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venerdì 28 febbraio 2014

Fabbrica di San Martino rosso 2009

di Andrea Della Casa



Il mio rapporto con i vini toscani non è sempre stato idilliaco, anzi.
Tanti, troppi assaggi sbagliati mi hanno un po’ bruciato e fatto nascere in me rigetti pregiudizievoli. Legno a volontà, alcol in eccesso e tanta pesantezza nella beva hanno creato nel mio immaginario mentale una sorta di stereotipo errato. Per questo prima di ogni evento enoico, durante la scelta sulla carta dei papabili futuri assaggi, guardo sempre la Toscana con una certa riluttanza, con distacco, precludendomi così la possibilità di sfatare i miei tabù.
Poi un giorno, durante l’ultimo Fornovo, incontro l’amico Mauro Cecchi che mi incita a provare i vini di Fabbrica San Martino, azienda agricola in lucchesia.
E finalmente si apre una breccia nel muro di difesa che mi ero costruito e inizia a filtrare un raggio di luce.

Anche questo 2009 è un dono di Mauro (che vivamente ringrazio).


Il bicchiere sprigiona un turbinio di profumi variegati che si alternano, si abbracciano. Ricordi di prugne secche, funghi, olive e, sul finale, un accenno di grafite.
E' un sorso caldo, materico, quasi masticabile, una sostanza che ricorda la polposità dell'uva. Il tannino levigato non fa paura, conferisce una certa rotondità (ma non vera morbidezza) e un leggero ritorno amarognolo finale. Acidità non imponente che comunque non esclude una beva snella e scorrevole.
E dopo questo assaggio un riavvicinamento ai vini di questa terra è quanto mai doveroso.

giovedì 27 febbraio 2014

Levato di Gronda, Toscana Igt, 2012, Cooperativa Calafata


Vermentino, malvasia, trebbiano, moscato bianco.
La lucchesia biodinamica è molto dinamica e la Cooperativa Calafata si inserisce in questo humus.
E ci aggiunge il progetto ambizioso, quello di recuperare uomini e donne che hanno avuto problemi di compatibilità con questo mondo. Il tutto partendo, ripartendo dalla terra.
Terra e persone e piante, elementi l’un l’altro indissolubilmente legati.
Con pratiche biodinamiche sulle colline a nord di Lucca producono vini e olio, io ho assaggiato il bianco, prodotto in poche bottiglie, con un taglio molto tipico di quelle parti in cui la malvasia, il moscato entrano con una discreta forza sulla base più neutra del trebbiano.
E’ un bianco nato in questa terra di mare e di montagne bianche di marmi esposti come ferite inferte dalla cupidigia insaziabile degli umani.
Ricco sia pure non opulento, aromatico con garbo e con leggere cadute orizzontali, da bere non troppo freddo per fare esprimere al meglio la delicata aromaticità e la leggera cotè ossidativa affumicata.
Berlo mi ha fatto venir voglia di “schiacciata* e farinata”, le mollezze del vino avrebbero spento la sapidità della schiacciata e la sua untuosità.
Ma, mi chiedo, c’è ancora qualche pizzeria, fornaio che faccia questi strani** panini di focaccia e farinata?
Fatemi sapere, io anni addietro e non voglio nemmeno contarli, aspettavo l’apertura (l’orario era sempre a discrezione dei gestori con variabilità altissima) di una piccola pizzeria a Viareggio, sul lungo mare vicina al canale, confinante con il ristorante Tito del Molo, aspettavo al sole, seduto con le gambe a penzoloni sull’acqua, guardando passare le barche, per prendere una schiacciata e una farinata da mangiare a casa.
Allora non sapevo che si potesse mangiare quella delizia con un vino altrettanto delizioso.
Oggi ho il vino ma temo che la schiacciata sia ormai un ricordo.
Kempè

Luigi

*la schiacciata è una focaccia bassa, salatissima, untissima e buonissima tipica della lucchesia, memorabili, negli anni settanta erano i tranci imbottiti con il cotto, ora è buona ma non è più la stessa cosa.

**strani per me che ero foresto.

Poscritto
Devo questo assaggio e questa scoperta al “cercatore di cose buone” Rosario Levatino

mercoledì 26 febbraio 2014

Little Scarlet Passion


di Rossana Brancato




Complice l’estate detonata in anticipo in Sicilia, complice l'infinita generosità di Pino Cuttaia e il suo scrigno di delizie gourmet uovodiseppiami ritrovo già tra le mani i preziosi cuoricini rossi, le mitologiche lacrime di Venere che si struggeva per Adone:
le fragoline di Marsala.

Precedute dal profumo che alza i decibel della passione, 
tanto inebriano, arrivando fino a stordire per intensità. 
Fugaci, colpi di fulmine da cui lasciarsi folgorare.




