa, della sua asprezza acida.
Però ultimamente ragionavo sul fatto che, forse, le attuali tecniche enologiche o proprio le caratteristiche del vitigno o la mano del cantiniere un po’ ruffiano, tendono a livellarne un po’ le differenze.
Gli idrocarburi, la mineralità, le sferzate limonine, l’acidità imponente in parallelo agli zuccheri residui (Germania) o a corpi alcolico/glicerici importanti (Alsazia) a mio avviso tendono a omologarlo un po’.
Con questi pensieri ho aperto questo riesling che ha confutato le mie tesi sbrigative.
E’ un vino base, “di frutto” dicono sul sito aziendale.
Io dico che è un vino travolgente sia al naso sia in bocca.
Profumi di pietre e di agrumi e di miele amaro e di pesche e di altre decimigliaia di cose.
Saporitissimo scende duro e salato in bocca senza alcun zucchero che blandisca la papille, un citron confit.
Una spremuta con una leggera piccantezza come di nasturzio.
L’idrocarburo sotto spinge con forza ed eleganza e si completa in bocca con frutto e sale.
Leggo sul sito (e se lo scrive io gli credo) che le fermentazioni sono spontanee con “levures indigènes”.
E rimango ancora più stranito da quella pulizia complessa e ricca e sfaccettata che emerge da questo riesling.
Nessuna imperfezione “tecnica” o deriva ossidativa o sbavature organolettiche.
E ripenso con ancora più mestizia ai vini caricatura che siamo costretti a bere, figli dei lieviti industriali e degli additivi enologici più che del territorio.

L’ho acquistato a Parigi chiunque lo trovasse sappia che è una spesa ampiamente giustificata.
Sono molto incuriosito anche dai “vini di pietra” ossia i cru di Ostertag.
Bonne degustation

Luigi 

venerdì 7 settembre 2012

Λαϊκός (laikòs), Laico.




Ci provo ad esserlo e non sapete quanti sforzi faccia.
Qualcuno di voi sorriderà, ma è la verità.
L’altro giorno ho persino comprato due (purtroppo ben più di due) vini bianchi vinificati in estrema tecnica e pulizia enologica.
Mi sono detto che non posso accanirmi con soli lieviti indigeni e moderati interventi in cantina (se non addirittura assenti, in qual caso raggiungo livelli di godimento cerebrale quasi scabrosi) meglio se supportati da cornoletame e preparato 501, 504.
Quindi laicamente ho acquistato (bottiglie di costo moderato, invero, ma caldamente consigliate dall’enotecario) due vini.
C’era nelle due bottiglie del catarratto, carricante, insolia, grecanico e una tanticchia di sciardonnè.
Provenienti da Pachino e dall’Etna.
Fino ad oggi, dei dubbi sulla mia ostilità verso i lieviti secchi industriali (non essendo un tecnico) li avevo.
Bene!
Questi due vini li hanno fugati prontamente.
Ho ingurgitato bevande idroalcoliche al profumo di fiori e frutta (si sentiva persino del vegetale stile sauvignon nell’insolia,  grecanico, sciardonnè), il vino è un’altra cosa, credo.
E poi aveste visto che limpidezza, che colore evanescente, con riflessi verdi, un inno alla filtrazione sterile, alla chiarifica.
E poi nel catarratto carricante sembrava palese (a dire di un produttore presente al mio desco che lo ha assaggiato, io non mi azzardavo) un aiutino acido citro/tartarico per ravvivarne le durezze.
E poi l’assoluta e irritante a-territorialità di questi vini fatti con lo stampino.

Questo post è il mio urlo di disappunto e di risentimento verso chi me la mena ogni santo giorno sulla inevitabilità e bontà e giustezza e eticità delle enotecniche.
Mi dicono:
“Possiamo mica stigmatizzare i produttori che per esigenze tecnico/commerciali/economiche usano vinificazioni tecnologicamente assistite?”
Si possiamo.
Perché il prodotto che vendono con il nome commerciale di vino.
Vino non è.


Poscritto
Il contenuto del post è sconsigliato ai conformisti e agli adoratori del metodo scientifico perché il contenuto è altamente provocatorio, irrazionale, soggettivo, al più intersoggettivo e condiviso solamente da una frangia di enoanarchici con derive enodissidenti.
Dei vini in questione ho bevuto solo due bicchieri e poi ci ho innaffiato il plumbaco.
Costano tra gli 8,00 e 10,00 euro, comunque troppo per usarli come irrigatori da giardino.
Non pubblico le etichette perché di questi vini ne è pieno il “mondo del vino”, anzi ne costituiscono l’ossatura, quindi la mia è una lotta impari e persa in partenza.

