Pagine

mercoledì 28 ottobre 2015

Dedicato a Nadia Verrua


La bottiglia è stata aperta una settimana prima, sorseggiata quasi metà, poi tappata e dimenticata sotto il lavello, Bandita 2012 c'è scritto sull'etichetta.
Tremo mentre verso il vino nel bicchiere dell'acqua, manco mi sono alzato a prendere il calice, sarà appena bevibile penso...sorseggio e BOOM! sono tramortito dalla bontà.
Rimango attonito qualche minuto, poi corro a prendere il calice delle grandi occasioni. E' un'esplosione di more, vignole, bacche, denso quasi di polvere terrosa, tutto materia, terziari a palla, vivo di un vivo quasi come se nulla potesse alterarlo.
Sono ebbro, felice, commosso dall'alchimia, dall'alchimista, che ha prodotto questo vino non solo per sè ma per condividerlo con gli altri.
E' l'ennesima conferma delle immense potenzialità dell'uva barbera nelle giuste mani, è l'ennesima conferma che il rispetto, la cura della vigna e della naturalità della materia prima sono la strada da seguire.
Allora mi alzo in piedi e alzo il calice. Dedicato a Nadia Verrua, Cascina Tavijn.

mercoledì 7 ottobre 2015

Il Gewurztraminer secondo Cristiana Galasso, cronaca di un pranzo di fine agosto in Abruzzo Citeriore

Di Vittorio Rusinà 
 
Dopo il lungo viaggio dal Nord è una gioia sedersi al tavolo della "cucina all'aperto" davanti alla cantina di Cristiana Galasso, gli occhi alla piccola vigna di muller thurgau e alla grande vigna più in su sulla costa della collina, vigna che un giorno verrà, così dicono i segni nell'orizzonte.
"Assaggiate quest'uva!" ci dice Cristiana, posando sul tavolo imbandito, un grappolo dagli acini color del sole con sfumature di tramonti "E' Gewurztraminer, l'uva più buona che c'è."



In effetti è un trionfo di bontà, io, Eugenio e Riccardo rimaniamo basiti spiluccando l'uva, è buonissima.
Ma la vera magia è quella di farci assaggiare un calice di Gewurztraminer ancora sulle bucce, ormai da quasi un anno, un piccolo esperimento con l'uva vendemmiata nel 2014.



In un attimo è come essere trasportati ad un'era antica, quasi preistorica, di fronte al vino primordiale.
E tutto intorno fu silenzio, Dioniso era lì con noi, solo le api osavano avvicinarsi ai calici, e fu estasi.

lunedì 28 settembre 2015

Ortrugo frizzante 2014, Gaetano Solenghi




di Niccolò Desenzani

Ho assaggiato questo vino in occasione di un evento cui partecipavano molti produttori piacentini, in una bellissima serata di tarda estate alla Faggiola di Gariga di Podenzano.
Per la verità il sorso quella sera mi aveva dato l’impressione che il vino ancora dovesse svolgere qualche processo nella bottiglia. Cosicché ne ho prese due bottiglie e le ho lasciate in garage, dove la temperatura può anche alzarsi un po’. Non ho però resistito alla curiosità e poche settimane dopo ne ho messa una in frigo. Poi è arrivata la prima domenica uggiosa milanese, passata per lo più in casa a far lavoretti, ma con l’inaspettata visita di un antico amico.
Così nel preparare un risottino, ho stappato questa bollicina naturale: wow che spettacolo!
Ortrugo, ma poco o nulla birroso, intenso leggermente amaricante e con una vena di ossidazione grassoccia che fa veramente godere.
Non è dato sapere se vi sia un futuro longevo in una bottiglia così giovane eppur già così pronta, figlia di un annata light, ma con una sostanza parecchio incisiva e con una qualità “ossidativa” incredibilmente ben formata.
Io bevo e immagino già una gita da Gaetano Solenghi e da suo figlio Nicola.


giovedì 24 settembre 2015

Picotendro

di Andrea Della Casa

In cantina trovo questo ricordo di un viaggio passato e decido sia giunto il momento di rievocarlo.
Nebbiolo valdostano, vinificato in bianco, già di per sé mi incuriosisce. 
Ma le sorprese non sarebbero finite qui.
Stappo, mescio e……grande stupore! Nel calice si eleva una decisa “frizzantezza” che non è una semplice rifermentazione carbonica, ma più tra il pétillant e il frizzante vero e proprio. 
Onestamente rimango un po’ basito di fronte a tale inaspettata reazione.
Si propone in veste giallo intensa, quasi ambrata, ricordando assieme a leggere note dolciastre qualche tipologia di birra a doppio malto.
In bocca è abboccato, decisamente, senza sconfinare nei terreni della stucchevolezza grazie forse anche alle bollicine ben presenti che ne sostengono la beva.
Presente una innocua punta ossidativa.
Setoso quasi vellutato, riempie ogni angolo del palato con le sue rotondità e la sua pienezza.
Bevuta insolita, atipica, comunque non sgradevole.
Rifletto poi sull’effervescenza scalpitante. 
Voluta o casuale? 
Malolattica svolta in bottiglia?
Non azzardo sentenze e rimango nel limbo del mio dubbio.