Marsala, in provincia di Trapani, è una delle aree più vocate per la coltivazione delle fragoline di bosco, oltre alla spinta aromaticità, sono caratterizzate de una particolare dolcezza, arrivano a superare i 9° Brix, senza perdere il brio acidulo e intensamente fruttato che evoca l’arancia rossa, la rosa damascena, il litchi e il mango.

Una pianta perenne di sottobosco la Fragaria vesca, della famiglia delle Rosaceae, cresce spontanea fino ai 1800 m, viene coltivata in Trentino, nel veronese e in Sicilia anche a Maletto, alle pendici dell’Etna e sotto gli aranceti di Sciacca e Ribera, Agrigento.

I veri frutti sono i semini impertinenti, gli acheni, la fragola botanicamente è il ricettacolo florale accresciuto, che si sviluppa dai piccoli fiori candidi. Dal rizoma si diramano stoloni striscianti e radicanti.

Acquisto e conservazione

La stagione di fragoline e fragole va da marzo a giugno, è necessario lavarle accuratamente e velocemente, in particolare sotto al picciolo, dove possono accumularsi i fitofarmaci. Preferire quelle provenienti da coltivazioni biologiche, o con un piccolo investimento è possibile creare in casa o in balcone una coltivazione pensile ;))

Devono essere profumatissime e perfettamente integre, in brevissimo tempo tendono a deteriorarsi, si conservano meglio fuori dal frigorifero, in un luogo fresco e protette da un telo di lino o cotone.

Ideali per impreziosire torte, piccola pasticceria, bavaresi, semifreddi e crostate.
Provatele addolcite e aromaticamente esaltate dallo sciroppo di lavanda, basta un click per svelare la sublime ricetta per prepararlo di Sara Querzola, di cui non potrei più fare a meno, o classicamente con aceto balsamico tradizionale, succo e zeste di agrumi, yogurt, gelato, chantilly, zabaione, cioccolato e creme.
Ideali anche in abbinamento a formaggi caprini, carpaccio di tonno, pesce azzurro e crostacei e tonno di coniglio.

Nutraceutica

Le fragoline di bosco apportano preziosi minerali: magnesio, potassio, calcio e fosforo, ferro poco assimilabile.
Sono fonte di fibre e antiossidanti.
L’acido salicilico ha azione anticoagulante e antiinfiammatoria, l’acido ellagico antitumorale.
Contengono vitamine B, E, carotenoidi e acido folico.
Sono rinfrescanti, rimineralizzanti, diuretiche, disintossicanti, dissetanti e depurative.

Hanno un contenuto di vitamina C pari a quello degli agrumi, più di 50 mg per 100 g, varia l’apporto calorico: trascurabile per fragoline, fragola, arancia e pompelmo, da consumare con cautela se si assumono farmaci, perché interferisce col metabolismo epatico
importante per i mandarini, che contengono più calorie di banane o fichi.
I frutti più ricchi in assoluto di vitamina C sono i kiwi, 90 mg, il melone, la melagrana, i lamponi, i fichidindia e i cachi.
La frutta esotica importata, dato il tempo di latenza tra la raccolta e il consumo, ne apporta quantità infinitesimali.
Gli ortaggi fonte di vitamina C sono i peperoni, rucola, pomodoro, lattuga, asparagispinaci, indivia, cavoletti di Bruxelles, broccolo e cavolfiore.

Le powerberries di tendenza, bacche di goji, acai, acerola, rosa canina, papaya concentrati di antiossidanti, polifenoli, antociani, acidi grassi essenziali omega-3 e omega-6, fitosteroli, fibre, che ne fanno virtuosi alleati anti stress, anti age, immunizzanti, ricostituenti, tonici, energizzanti...
Utili per prevenire patologie degenerative, aterosclerosi, dislipidemie, deficit cognitivi&co... Hanno massima attività da fresche
Con i trattamenti per la conservazione perdono gran parte della vitamina C.


La vitamina C è estremamente labile al calore, alla luce e viene degradata anche dall’aria. Decade durante il tempo di conservazione degli alimenti freschi. 


La quantità riportata nelle etichette degli alimenti conservati è di sintesi, aggiunta in piccola percentuale agisce da conservante, in alcuni prodotti viene addizionata come integratore alimentare.

Con la cottura si arriva a perdere anche l’80% di vitamina C, ma anche di sali minerali e di vitamine del gruppo B. Nei vegetali è presente l’enzima ascorbico-ossidasi, che degrada la vitamina C, aumenta la sua attività col calore, prima di essere denaturato. 
Consigliabile mantenere una temperatura il più possibile vicina al bollore. 