Non credo che mi definirò mai più in vita mia “Laico”.
Almeno da sobrio.

Post poscritto
Prima di pubblicare questo post mi è capitato fra le mani l’ennesimo Catarratto (di montagna, scritto in etichetta) che profumava di Muller Thurgau.
Solo la mia residuale educazione (invero già molto scarsa) e la presenza di ospiti ignari mi ha fermato dall’innaffiare il plumbaco con il contenuto idroalcolico della bottiglia (pure una renana!) da qualcuno definito vino.
Neanche a farlo apposta dopo il Catarratto e sempre prima di pubblicare il post, ho fatto l’errore di ordinare una bottiglia di Grillo, ottimo! Fosse stato un riesling prodotto a Bolzano, anche lui è finito nell’aiola del ristorante (non c’era il plumbaco, peccato! Costo della bottiglia 20,00 euro!).
E poi ieri un Soave che pareva una confezione di caramelle, quelle con il chewing gum all’interno.
Parrebbe non esserci fine al peggio.
Ho incominciato, malgrado sia estate, come faceva Pepe Carvalho*, ad accendere il camino con i testi di enologia.

*investigatore privato nato dalla penna trascinante e caustica di Manuel Vazquez Montalban, grandissimo scrittore e gastronomo e bon vivant Spagnolo il quale, con la sua morte, ci ha lasciato orfani in un mondo che ha perso l’ironia, l’intelligenza, la tolleranza e la capacità di “sbagliare da professionisti”.


mercoledì 5 settembre 2012

Petit Arvine, Vallèe d’Aoste Dop, 2010, Ottin



Insisto con il Petit Arvine.
Intanto perché sono affetto da sindromi ossessivo compulsive.
E poi perchè mi è parso di aver messo mano ad un vino ad alto potenziale e grande personalità.
E poi perché mi diverte berli nel sud est della Sicilia, piu o meno alla massima distanza possibile dal luogo di origine rimanendo in Italia.
Così, in un gioco di isotropismi spaziali e ricorsività mentali.
FabrizioGallino mi dice che li sto assaggiando troppo giovani, eppure già così hanno molte frecce nel loro arco.
Intanto, malgrado siano vini di montagna, hanno spalle larghe e non rifilano solo taglienze di roccia e di acido malico.
Ci sono, annidate in una trama complessa, delle fruttosità di platicarpa e di mieli di montagna, tenute su da una mineralità fungina e idrocarburosa e sapida (non ancora pienamente espressa in questa giovin bottiglia).
Questa bottiglia, malgrado una freschezza e mineralità superiore rispetto a questa, mi ha confermato che il Petit Arvine ha una naturale tendenza ad essere opulento e foriero di maturazioni dolci e materiche e lascia intravvedere lunghi e positivi tempi di evoluzione.
Armiamoci di pazienza per aspettare che il bruco diventi farfalla.
Bonne degustation.

Luigi

lunedì 3 settembre 2012

La critica enologica tra valutazione tecnica e giudizio di merito, di N. Desenzani

Nei commenti al post “Mulini a vento”, è emerso che per qualcuno è molto chiara la separazione fra giudizio tecnico di un vino e giudizio critico. Aldilà che in questa visione forse sarebbe più corretto usare il termine “valutazione” tecnica, credo che si intendesse sottolineare la differenza fra un’analisi delle proprietà di un vino in rapporto a un sistema di valutazione convenzionale da una parte, e un giudizio altamente soggettivo, in linguaggio anche non tecnico, con riferimento all’esperienza e alle emozioni, dall’altra.
Forse ingenuamente non ho mai colto così nettamente questa separazione. Infatti i sistemi di valutazione convenzionali tentano dichiaratamente di rispondere alla domanda se il vino sia buono e quanto, mentre un giudizio critico, per quanto soggettivo, acquisisce autorevolezza nel momento in cui sia ben argomentato e i ragionamenti e le osservazioni siano di una certa profondità e non di rado difficilmente contestabili, se non proprio dati di fatto.
  
Comunque visto che esiste questa visione dicotomica, ho deciso di cercare un po’ di definizioni. Perché spesso le cose che si danno per assodate, in realtà assodate non sono e ciascuno dà significati diversi dagli altri.
A un certo punto mi si è accesa una lampadina e ho capito come la penso e vi propongo quello che secondo me è un criterio per distinguere valutazione tecnica e, diciamo, giudizio di merito.
Soprattutto mi premeva rendere onore a chi del vino fa un oggetto di studio serio e approfondito e non a chi applica un “canovaccio tecnico” ripetutamente (potremmo dire acriticamente).