mercoledì 23 settembre 2015

Casèbianco 2014, Casè



di Niccolò Desenzani

Nel Casè bianco è una vigna vecchia a finire in bottiglia. L’uvaggio è una combinazione piacentina: malvasia di candia, marsanne, ortrugo e moscato (se ricordo bene) e qualche grappolo a bacca rossa: quello che c’è nella vigna.
Inevitabilmente iperaromatico, al naso soprattutto, si rivela in bocca un vino dall’equilibrio tattile quasi perfetto e gustosissimo nonostante i suoi undici gradi alcolici. Una spinta acidina si lega al grip tannico e il sapore intenso e appena salato riempie di senso una sfumatura watery, forse firma dell’annata.
Si beve con grande piacere e sposa l’idea profonda del vino da tutti i giorni.
Mi colpisce l’esecuzione perfetta: spremuta d’uva fermentata fino in fondo. Colore dorato e velatura sontuosa. Non un difetto al naso e non uno in bocca. Eppur la sensazione netta di rustico. A memoria sensazioni simili le ricordo assaggiando il bianco di Trinchero.
Voglio una vita di vini anche così: accessibili, sorprendenti, non impegnativi e… veri.

giovedì 17 settembre 2015

Petill' Gris 2011, Domaine Pente des Coutis

di Daniele Tincati
 


Era un po’ di tempo che volevo assaggiare questo vino.
Le condizioni necessarie per una buona bottiglia c’erano tutte: il Pineau D’Aunis in primis, una vera ossessione degli ultimi tempi, da quando assaggiai il mitico Le Verre des Poetes 2009 di Emile Heredia, vicino di casa del domaine in questione, e del quale segue ed aiuta le vinificazioni.
Poi la rifermentazione in bottiglia, altra mia fissazione, da deformazione cultural-regionale.
Così ho acquistato un paio di bottiglie, quelle che ho trovato, il 2011, anche se, essendo un Vin de France non può riportare l’annata in etichetta, ma questo si deduce dal numero del lotto di imbottigliamento.
Così stappo la prima, ma non scocca la scintilla.
Il vino è marcato dai sentori classici del Pineau D’Aunis, spostato sulle note amare di radici, che ne condizionano in effetti la chiusura gusto olfattiva, non particolarmente gustosa.
Anche l’impronta alcolica, benché contenuta sul 12,5%, risulta sbilanciata, non supportata da spalle robuste, porta la componente di morbidezza ad essere un filo sopra le righe, con apporto di leggero residuo zuccherino.
Insomma, un mezzo disastro.
Ma l’abbinamento da aperitivo ed antipasti leggeri non lo ha favorito, anzi.
Così, perplesso, finisco la bottiglia nei giorni successivi, senza trovare un miglioramento percettibile, ma senza che il vino abbia un qualsiasi cedimento o deriva di qualche tipo.
La seconda bottiglia, finisce quindi per restare in attesa di un secondo tentativo, senza troppa convinzione.
Poi, una sera decido di fare wurstel e patatine fritte, e non trovo birra per casa.
Mi butto in cantina senza idee precise, deciso a non bere acqua minerale, ma neanche a stappare uno Champagne.
E qui la folgorazione.
Mi trovo davanti la bottiglia di Petill’Gris, ed in un’attimo mi scorrono in mente le sensazioni gustative del primo assaggio, e capisco che è il momento giusto.
In effetti il vino, col giusto abbinamento, sembra un’altra cosa, più simile ad una Tripel belga che ad un Pineau D’Aunis rifermentato in bottiglia.
Leggera carbonica, colore rosa buccia di cipolla, non molto brillante, con velature mature.
Naso leggero di note amarognole tipo luppolo, e dolciastro.
In bocca l’alcool si sente, fa squadra col residuo zuccherino, e le note amare.
Insomma, un vero effetto birra, e il vino va giù che è un piacere.
Uno degli abbinamenti più azzeccati che ho fatto negli ultimi anni.
Sono sempre più convinto che per certi vini, non per tutti, l’abbinamento corretto è fondamentale per poterli apprezzare.
Non si può sorseggiare qualsiasi cosa come aperitivo, così come è molto difficile valutare bene un vino al primo assaggio, figuriamoci un assaggino ad una fiera.
Certo, ce ne saranno certi che ben si pongono, ma i più ostici resteranno poco apprezzati.
Per molti vini bisogna trovare la chiave, e non è facile.
Noi intanto ci proviamo, cerchiamo le chiavi, soprattutto degli scrigni più nascosti e segreti.
Ce ne sono tanti in giro, basta saper cercare.
Salute.

 

martedì 25 agosto 2015

Metti 3 amici del bar, che una sera di fine estate, partono per un viaggio fra Marche e Abruzzo...


D'improvviso, qualche tempo fa ci è venuta un'idea, a me, a Eugenio e Riccardo: "E se verso la fine di agosto si partisse insieme ad andare a visitare qualche vigna e qualche cantina tra Marche e Abruzzo?". Sembrava impossibile a realizzarsi e invece, eccoci qua in partenza.

Il mezzo è stato scelto per raggiungere la meta finale che è Feudo D'Ugni e che sta al fondo di una stretta strada sterrata in mezzo ai boschi, fondamentali sono le damigiane e le taniche per l'asporto di vino direttamente dalle vasche.

A San Valentino in Abruzzo Citeriore ritroverò Cristiana Galasso e Lorenza Ludovico, due vignaiole che stimo, e sarà gran festa sotto la tettoia, là vicino alla piccola vigna, in mezzo ai gatti, seduti attorno al grande tavolo, il vino scorrerà a fiumi e sarà convivio. (Vittorio).