La vitamina C ha un ruolo biologico in numerosissime reazioni:

  • Biosintesi del collagene, fondamentale per i tessuti, cartilagine, ossa e rigenerazione.
  • Biosintesi della carnitina, nel metabolismo dei grassi e respirazione cellulare.
  • Biosintesi degli acidi biliari e di ormoni.
  • Attivazione dell’acido folico.
  • Metabolismo del ferro, rende il ferro assimilabile a livello intestinale, e il ferro trasportato disponibile a livello cellulare.
  • Inibisce la formazione di nitrosammine cancerogene a livello intestinale, assunte con gli insaccati, alimenti conservati, tossici ambientali, salvaguardando il DNA e le proteine strutturali delle cellule dai radicali liberi.
  • Rigenera la vitamina E nella forma attiva, che protegge gli acidi grassi polinsaturi dalla lipoperossidazione.

Uno dei cataboliti della vitamina C è l’acido ossalico, che viene escreto con le urine.
Per evitare il rischio di formazione dei suoi sali insolubili, che possono portare ai calcoli renali, sarebbe preferibile non abusare di integratori di vitamina C, ma distribuire l’assunzione durante i pasti, con la dieta, in base al proprio stile di vita e al fabbisogno, da valutare con la consulenza medica.

Rossana

martedì 25 febbraio 2014

Pauillac AOC, Chateau Pichon-Longueville, Baron de Pichon Longueville 1998

di Daniele Tincati


Finalmente mi sono deciso ad aprirla.
Ce n’è voluto di tempo ad autoconvincermi, e non del tutto.
Ed anche ora, a bottiglia terminata, non sono ancora del tutto convinto.
Dopo 15 anni, di cui almeno 12 in bottiglia, non è ancora pronto, o per lo meno non lo da a vedere.
Mi spiego meglio.
Decido di aprire una bottiglia che gravita nella mia cantina da circa 5 anni.
Chateau Baron Pichon-Longueville 1998.
E pensare che ci sono pure stato, durante un memorabile viaggio in pullman organizzato dal mitico Giovanni Derba.
Visita alla cantina, degustazione, e poi cena nel castello, una figata.
Ma questa sarebbe un’altra storia.
Estraggo la bottiglia dalla cantina alla mattina, e stappo.
Tappo non particolarmente lungo, ma perfetto.
Nel tardo pomeriggio scaraffo nel decanter per la sera.
Bel deposito di fondo.
L’assaggio è del tutto regolare, un pò chiuso ma regolare.
Cena con un bel pezzo di agnello al forno con patate, la morte sua.
Ma il vino non collabora.
Non ha digerito il fatto che qualcuno abbia cercato di stanarlo dalla sua fortezza.
Arroccato fino alla fine.
Anche il giorno successivo niente, non c’è verso di smuoverlo.
Per la cronaca il vino non era poi così male.
Granato denso, con riflessi rubino.
Tanta materia, ma agile ed elegante.
Gli archetti tardano a partire, larghi, alcuni lenti, altri veloci.
Archi a sesto acuto di vetrata di una cattedrale gotica.
Naso scuro, denso ed intenso di ginepro, chiodi di garofano ed altre spezie.
Piccola concessione a cassis sotto spirito e note balsamiche di legno di cedro.
Bocca secca e morbida.
L’alcool non si sente.
Acidità di rincalzo, che allunga il sorso svanite le morbidezze.
Sapidità non invadente.
Tannino finissimo, fuso alla perfezione nella materia, setoso.
Lunghissimo in bocca, interminabile, con ritorni di legno di sandalo ed incenso.
Il punto è: quanto tempo dovevo ancora attendere ?

lunedì 24 febbraio 2014

Le Barbaterre, Sauvignon metodo classico 2008, sboccatura 2012*


Ho letto da poco le lamentazioni di un critico enologico il quale sostiene che ormai è una moda, dettata dal marketing, secondo lui, quella di fare dei MC con cultivar “anomale” (laddove l’anomalia è quella di non usare quelle classiche della Champagne: chardonnay, pinot nero, pinot meunier).
In linea di principio potrebbe aver ragione, poi pensando che in Champagne, un tempo, si usavano molte più cultivar di oggi (siamo figli della ipersemplificazione) per fare il vino e che forse i primi metodi classici sono stati elaborati a Limoux con cultivar come il mauzac, ho preferito lasciar perdere la coerenza culturale e ho assaggiato facendomi trasportare dai sensi invece che dal cervello.

Il primo colpo basso l’ho ricevuto con il Rio degli Sgoccioli un lambrusco Barghi di Vanni Nizzoli alias Cinque Campi, servito con il solito understatement da Daniele Tincati.
Il secondo colpo con L’Attaccabrighe 2010 di Enrico Togni, barbera camuna non dosata in blanc de noir.
Il terzo l’ho ricevuto assaggiando il MC Sauvignon 2008, sboccatura 2012 di Le Barbaterre.
Mi ha colpito di questo vino l’eco di altri sauvignon prodotti non lontano da Le Barbaterre, quello di Marco Rizzardi e quello archetipico di Camillo Donati.
Quello di Camillo è “tanto” forse fin troppo, figlio di vigneti più bassi, ha materia e esuberanza da vendere ma quel limone confit (limone sotto sale della tradizione magrebina) e quella salvia verde e amarognola c’è in tutti e tre.
Le Barbaterre così come Marco Rizzardi sono a 400 m slm su terreni marnosi e danno dei vini quasi esili, tratteggiati ad acquerello, piuttosto che saturi di colori ad olio.
Acidità e salgemma e limone e cedro e salvia e linfa.
Il Mc di Le Barbaterre è forse ancora più diafano e verticale, una spada, vino di potente dissetanza e leggerezza.
Tracce di Francia per un vitigno che pare molto a suo agio in Emilia e che sposa in maniera quasi perfetta la gastronomia di questi luoghi leggendone il sole e le sue parabole.
Kempè