La valutazione tecnica dovrebbe avere come scopo quello di correlare le caratteristiche organolettiche e sensoriali del vino (variabili di fruizione), con le variabili di produzione, includendone quante più possibile.



Vuol dire che la geografia, la geologia, il sistema agricolo, il tipo di coltura, il varietale, la microbiologia, il clima, i processi di vinificazione, il vignaiolo, il periodo storico… tutto ciò che concorre in qualche misura al risultato, è utile a spiegare il liquido potabile nel bicchiere. Ma anche la percettologia, la psicologia, la biofisica e la biochimica dell’apparato sensoriale sono elementi da tenere in considerazione per descriverne l’interazione con il degustante.
Le correlazioni spesso non sono certe e precise, ma piuttosto ogni informazione è da leggere come indizio e le corrispondenze come verosimili e plausibili. E però il tentativo è di rendere le correlazioni sempre più pertinenti e stringenti. Ricco di spunti questo articolo.



In questo modo si dà un senso e si alimenta la ricerca sul vino e la critica ritrova un ruolo protagonista in quanto anello di congiunzione fra l’esperienza sensoriale e la complessità dell’oggetto percepito.  
Soprattutto un’analisi critica di questo tipo può non includere alcun giudizio di valore e purtuttavia essere altamente informativa e interessante.

Chi fa per mestiere critica enologica non dovrebbe preoccuparsi del fatto che i nuovi media diano possibilità di esprimere giudizi sul vino a chiunque*. Il loro mestiere di ricercatori seri li dota di conoscenze approfondite e spesso soltanto con la loro esperienza potranno spiegare come alcune caratteristiche di un vino siano correlate alle caratteristiche di produzione e magari anche attraverso testimonianze di tipo quasi filologico.


Così succede che si possa mappare l’espressione dei nebbiolo del nord Piemonte delle sette denominazioni in provincia di Vercelli e Novara in funzione dei terreni e delle caratteristiche di esposizione fino a distinguere nel bicchiere vigne che distano fra loro pochi metri.  E scoprire dai documenti dell'epoca che una grandinata epocale all'inizio del '900 è probabilmente la principale causa del fatto che “I quarantaduemila ettari vitati dell’Alto Piemonte della fine dell’Ottocento erano diventati meno di 700 ottant’anni dopo” (da una comunicazione personale con Luca De Marchi). 



Questo è un esempio di come io intenda la valutazione tecnica. Informazioni che spieghino un po’ il perché di un vino. Poi ben venga un giudizio che mi spieghi anche perché piace.

Credo altresì che il ruolo principale del critico enologico professionale non possa più essere quello di dare un giudizio di merito ai vini. A dar giudizi siamo in tanti qui sul web e una guida, con ambizioni enciclopediche come quelle a cui siamo abituati, non può più competere in modo autorevole alla definizione di ciò che è buono. Persino Fabio Rizzari, dall’Accademia degli Alterati, lancia il suo grido di fiero dolore sul costo, in termini di impegno fisico e mentale, che deve metter in campo un guidarolo professionale: “Ottanta vini al giorno, sei ore seduti davanti al computer per sei mesi” (che forse va scontato dell’iperbole umoristica, ma il senso è chiaro).
Pensate che ottanta blogger (scontato parimenti) possono fare gli stessi numeri concentrando la propria attenzione su un solo vino alla volta.
Chi ritenete possa esprimere un parere più lucido? 
La prima immagine è tratta da gureckislab.org/blog/?p=165 

domenica 2 settembre 2012

Granaccia 1986, Scarrone. Di N. Desenzani


Naso perfetto di tabacchi e cuoio. E poi di arancia candita, antica pasticceria, drogheria di una volta (cit.).
Il tempo nel naso è tradotto in cappero.
Goudron da definizione.

In bocca portentoso. Caldo e fresco.
Grenache!
Tannini ancor belli affilati insieme ad acidità poderosa e un afflato alcolico che ti esplode in tutti i cavi, ma con eleganza. Come aria attraverso le canne di un monumentale organo di chiesa.

Deglutire tabacchi e essere invasi nel retronasale da una spinta violenta.
Certo chi beve solo sopra certe latitudini questa roba se la scorda.

Il legno in cui sostò questo bel liquido era vecchio e io amo questi sentori.
Infine l'uva, in mezzo alla polverosità, esce prepotente a sancire il capolavoro.
Rustico, ma nemmeno tanto.