Sentivo il  bisogno di un viaggio del genere; ho passato per tanti, troppi motivi, molto tempo lontano da questa mia grande passione. In più sono da sempre convinto che per comprendere al meglio una bottiglia di vino, si debba conoscere il territorio, viverlo anche se per poco, passeggiare per le vigne, in cantina, ma soprattutto conoscere ed ascoltare la persona che sta dietro a questo nettare colorato. È nata un po' così l'idea di questo viaggio. Quasi per ripartire, per ritrovare se stessi e ritrovarcisi (per quello che mi riguarda, almeno).

Sì, questo mi mancava: viaggiar per vignaioli/e e vini. Quale occasione migliore, se non assieme ad alcuni #amicidelbar?

Perché Marche e Abruzzo? Perché era da tempo che volevamo andare, perché di alcuni vini che adoro non conoscevo appunto il territorio, o per stringere calorosamente la mano a persone che stimo.

Passeremo quindi dall'Oasi Degli Angeli, da Mida, da Emidio Pepe, Da Lammidia, per finire in bellezza da Cristiana Galasso di Feudo D'ugni, come anticipato sopra da Vittorio. Ma anche da altri, se ne avremo le forze.

Partiremo mercoledì 26 agosto prima dell'alba, senza sapere nemmeno dove dormiremo (se avete qualche suggerimento, scriveteci), ma con la certezza che sarà un viaggio indimenticabile. (Riccardo).



Facciamo un gioco. Ci vogliono: una cartina dell'Italia; una freccetta; un braccio. Alzi il braccio e tiri la freccetta. Ecco, (quasi) ovunque tu abbia infilato la punta, lì c'è un reperto archeologico, Così dicono. E una vigna.
Ecco, noi  non siamo archeologi. E, a dirla tutta, non è che si è tirato bendati. Diciamo che abbiamo sbirciato. E' che si voleva andare verso sud. Verso un sud che ci attira come api al miele. Le Benedette-da-Dio Marche e Abruzzo. E così passeremo da quel gruppo di supereroi mascherati i Piceni Invisibili. Si ripasserà da Pepe, Emidio, quello vero. Ci faremo ingolfare fino all'ingolfabile di arrosticini dai ragazzi di Lammidia. E ci butteremo alla Fiera dello Struscio dei gatti di Cristiana.  Romagna-Marche.Abruzzo-Italia: una faccia, una razza. (Eugenio).

P.S. Ci sarà anche un hashtag: #gliamicidelbarinviaggio. Seguiteci!

mercoledì 17 giugno 2015

Distilleria Quaglia. Distillati di qualità (e non solo) in città.


Camminando per la città, sempre più spesso capita di percepire la voglia genuina di sperimentare prodotti d'eccellenza, il bisogno di andare oltre il clichè dei locali alla moda tutti irrimediabilmente  uguali nella concezione del locale stesso e spesso con prodotti molto simili tra loro. 
Eccoci a parlare allora della Distilleria Quaglia, lo spaccio/dinner bar, nato un paio di mesi fa nella fucina di eventi e talenti che sta rapidamente trasformando il quartiere Vanchiglia a Torino.
Il locale si propone innanzi tutto come punto di vendita diretta dei prodotti di casa Distilleria Quaglia, azienda che opera dal 1890, immersa tra l'astigiano e la collina torinese e che si trova capitanata ormai dalla quarta generazione di famiglia. Il catalogo dei prodotti proposto dall'azienda è impressionante si va dalla grappa nelle sue trenta e passa varianti, ai liquori e amari tradizionali, molto buono quello al chinotto, ho avuto anche occasione di assaggiare un' ottima vodka, davvero lineare e pulita.
Punta di diamante, inoltre, è il Vermouth del Professore che nella versione rossa è  l'unico vermouth al mondo creato a partire da vini bianchi e rossi 100% italiani, con aromatizzanti dati al 100% da vegetali e prodotti internamente all'azienda che matura per sei mesi in piccole botti di rovere andando a ricalcare il percorso di un identità squisitamente torinese.

Tra le altre cose mi ha molto colpito anche la determinazione del barman nel voler legare i cocktails al territorio, studiando la tradizione e tentando di rinnovarla. Per quel che riguarda le birre, tengono la linea del birrificio Have a Nice Trip, ma comunque è un locale che va a toccare altre corde, quindi non parlerei molto di birra, buona anche la selezione di vini e la cucina mi è parsa interessante, tuttavia non ho avuto modo di approfondire.Un locale da tenere sicuramente in considerazione a Torino se siete amanti del buon bere e volete scoprire qualcosa di diverso. [deLa]

Distilleria Quaglia, via Giulia di Barolo 54, Torino, Tel. 011 1950 0519
https://www.facebook.com/distilleriaquaglia

lunedì 15 giugno 2015

Birra Montegioco, La Mummia 2011.