Luigi


Ps
Fanno anche un Sauvignon in versione rifermentata in bottiglia ed è didattico assaggiarli entrambe per cogliere le differenze che sono molte.

*bisogna ammettere che il termine francese degorgement è molto più elegante della versione italiana così “emetica”



venerdì 21 febbraio 2014

1703, VdT Rosso, Togni Rebaioli

di Niccolò Desenzani



Davvero bello bere Nebbiolo di montagna da terra camuna, in annata equilibrata, fermentato spontaneamente, lavorato al 100% in acciaio. Dove la mano in vigna, come pure in cantina, è quella di un giovane vigneron dotato di muscoli, determinazione e umiltà. 
Bello perchè sono condizioni da laboratorio dei sogni. 
Intendo dire che si può avere subito un'idea di ciò che può venirne fuori, partendo da ingredienti tutti di primissima scelta. 
Resta quindi al bicchiere il compito di parlare del luogo e di come si comporti col vitigno. 
Forse non sarei qui a scrivere se non fossi rimasto stupefatto dal livello di vocazione che si desume dal risultato. I tannini del nebbiolo vengono fuori quasi morbidi ancor più che setosi. L'intensità del vino è fuori dal comune e se è vero che, al primo giorno di apertura, c'è quasi un iperconcentrazione che spinge verso il lucido da scarpe, verso la china, la sera dopo sono basito dalla pienezza del sorso, con quel tocco di salato che fa percepire una quasi dolcezza che ben integra la parte floreale del vitigno. 
Viene fuori l'uva, ben matura, e il profumo, quello, è proprio nebbiolesco!
Una declinazione del vitigno diversa, ma per nulla minore. 
Un bel Nebbiolo di montagna. 
Forse uno zic di acidità in più avrebbe suggellato.
La 2012 riposa in botte e non vedo l’ora di sentire come va avanti il sogno sperimentale.

PS Sono un po' l'ultimo arrivato sui vini di Enrico Togni. Luigi è da anni che ne è perdutamente innamorato e già aveva raccontato l'annata 2007 (allora con un saldo di barbera). Nel rileggere le sue note mi sono ritrovato molto per queste particolari morbidezze che non si conoscono altrove nei vini da uve nebbiolo, più facilmente austero. La qualità del tannino mi ha stupito moltissimo. E nemmeno trovo grandi somiglianze con il Nebbiolo di Mario Pasolini in quel di Mompiano (BS).

giovedì 20 febbraio 2014

Canone Inverso (lotto 2010), Vino Rosso, Cantine Valpane

di Niccolò Desenzani



Si parla di Cantine Valpane da qualche tempo. Ne sono venuto a conoscenza da Stefano Caffarri sul Cucchiaio, che rimase folgorato assaggiando, se non sbaglio, il Grignolino.
Poi ne abbiamo parlato a tratti, ma mancava la conoscenza.
Ho visto i loro vini a Milano prima di Natale, ma non ne ho approfittato.
Infine dai racconti di Eugenio da Sorgente del Vino qualcosa che ha colpito la mia sensibilità: ha scritto che gli erano piaciuti e “che sapevano di buono”.
Allora mi dò una mossa e vado a prendere il Grigno. Finito. Vada per il Canone inverso, il Freisa di casa Arditi.
Freisa si sa mica è roba facile facile. Il tannino non è proprio levigatezza. Però è uva che dà vini di carattere e che secondo me invecchiando tirano fuori risultati sorprendenti (ricordo un assaggio da Brezza di un Freisa con qualche anno sulle spalle di grande eleganza). Forse per questo il Freisa di Valpane esce con qualche annetto di affinamento, a palato direi in botti abbastanza grandi o in cemento.
Appena versato ha qualche sfocatura, qualche sbuffo di verderame, ma poi comincia a rilassarsi e diventa quasi morbido e sensuale. Resta traccia evidente del tannino d’origine, ma riesce ugualmente a conquistare per piacevolezza scorrevole e buona freschezza.
Un vino confortevole, ma per nulla banale, che ha una sua cifra negli spigoli smussati e in un che di modernariato antiquario. Non uno stile old, non moderno. Qualcosa che mi ha riportato colla mente alle fiere brocante che nella piccola provincia italiana hanno la cadenza dell’ordinale del fine settimana del mese.
Bella scoperta.
M’è venuta voglia di bere il Grignolino.

mercoledì 19 febbraio 2014

otòbbor 2008, Crocizia

di Niccolò Desenzani





Dei vini di Marco spicca sempre una certa magrezza, che li rende talvolta non capiti o comunque sottovalutati. Non fa eccezione la sua barbera (qui con croatina e pinot nero), generalmente vino da giorno dopo, per darle il tempo di acclimatarsi con l'ossigeno, smussare qualche durezza e dire la sua sul terreno di provenienza e l'annata metereologica.
Poi c'è che un rifermentato non è mai uguale a sé stesso. Continua a muoversi. E quindi capita che dietro la stessa etichetta, venga fuori un carattere sempre leggermente diverso.
Inoltre con i rossi c'è un equilibrio fra frutto, assetanza/dissetanza, chiusura, puzzette, vinosità, secchezza, morbidezza e consistenza che determina la qualità della beva.
Metteteci che vini di Marco sono una trasformazione molto diretta dell’uva e quindi solo il tempo può eventualmente dire la sua in bottiglia.

In questo quadro leggo l’Otòbbor 2008. E il tempo ha fatto un bel lavoro.


Al naso si percepiscono i frutti a bacca selvatici e, inaspettata, un’idea di vaniglia, che si ritrova in bocca a cercare di ammansire un'acidità fiera e compiuta. Un coté di evoluzione verso la sontuosità che trasforma il vino da buono in sorprendente. Un tannino gessoso completa l'equilibrio gassoso dando la spinta fra un sorso e il successivo in mezzo a sferzate di arancia moro.
A tratti quasi cioccolatoso, con bacche acide e erba di montagna.


In definitiva c’è un carattere complesso dietro ai vini di Crocizia che io credo racconti precisamente la storia dell’uva, delle piante e di quel terreno incontaminato che ormai qualche lustro fa i due uomini decisero di coltivare a vigna.

Quel “che” difficile da decifrare, ma bello da scoprire.



Marna gessosa a Crocizia (sul sito di un antica cava)

martedì 18 febbraio 2014

Chianti Classico Riserva Baron'Ugo 2007, Monteraponi

di Niccolò Desenzani



Questa volta un vino acclamato.
Un po’ un mostro sacro.
Alle volte con questi presupposti non si sa bene se partire ottimisti o particolarmente cauti, ché nell’un caso la delusione è dietro l’angolo, nell’altro si rischia di passare il tempo alla ricerca del pelo nell’uovo e si perde un po’ di slancio godereccio.
Di fatto ho affrontato questo vino in un’altalena fra le due. Ma per fortuna il vino stesso mi ha aiutato a focalizzare la visione.
Checché se ne dica, al primo impatto il vino ha delle acerbità, che presto con l’aria si diradano quasi completamente, ma un loro ricordo rimane.
La progressione dall’apertura è piuttosto travolgente, presto il vino comincia il suo veloce mutare e mettersi a fuoco, fino ad arrivare ad un livello di nitidezza impressionante.
Una dinamica che per un poco mi ha fatto pensare a lieviti selezionati, oltre che una limpidezza  da vino filtrato e quell’ombra vegetale che mi par quasi in accordo con la mancanza di feccia in bottiglia.
Tuttavia Michele Braganti parla chiaro sul sito aziendale e dice fermentazioni spontanee, nessun controllo termico e infine nessuna filtrazione. E quindi forse è solo la prigionia della bottiglia che ha reso così copresso e pronto ad esplodere questo vino.
In ogni caso è un vero lavoro di precisione miniaturiale, ogni sentore e sapore del sangiovese esplorato nelle note più fini ed eleganti e balsamiche, in perfetta congiunzione con i sentori della botte, anch’essi gestiti con maestria.
Tuttavia se devo scegliere in mezzo a tanta nobile eleganza l’aggettivo per questo bel vino, forse scelgo “succoso”.
C’è un momento in cui raggiunge livelli di irresistibilità da beva compulsiva e allora non te ne frega più molto dell’apparato complesso e dei particolari cesellati, vuoi solo bere e bere. 
È fatto chimico, non ci puoi fare nulla.
Questo aspetto del Baron'Ugo, insieme a una piccola commozione nel riberne un bicchiere il giorno dopo, formulando espressioni mentali di meraviglia e compiacimento per il più che brillante superamento della prova, ne fanno indubbiamente un oggetto enoico di grande pregio e di rara piacevolezza.

Particolare curioso il tappo del vino porta la dicitura Chianti Classico Riserva 2006.
Che abbia bevuto quell'annata?

venerdì 14 febbraio 2014

Romorantin 2011 Puzelat

di Niccolò Desenzani





Il Romorantin di Puzelat è un assaggio desiderato da tanto tempo, mancato di un soffio in un paio di occasioni. Poi arriva il giorno in cui finalmente ne ho una bottiglia e, ancora, il giorno in cui lo metto in frigo e, poi, la sera in cui decido che è giunta l’ora.
Lento sono, ma arrivo.