Ci sono birre a livello mondiale che sono ammantate da un'aura quasi mistica, birre perdute nel tempo, che hanno fatto la storia oppure che seguono dei percorsi produttivi particolari che le rendono uniche. La Mummia del birrificio Montegioco è una di queste. Nasce come esperimento di birra acida ad opera di Riccardo Franzosi, la base per il primo esperimento fu la Runa messa in botti che avevano ospitato la Creatina di Elisa Semino (Azienda Agricola La Colombera), ma sembrava che l'esperimento non riuscisse ad intraprendere la forma desiderata, così dopo ripetuti assaggi, la birra finì nel dimenticatoio. Fu proprio mastro Kuaska in una delle tante visite al birrificio a volerla tirare fuori dal limbo  in maniera quasi casuale dopo diverso tempo, finalmente la birra era pronta e il nome venne fuori spontaneamente, la Mummia era uscita da quella botte che era diventata un vero e proprio sepolcro , pronta a conquistare il mondo.
Da allora la ricetta è stata ritoccata e la birra  in bottiglia è diventata il prodotto dell' assemblaggio di diverse barrique (ex Barbera Bigolla di Walter Massa) contenenti Runa, Rat Weizen e Tibir. Nel bicchiere si presenta di un bel oro antico, la schiuma è bianca, fine e, sorprendentemente, persistente.
Al naso, si presenta molto fine ed elegante con fiori di campo, frutta a polpa bianca, agrumi e una nota speziata a cui fa eco il passaggio (prolungato) in botte che porta con sè aromi rustici, coperta di cavallo ed una nota lattica.
In bocca si presenta di corpo esile, l'attacco è caratterizzato dall'acidità lattica, limone a cui però si affiancano da subito sentori floreali, pepati e di fieno. Il finale è secco e leggermente astringente e ripropone la nota acida che regala al percorso gustativo un taglio molto rinfrescante e ne  facilita la beva. Il retrogusto è lungo e caratterizzato da una sensazione leggermente legnosa e fruttata.
Una birra eccezionale, di non semplicissima reperibilità, che proietta questo birrificio nell'olimpo delle birre di caratura mondiale, la cosa che colpisce immediatamente è la semplicità con cui si lascia bere nonostante una notevole complessità. Abbinamenti: pesce alla brace, pesce crudo, formaggi freschi oppure il vostro semplice godimento. (deLa)

venerdì 12 giugno 2015

Orti.ca, una piccola grande oasi a Vercelli

di Vittorio Rusinà

Io, Vercelli, non sapevo che fosse bella, e che nel suo centro, in un piccolo vicolo medioevale ci fosse un'oasi di frescura, di relax e bontà. Ci sono voluti tanti anni, poi un giorno qui si trasferisce Sara Rocutto dalla Mitteleuropa e Igiea Adami pensa bene di invitarmi ad una passeggiata ornitologica nelle risaie della sua tenuta agricola. Una addizione di coincidenze su un piano temporale congeniale.



"I mobili, le stoviglie, beh abbiamo rovistato nelle cascine di famiglia" dicono Anna e Lucilla, le giovani proprietarie del locale, più tardi una zia di passaggio in bici confermerà. Mi piacciono molto i piccoli bicchieri da osteria antica sul tavolo, Sara dice che da lei sono i goti "i bichieri da ombra". Bello vedere in carta tante ottime birre artigianali, i vini naturali di Francesco Brezza, di La Casaccia, di Giorgio Barovero (è un amico di Iuli mi dicono le ragazze, stupite che non lo conosca, ma come tu sei o non sei @tirebouchon).



Nel mio piatto: riso Carnaroli integrale di Naturalia con zucchine e nasturzi al basilico. A seguire il roast-beef "biodinamico" di Tenuta Migliavacca (una super-rarità), gli splendidi formaggi della Fattoria della Capra Regina di Fubine (AL), il pane fatto in casa, la crostata di marmellata di zucca.



Piccoli vasi di erbe e fiori, tre tavolini all'aperto nel vicolo ricco di ricordi e di storie antiche, quasi un caroggio o una calle. Bello passare del tempo qui, senza fretta. Orti.ca già stai nel mio cuore.




foto by Sara Rocutto

Orti.ca, Vicolo Croce di Malta 4, Vercelli

giovedì 11 giugno 2015

Il Galantuomo 2010, Collecapretta, barbera Igt Umbria


Come un tuffo nelle ciliegie, quelle scure, quasi nere, dolcissime, profumate che macchiano la bocca e le mani.
E poi seta e accenni di lievi spezie.
Intensa, quasi untuosa, succosa spremuta di uva.
Potente di alcoli e zuccheri complessi, si gioca la sua beva (comunque piacevole) sull’immediatezza e croccantezza del frutto, forse non è un vino a la page (ora che se non ci sono acidità siderali non si beve più nulla).
Di certo è un’esperienza che traghetta verso i vini “edibili”, appaganti come una bibita piacevolmente edulcorata, un vino forse antico (ricorda certe Barbera contadine, quasi dolci, dense, da suggere con pazienza e avidità).
Delle Barbera nordiche non ha la vena acida ma qualche sua strana alchimia interna la rende equilibrata nel suo squilibrio.
Qualche nota di distillato si insinua nel finale.
Ora scendo in cantina a vedere se ne rimane ancora una!
E non sapete quanto mi pento di non averla inserita a #barbera3!
Kempè

Luigi 

mercoledì 10 giugno 2015

I “non spazi” * e la narrazione del vino


Ovvero dell’aporia della territorialità estrema che si invera nel nulla assoluto.
 






