Naso che non posso che definir francese. Si intuisce già l’intensità, ma i presagi non sempre sono ben interpretati.
Poi lo metto in bocca.
Una bomba di sale e acidità e subito di pseudodolcezza esplode e percuote i ricettori.
Non è residuo, ma una carezza di velluto spesso.
In un accordo minimalista di naso ricco e multicolore, sapidità da shock arterioso e acidità ben gestita si sviluppa un teatro gustativo di una forza impressiva rara.
Poche note che si impongono e totalizzano lo spettatore.
Gli occhi strabuzzano ed è un piacere scomparire in questo abbaglio.

Così per info riporto qualche dato (credits to Les Caves de Pyrène): "una vigna del 1905 , una vigna del 1973 con viti franche di piede , Silex ( pietra focaia ), un rendimento di soli 25 hl/ha".

giovedì 13 febbraio 2014

I Topinambur o Jerusalem Artichoke, sono tuberi virtuosi!

di Rossana Brancato



























La pianta dell'Helianthus tuberosus, appartiene alla famiglia delle Compositae, è perenne, fiorisce ad agosto, i capolini  gialli hanno un diametro di dieci cm, somigliano a piccoli girasoli, ha un portamento che arriva ai due/tre metri.
Originaria del Nord America, arrivò in Europa nel diciassettesimo secolo.
Due le principali varietà coltivate, a buccia bianca commercializzata già da fine estate o a buccia rossa disponibile fino a primavera.

I topinambur crudi hanno un sapore vagamente tannico, ricordano le noci, deliziosi con la bagna cauda o la fonduta; 
versatili cotti: buoni semplicemente scottati al vapore, saltati in padella, nei risotti, abbinati alla dolcezza di molluschi, crostacei o al baccalà.
O elaborati in vellutare e purée, fritti diventano speciali chips.


Nutraceutica

100 g di topinambur forniscono circa 80 kcal, rizomi tuberosi sì, ma contengono molti meno amidi calorici della patata.
Fonte preziosa di inulina, fibra solubile, contenuta anche nella cicoria o nel radicchio.
L'inulina è un polimero del fruttosio, substrato ideale per la flora batterica intestinale, Bifidobatteri e Lactobacilli, che contrastano i batteri patogeni e mantengono in salute il colon.
Aiuta la digestione, contrasta la formazione dei gas intestinali, può avere effetti lassativi a dosi elevate, richiamando osmoticamente acqua.
Migliora anche il profilo glicemico e lipidico, le fibre rallentano e abbassano l'assorbimento intestinale di zuccheri e colesterolo, aumentando il senso di sazietà.
Possono essere consumati anche dai diabetici, celiaci e da chi adotta regimi alimentari per il controllo del peso corporeo.
L'inulina viene utilizzata come additivo nei gelati industriali, per migliorarne la struttura, diminuendo i grassi aggiunti, ma si trova anche nei prodotti da forno.

Contengono Potassio, Magnesio, Ferro poco biodisponibile e Fosforo, vitamine B e biotina preziosa per la vista, amminoacidi come l'asparagina e arginina.


Acquisto e conservazione

I topinambur si trovano spesso confezionati in vaschette da 500 g, se vi è possibile acquistateli sfusi, scegliendo quelli che hanno forma regolare per limitare lo scarto, devono essere turgidi, croccanti se spezzati, non devono avere sentori di muffa, lesioni o ammaccature.
Si conservano in frigo, inserendo della carta da cucina nel sacchetto di plastica o nel contenitore per assorbire l'umidità in eccesso.


Rossana




mercoledì 12 febbraio 2014

Barbera d'Asti "Primevigne" 2011 - Marco Minnucci

di Andrea Della Casa




Marco Minnucci ha poco meno di 30 anni e produce vino in quel di Costigliole d’Asti.
Le sue vigne sono esenti da prodotti di sintesi e in cantina non utilizza lieviti selezionati né altre scorciatoie chimiche che possano snaturare il prodotto dell’uva.
In verità il mio sapere barberistico è ancora ampiamente lacunoso (nonostante gli amicidelbar mi abbiano iniziato da tempo ad un efficace percorso di indottrinamento) ma sono quasi certo nel definire questa barbera tipica, decisamente associabile al vitigno.
Profumi  vinosi, di ribes, sottobosco e ricordi di viole introducono un bicchiere snello, sapido, di freschezza a tratti balsamica. L’acidità è giustamente predominante ma non prevaricante, non aggressiva, avvolta in una delicata morbidezza fruttata.
L’equilibrio in bocca stupisce.
Bevibilità pericolosa.