E’ un po’ che penso, almeno ogni volta entro (virtualmente) in facebook o instagram o twitter o linkedin o in questo blog,  al fatto che il vino, in particolare quello “minoritario”, chiamatelo se volete “naturale”, abbia eletto come bacheca principale per la comunicazione e dibattito i moderni tazebao 大字报 virtuali.
Questi “non spazi” immateriali, liberi, pervasivi sono uno strumento potente e relativamente democratico, gratuito e disponibile per chiunque, in assenza di fondi e uffici comunicazione, abbia qualcosa da comunicare.
Il movimento degli appassionati e dei produttori di vino “naturale” ha da subito cavalcato l’onda, intrecciando, come se tutte queste piattaforme fossero un unico “testo” anzi un “ipertesto” infarcito di link, le proprie narrazioni su e del vino.

- Ciò che mi ha colpito in primo luogo è che questo movimento ha da sempre avuto come obiettivo la rinascita del territorio (pensiamo alla “Renaissance des Appelations” nata in Francia ad opera di Nicolas Joly), per mezzo della terra, della sua vitalità e del fare artigiano in opposizione alla concezione a-territoriale, business-oriented della viticoltura agro-industriale (o agro-eno-tecnica).
La novità è stata quella di avere nei propri protagonisti e fiancheggiatori delle persone laiche che invece di abbandonarsi ad un rifiuto luddista e antimoderno, hanno fatto proprio e usato per primi
 e forse meglio di altri, le risorse delle nascenti piattaforme web, le quali prima di essere degli strumenti di satana, sono delle tabulae rasae da riempire di contenuti.
Il tentativo (cosciente o incosciente non saprei) è stato, e qui compare netta l’incredibile e irriducibile differenza fra web e produttori naturali, quello di comunicare, raccontare un oggetto reale, locale, unico, irripetibile, solido: il territorio e la sua espressione enoica attraverso il nulla conclamato dei bites, della rete, i non spazi di cui accenna F. Bonami.
Un ossimoro, un controsenso che ha dato frutti e ha creato una grande quantità di luoghi virtuali ad alto contenuto culturale e ha stimolato confronti fra pari (questa estrema uguaglianza dei frequentatori del web è la causa del maggiore scontento e livore da parte delle caste dei giornalisti e degli enotecnici soloni a cui non va proprio giù di essere rintuzzati e contestati da “carneadi” senza credibilità).

Gli “spazi” hanno avuto voce grazie ai “non spazi”

- Ciò che mi ha colpito in secondo luogo è che l’uso dei social network, al di là delle preferenze soggettive, è quasi sempre multiplo, contemporaneo e le narrazioni sono infarcite di link ipertestuali che creano una galassia di riferimenti e di percorsi di senso.
Solo la rete ha dato la possibilità, sempre sognata da parte dei narratori ma irrealizzabile con il solo hardware (carta e penna) di costruire un’opera aperta, infinita, infinitamente modificabile, democratica, libera.
Un sogno realizzato?
Una babele in cui il senso si perde nella proliferazione parossistica dei contenuti?
Non saprei, di sicuro è un’opportunità da sfruttare sino in fondo (sempre che ci sia un fondo).
- Ciò che mi ha colpito in terzo luogo è che sui social network e sui blog indipendenti (non i banner, quelli sì che sono biechi mezzi pubblicitari) la comunicazione dei contenuti anche commerciali è fatta con parole, strategie diverse da quelle tradizionali degli uffici di comunicazione. C’è meno professionalità, meno neuro marketing e più ingenuità e curiosità che cerca appagamento e argomenti credibili e ben raccontati.
E’ anche vero che ormai ogni nostro “viaggio” sulla tastiera è tracciato e le pubblicità che appaiono sui banner sono sempre costruite sui nostri interessi, ogni medaglia ha il suo rovescio.

*il termine “non spazi” riferito a facebook, instagram e twitter l’ho letto in un articolo di Francesco Bonami “Davanti a una sua opera ci si chiede non cosa è, ma dove siamo” su La Stampa n°146, pg 25, Torino, 28 maggio 2015 e l'ho prontamente copiato e storpiato.

lunedì 8 giugno 2015

Il professor Franz Egger e il sidro perduto ( e forse ritrovato )

di Tincati Daniele



La storia di questo scritto inizia la scorsa estate, quando acquistai, più o meno distrattamente, una bottiglia di sidro alla mela cotogna, talmente buono che ne parlai qui al Bar.
Purtroppo la bottiglia ha stazionato in cantina fino ad inizio anno, comunque almeno fino a dopo il mio ritorno in Alto Adige per la fine dell’anno.
Non ho avuto modo quindi di ricercarlo ancora, almeno fino a qualche settimana fa quando, pianificando un weekend in zona, mi è tornato in mente.
Cerco allora di reperire il numero di telefono del produttore, e lo contatto.
Io: “Buongiorno, ho assaggiato il suo sidro alla cotogna, molto buono, sarò in zona tra un paio di settimane, ha delle bottiglie da vendere ? “
Lui: “Mi fa molto piacere, guardi, ormai sono alcuni anni che non lo faccio più, dove lo ha trovato?”
Mi si è gelato il sangue.
Avevo beccato un altro vino estinto.
Mi è già successo ultimamente, e non solo a me.
Poi, la luce :
Lui: “ultimamente stanno cercando di convincermi a riprendere, può darsi che quest’autunno ricominci. Comunque se vuol passare a fare due chiacchiere, volentieri, le spiego la produzione, mi sono rimaste alcune bottiglie, se ne vuole qualcuna gliela posso dare”.
E cosi, un sabato mattina di fine maggio, incontro il Prof. Franz Egger, insegnante alla scuola di agraria di Egna, che coltiva mele a Salorno, continuando l’attività del maso di famiglia.
“Ho fatto esperienze all’estero con cooperazioni internazionali fino al 1997, quando sono dovuto rientrare per occuparmi del maso, dopo la morte di mio padre”.
Ci sediamo ad un tavolino all’esterno, a lato del locale dove tiene un po’ di attrezzatura per il frutteto, e si stappa il sidro ai fiori di sambuco.
“Purtroppo mi è rimasto solo questo. Ho iniziato a produrre sidro per avere un contatto col cliente, la convivialità di assaggiare insieme e scambiare quattro chiacchiere non si può avere assaggiando mele o carote”.
Parole sante.



Nel frattempo lui ci spiega la difficoltà della produzione artigianale, le varie prove fatte negli anni, gli imprevisti della rifermentazione in bottiglia, e l’amarezza di non poter più utilizzare le mele Gravenstein, adattissime allo scopo, di un vecchio frutteto non più di proprietà e per di più abbattuto.
Ma siamo sulla buona strada, il professor Egger è deciso a riprendere col nuovo raccolto quest’autunno, pensando a qualche variazione al procedimento usato nelle ultime annate.
Fino ad ora la prima fermentazione avveniva spontaneamente, con i lieviti presenti sulle mele che fermentavano gli zuccheri presenti nel succo di mela stesso.
La seconda fermentazione per la presa di spuma avveniva in bottiglia, con aggiunta di zucchero e lieviti da spumante, come si fa col metodo classico.
La sboccatura si faceva portando le bottiglie nella cantina Haderburg, a poche centinaia di metri di distanza, utilizzando le attrezzature usate per lo spumante Haderburg.
Piccole produzioni, fino ad un massimo di 5000 bottiglie, faticando pure per venderle.
“Ho iniziato fin da subito a produrre sidro frizzante, perché le bollicine gli danno quel tocco in più che serve. Trovo i sidri fermi un po’ spenti, privi di verve”.
Con la ripresa della produzione, l’idea è quella di non utilizzare ingredienti esterni alle mele o frutti aromatizzanti, usando il succo per la seconda rifermentazione in bottiglia, invece dello zucchero.
Anche la sboccatura forse non si farà.
Vedremo.
Nel frattempo il professor Egger si sta informando sulle varie possibilità, e vorrebbe apportare cambiamenti per preservare al massimo gli aromi della mela.
Purtroppo il tempo è volato, il pranzo si è avvicinato, ed è l’ora di andare.
Chiedo di acquistare qualche bottiglia, e lui mi omaggia di una rarissima bottiglia del 2003, sboccata nel 2013, dopo 10 anni di permanenza sui lieviti.
Ringrazio calorosamente, e torno alla macchina molto felice e arricchito di nuova esperienza, soprattutto umana.
Nella speranza che non ci siano impedimenti sulla strada di Egger, forse ad inizio estate 2016 potremmo stappare le nuovo bottiglie.
In bocca al lupo professor Egger.
Nel frattempo, io resto in contatto, e vi tengo eventualmente informati.
Le bottiglie riposano in cantina dopo il viaggio, stapperò qualcosa le prossime settimane.
A risentirci.

venerdì 5 giugno 2015

Oslavje 2004, Radikon



di Niccolò Desenzani

Non ho resistito all’acquisto di una bottiglia un po’ scontata di Oslavje 2004, l’altro giorno. La fortuna sfortuna di aver assaggiato i vini di Stanko Radikon agli inizi del mio interesse verso i naturali e i macerati fa sì che restino sempre delle pietre di paragone.
Fortuna perché grazie a Oslavje 2002 e Ribolla 2003, e più avanti Merlot 2002, ho avuto forse fra le esperienze più forti da quando bevo con una certa consapevolezza. Sfortuna perché poi si è ingenerata una ricerca spesso frustrante per eguagliarli.
In realtà molti miti degli inizi cadono col tempo e l’annata 2005 di Radikon mi fece un po’ vacillare all’uscita.
Invece questo Oslavje 2004 è una riscoperta dell’acqua calda. Ha esattamente quello che cerco in un vino: non omologazione e piacevolezza. Una struttura completa che spazza in un sol sorso qualunque polemica sulla macerazione, definendo lui stesso la categoria, in qualche modo.
Mentre lo bevevo, macché, lo succhiavo avidamente, pensavo una cosa ovvia, pensata tante volte: molti cercano nei macerati le caratteristiche che apprezzano nei bianchi e solo allora gridano di ammirazione e annunciano che finalmente quel vino è la prova che i macerati possono essere grandi vini. E invece Oslavje dice, “chiudi gli occhi e non pensare, io sono orange e ti conquisto in quanto tale. Verrai a cercarmi. E niente più sarà uguale a prima.”

mercoledì 3 giugno 2015

La Griotta di Valter Loverier



di Vittorio Rusinà

Valter Loverier è un genio brassicolo, fa birra a Marentino ma potrebbe tranquillamente operare nel Payotteland. Questa birra, brewed in 2014, ne è la conferma, è la coniugazione dell'antico modo di fare una Saison con lo stile millenario delle Kriek. Qui protagonista è la ciliegia griotta che conferisce alla bevanda un gusto davvero unico, fra le cose più buone mai bevute in vita mia.