Non vorrei frettolosamente azzardare, ma potrebbe superare beatificazione e santificazione ed entrare di diritto nella cerchia delle mie barbere preferite.

martedì 11 febbraio 2014

Se col Brodo non ci bevi solo acqua

di Daniele Tincati


L'ho sempre fatto anch'io, fin da quando ero piccolo, per ovvi motivi, ma anche dopo, per scelta, di bere solo acqua in accompagnamento al brodo di carne.
Brodo in cui galleggiano, o affogano, gli oggetti non identificati più svariati, dai tortellini ai passatelli, passando per anolini e cappelletti.
Ma si può avere di meglio.
La diatriba sorge spontanea su bianco o rosso.
Meno conflitto sul fermo o frizzante, dove le bollicine hanno la meglio.
Chi ama una Malvasia frizzante, chi un Lambrusco rustico e sgrassante.
Nel mezzo, di ogni.
E' cosi che ho trovato la mia tipologia perfetta, o la bottiglia perfetta.
Cosi mi pare e "a me mi piace".
Un Metodo Classico rosso di Lambrusco.


Poco importa se è di una varietà poco diffusa e conosciuta.
Oppure importa, ma non stiamo a sottilizzare.
Vanni Nizzoli ha trovato la sua giusta dimensione col Metodo Classico ( cit. N.Desenzani ), parlando a più ampio spettro dei suoi ultimi vini.
Sta di fatto che questo vino è perfetto con il brodo e i suoi abitanti.
E non solo.
E' veramente una bella bottiglia.
Lambrusco Barghi in purezza.
Ho assaggiato la stessa annata 2011 in più riprese di sboccatura ( nov.2012, mag.2013, sett.2013 ).
L'evoluzione è stata lineare, passando dal frutto pieno a note più evolute, mantenendo un suo equilibrio.
Rosso rubino brillante, scarico.
Un'effervescenza abbondante, ma fine, inonda il bicchiere di spuma dai riflessi violacei tenui.
Profumi di piccoli frutti rossi si mischiano alla roccia macinata.
Una nota verde viene coperta da un'altra fumè.
La mineralità di rovo di una Schiava della Val Venosta.
In bocca è fresco, sapido, la carbonica scoppietta ma non esplode.
Secchissimo, con un bel corpo avvolgente.
Tannino lieve appena accennato.
Finale non particolarmente lungo, ma appagante, che sa di buono.

lunedì 10 febbraio 2014

costruire speranze



Come sapete, ormai da tempo e ripensandoci, è proprio molto tempo che ho un’avversione per l’utilizzo della chimica (non ditemi che rame e zolfo sono anch’essi prodotti chimici, lo so benissimo!) in agricoltura; la mia è una avversione per lo più di pensiero, culturale, etica, se volete anche un po’ naif.
Raramente ragiono con in mano i numeri, le statistiche, i diagrammi, non mi interessano e non perché li ritenga sbagliati o inaffidabili ma perché non sono parametri su cui le persone, io, formiamo il nostro giudizio, il cervello non è un processore e se ne frega dei numeri, si nutre dei colori e delle emozioni, delle empatie.

Molti rideranno e lo riterranno un modo di pensare stupido, avulso dalle conquiste della umana razionalità scientifica se non addirittura pericoloso perché fuorviante in quanto del tutto irrazionale.
Eppure è stato un modello comportamentale empirico che ha portato uno dei mammiferi più lenti, deboli, indifesi a colonizzare il mondo sopravvivendo alla natura.
Oggi credo che si voglia sopravvivere alle spese della natura, oppure si è operato uno scarto concettuale gravissimo che è quello di aver scambiato i modelli interpretativi del mondo con il mondo reale. Per cui se la realtà non va come la abbiamo immaginata nelle previsioni, non cambiamo i modelli previsionali ma cambiamo il mondo affinchè si adegui alla visione che noi ne abbiamo.























In passato molti mi hanno attaccato adducendo il fatto che senza industrializzazione dell’agricoltura non ci sarebbe stata la Green Revolution, a questo rispondo che l’unica cosa che la Green Revolution ha portato è stata la distruzione del lavoro nelle campagne, l’esodo, l’inurbazione forzata, l’aumento dei consumi di energie non rinnovabili, i dissesti idrogeologici, la dipendenza delle campagne dalle industrie chimiche ed energetiche.
Quali sono i modelli agricoli più produttivi per ettaro?
Quelli, tipo gli orti, le policolture ad alta intensità di lavoro.
Il modello ora in vigore ha basse rese produttive per ettaro che compensa con scarsa intensità di lavoro e con il consumo spasmodico sia di energie non rinnovabili (concimi, gasolio, pesticidi) sia di terra.
In questo momento di crisi bisognerebbe attuare, innescare, favorire il ritorno a lavori ad alta intensità come quelli agricoli, forestali, manutentivi, idrici proprio per assorbire i milioni di disoccupati (non lo dico io ma Luciano Gallino e Noam Chomsky e altri).
Bisognerebbe ritornare alle campagne e a stili di vita a basso impatto energetico ed antropico.