"Farmhouse Sour Ale - Ispirata alle Saison di un tempo questa birra è fermentata in legno grazie a lieviti selvaggi isolati dalla Beerbera...
Acqua, malto d'orzo, ciliegie griotte (30%), frumento, luppolo, lievito"

giovedì 28 maggio 2015

ancora sui vini di Tabarrini




di Niccolò Desenzani


Dopo un fugace assaggio dei vini di Tabarrini a dicembre, sufficiente a lasciarmi una certa sete insoddisfatta per non averne comprato, con il ritardo che mi contraddistingue, sono riuscito poi a procurarmene un paio di esemplari per tipo. Parliamo della batteria dei bianchi 2013:
Fiero fermo, da grechetto bianco
Regio fermo, da trebbiano
Fiero surlì, da verdello
Prima di tutto un plauso allo stile: c’è un filo conduttore fra i tre vini che il palato-cervello riconosce subito come mano del vinificatore. Non è facile avere uno stile con pochissime vendemmie alle spalle, e permette di valorizzare le varie etichette, perché vengono interpretati i vitigni secondo quello che Tabarrini ritiene la sua idea di vino.
E un’interpretazione forte chiarisce bene l’oggetto di partenza, in questo caso l’uva.
C’è una cristallina ricerca dell’acidità, forse per lo spauracchio di un terroir che su quel fronte non è sempre generoso. Essa è ricercata con mezzi tecnici agricoli e di vinificazione, ma nel rispetto del dictat zero correzioni chimiche. E per giunta credo anche poca elettricità!
Già avevo avuto modo di apprezzare, e qui trovo solenne la conferma, l’attenzione maniacale che Carlo riserva alle feccie. La feccia tampona l’acidità e crea un equilibrio nell’espressività incisiva del vino.
Poi ,e qui vado un bel po’ a mia personale interpretazione, c’è molta attenzione all’ossigeno. I vini godono di un sana leggera riduzione iniziale, accentuata da un’altra tecnica che Carlo sembra padroneggiare: il completamento dei processi malolattici in bottiglia. Quindi una certa compressione nei vini, con un residuo di carbonica quasi medicamentoso e poi lo sviluppo tutto in golosità quando il vino finalmente si arieggia dopo la prigionia del vetro.
Infine c’è un che di vino-del-contadino-vin-de-garage, che lascia un’impronta di verità rustica che a me piace molto (un po’ come nel Paski di Cantina Giardino).


Grechetto di freschezza, teso e appagante. Universale passepartout della dissetanza. Tutto in ordine (alfabetico): acidità, carbo, digeribilità, dissetanza, sostanza.

Trebbiano. Possiamo anche dire che non ha forse l’immediatezza spensierata del fratello (tanto che nella mia memoria si erano fissati a ruoli invertiti: e qui cade anche un bel pregiudizio sul grechetto). Ma lo stile è sempre verso la piacevolezza in questo caso con qualche ruvidità inedita per questo vitigno: tannini da sposalizio col cibo, generosità. Acidità rustiche che amoreggiano con la tartare e si beffano dell’acidità citrica del limone.

Il surlì, bottiglia spessa e tanta pressione (vado a percezione). Metodo interrotto qualcuno ha coniato. Si ribadisce la tenzone feccia/acidità, qui portata al parossismo. Ma poi all’aria l’ossigeno celebra l’unione indissolubile. Che la festa abbia inizio.

mercoledì 20 maggio 2015

QUELLA FORSE COSA BUONA

di Eugenio Bucci

beva

[bé-va] n.f.


1. degustazione di un vino; il momento in cui un vino è buono da bere
2. (ant.) bevanda