Questi pensieri sono nati leggendo i primi capitoli de “Il veleno nel piatto” di M.M. Robin, Feltrinelli, in particolare ciò che mi ha colpito è stato un dato analitico (ogni tanto li guardo) sulla efficacia dei pesticidi:
“Si stima che 2.500.000.000 kg (due miliardi e cinquecento milioni chili) di pesticidi vengano riversati ogni anno sulle coltivazioni del pianeta (dati del 1996). La parte con cui gli organismi bersaglio entrano in contatto o che ingeriscono è minima. La maggior parte dei ricercatori la valuta in meno dello 0,3 per cento. Questo vuol dire che il 99,7 per cento delle sostanze versate se ne va altrove. Poiché la lotta chimica espone inevitabilmente ai trattamenti degli organismi non bersaglio, tra cui l’uomo, si possono manifestare effetti secondari indesiderati su alcune specie o comunità o su interi ecosistemi.” Hayo van den Werf, agronomo dell’Inra.
Malgrado ciò il 35% dei raccolti viene distrutto dai parassiti: 13% insetti, 12% piante patogene, 10% piante infestanti.

Credo che la prossima che avrò mal di denti, salterò su una mina antiuomo, il male passerà di sicuro.

Al di là della battuta macabra, è ora di fare qualcosa è un dovere che dobbiamo assumerci tutti insieme, quello di costruire delle speranze.

Luigi

Ps

Nei 2.500.000.000 kg di pesticidi ci sono: benzene, manganese, bromuro di metile, clorofenoli (costituenti dell’agente arancio), acido Mcpa…

venerdì 7 febbraio 2014

Viticoltura eroica a Le Selve

(di Andrea Della Casa)

Breve incipit a questo post per rendere merito all’amico Fabrizio e al suo libro che mi ha permesso di conoscere e incontrare luoghi e personaggi emblematici della Valle d’Aosta.
Grazie a quelle pagine sono arrivato a "Le Selve" da Nicco Rolando. Le sue vigne maestose vigilano le porte di Donnas, inerpicate sulla montagna grazie alla nobile opera dell’uomo che, pietra dopo pietra, ha reso possibile l'improbabile.

Questo scorcio di montagna ospita principalmente viti di picotendro (è il nome del nebbiolo in Valle) che si traducono poi in circa 4000 bottiglie di vino. Piante con parecchi lustri sulle spalle.Sui tralci ancora alcuni grappoli sopravvissuti a vendemmia e cinghiali, appassiti, sì, ma incredibilmente non decomposti e dolcissimi ancora all'assaggio. A metà gennaio! 


L'approccio in vigna per Rolando è fortemente biologico e il suo tempo viene risucchiato principalmente dai lavori in campo. Vista la non eccessiva comodità delle vigne nel periodo primaverile-estivo "...non faccio in tempo a finire di sfalciare l'erba su tutto l'appezzamento che è già ora di ricominciare" dice. 
In cantina lieviti indigeni, nessuna filtrazione né aggiunta di solforosa.

Mentre salgo i ripidi gradini manufatti che collegano i vari terrazzamenti non riesco a non pensare al lavoro compiuto per realizzare questa opera d’arte. 
Quanta fatica, quanto sudore. E, per logica, mi interrogo sulla convenienza economica di tutto ciò. Per portare i lunghi e pesanti travi che devono sorreggere i pergolati è necessario l’elicottero e ogni giro di pale sono cifre e a tre zeri.La densità di piante è irrisoria, lungi dalle abitudini padane, e per la vendemmia è fondamentale la monorotaia. Eppure è uno spettacolo e per me, visitatore, la convenienza c'è sicuramente.


Forse incomincio a capire cosa si intende per viticoltura eroica!



giovedì 6 febbraio 2014

Alla ricerca del Graal dei distillati

di Vittorio Rusinà


E' una notte di pioggia, è una notte di sogni, è una notte di scelte.
Ho rimandato troppo a lungo la decisione, impaurito dallo scegliere di allontanarmi dalla via del vino per scegliere di percorrere la via del distillato,
lasciare il conosciuto per lo sconosciuto, certo le vie corrono parallele, la direzione è la trasformazione, natura e uomo entrano in contatto e elaborano.
Il miracolo è la trasformazione.
A spingermi sulla via è stato l'incontro con la passione di Gianni Capovilla e i suoi distillati di frutta, è stato l'amore sviscerato di Randall Grahm per le Chartreuse invecchiate, è stato l'assaggio di un vecchio rum Caroni, di un genepy fatto in casa, di un saké da riso bio integrale, è stato il constatare che quasi più nessuno, anche fra gli enostrippati, al ristorante o a casa beve distillati.
Il mio sarà un viaggio alla ricerca del Graal dei distillati, dei distillati artigianali, dei #distillaticolki, in esclusiva per gliamicidelbar che sono certo mi sosterranno in questa ardua impresa.
Perché si torni a bere "distillato".


Donum Dei, Georges Aurach