Ogni tanto io e il mio amico immaginario riflettiamo su cosa significhi bere e, più nello specifico, bere vino, cosa che massimamente pratichiamo e che ci piace più di ogni altra.
Il mio amico, che è immaginario e quindi me lo dipingo un po’ come pare a me, verbalmente rientra nella categoria dei rompipalle e, per certi versi, lo si può definire più una moglie che un bff (best friend forever) con tutte le implicazioni del caso, ossia amore/odio, improvvisi desideri di strozzarlo e di baciarlo allo stesso tempo, conoscenza reciproca delle peggio cose, e insomma, avete capito. La categoria dei rompipalle ha molti difetti ma anche un sacco di cose belle: capacità di giudizio fulminante, cioè, pure quando sbagliano almeno vanno dritti al punto; dialettica aggressiva e incalzante, cioè, se ti vedono esitare iniziano a prenderti a schiaffi e a ripetere “Allora? Allora?”. I rompipalle sono il coach che ti spezza o ti fa crescere.
Il mio amico, si potrebbe anche dire, è un martello che batte ad ogni frase e l’incudine sei tu che ascolti. In qualche modo, ci completiamo. Siamo le due facce della stessa medaglia, gli amplificatori delle reciproche parti nascoste. A me piace pensarla così.
Soprattutto, io e il mio amico riflettiamo su ciò che ci piace e sul come far capire all’altro perché ci piace quella cosa e quell’altra meno: questo ci piace. Capire quando una cosa è buona per noi.
Certe volte è facile. Almeno in apparenza. Bevi, chessò, un Cornelissen e ti sembra di poter dire che la cosa è talmente palese che te l’hanno letteralmente sbattuta sotto il naso, che è innegabile. Ma a me e al mio amico piace immaginare di avere di fronte un pubblico di bambini. Insomma, un pubblico di carinissimi e adorabili rompipalle.
Perché? Perché? Perché?
Così fanno i bambini. E allora tocca darsi un tono e spiegare. E quando spieghi metti ordine. A loro e a te stesso. Non basta dire che è buono, bisogna dire perché è buono.
Perché?
Per rispondere bisogna tornare a qualche settimana fa. Io e il mio amico immaginario commentavamo gli assaggi migliori tra le varie fiere, main e collateral, e lui si ritrovava a parlare di questa tendenza allo snellimento, al calo delle gradazioni, al ritorno prepotente dei vini più immediati, insomma, quella-forse-cosa-buona che sta succedendo adesso, nelle vostre case, amici vicini e lontani, e, giustamente, nello constatare ciò si era lanciato in discrete lodi puntando l’indice sui vari aspetti positivi, come il ritorno ad una naturalità della beva e la fine di certe esasperazioni ipermoderniste etc etc, bene bene bravi bravi. Epperò l’amico ad un certo punto si è fermato ed è stato come se riavvolgesse il nastro nel mangiacassette delle sua testa, Beva, era tornato al punto in cui aveva pronunciato quella parola, Beva che è una parola vecchia eppur nuova, un concetto rismaltato e lucidato a specchio, aveva quella faccia come dire “Che cazzo significa?” perché il mio amico (rompipalle) ha orrore delle parole buttate a casaccio. E ha iniziato a blaterare a voce alta che si, insomma, sono (ri)apparsi i vin de soif e niente sarà più come prima, o tutto tornerà ad essere come prima, perché ora è un po’ più chiaro cosa sono, li abbiamo bevuti, li beviamo sempre più, li berremmo fino all’ultima cirrosi. Cioè, è chiaro che Beva è una parola chiave del momento, rifletteva il mio amico, per quanto ci si possa fidare del momento, io e momento, in effetti, ci guardiamo un po’ in cagnesco, comunque, è impossibile non notare come Beva-e-i-suoi-derivati si sentano ogni 3X2 spulciando tra i social e pure nella Gazzetta Dello Sport, ed è impossibile non leggere cose del tipo,
una beva pazzesca!; un vino da berne a secchiate, a canna, a imbuto, a garganella; un vino che dovrebbe essere venduto solo in magnum; vin de soif, vino da sete, vino da cannuccia; un vino da assumere per endovenosa etc.
Ma, e la domanda nasce spontanea come una fermentazione, nel momento in cui un neurone si riattacca, nella pausa tra una tracannata e l’altra di questo favoloso vin-de-soif, cosa ci dice (appunto) quel neurone? Che qualità riconosciamo in quel vino per buttarlo dentro la categoria beva?
I limiti delle definizioni sembrano spesso recinzioni traballanti. Basta una mandria di sofismi e terminologie chiaroscure per buttare giù tutto. Però provarci ha un senso. E’ il bambino scemo e rompipalle che è in noi. Ed è il bambino davanti a noi con gli occhioni spalancati che continua a chiedere Perché? Cos’è? Dov’è? finché o lo piazzi davanti alla TV a stordirsi o gli rispondi.
Signore, scusi, cos’è la beva?
Figliolo, Beva è quella cosa che induce papà ad attaccarsi ad una boccia come se fosse la tetta di mamma e non è proprio sete ma più voglia di qualcosa di buono. Beva è una cosa che ti porta a stordirti come quando tu guardi Peppa Pig per 7 ore consecutive perché senti un friccichio nel core e ti diverti tanto e senti che è tutto bello e gentile e il tempo vola.
Si, signore, ma cos’è che beva?
Ecco, frugoletto, questa cosa è più complicata. Quando papà si riprende da quell’estasi inebetente, come quando tu ti riprendi da quelle 7 ore di immersione in un mondo maialecentrico, a papà si riattacca un neurone e quel neurone, diciamo, tira le fila prima di tirare le cuoia. E le fila da tirare sono abbastanza perché sono tante le cose che portano alla beva. Una parte importante è l’equilibrio, ne sono (quasi) certo. Tannico-acido che si incontra virtuosamente con le componenti dolci in una specie di perfetto palleggio infinito tra Borg e Nadal. Quel senso di rotondità non molliccio e sbracato. Dinamico, nel senso che ti fa indossare gli occhialetti e ti fa partire la bevuta in 3D. In cui le varie componenti giocano insieme, per la stessa squadra. Un senso di unità cazzuto come un rito pre-partita degli All Blacks. Un parametro (quasi) misurabile, comprensibile, analizzabile a parole e non solo. Quel percepire le diverse sensazioni arrivare al momento giusto nel posto giusto.
E il Fattore A? L’Alcool? Uno (relativo) shock culturale è per i gradi a cui viaggiano certe bottiglie. 12°. 11°, pure 10° in certi casi. Less is more? Ni. Boh. Forse. Dipende. Dipende non è una risposta ma uno stato d’animo. Dipende. Se incontri ancora una volta certa Francia capisci che un vino che parte in equilibrio e sanità di uve, ti dà sapore e gusto e pure discreta consistenza, dritto dalle parti della beva. Se ti è capitato, ad un certo punto della vita, in piena bagarre ultramuscolare, sballottato tra i 3 bicchieri e i 100/100, tra i 40 e passa g/L di estratto, se ti è capitato di incontrare uno Syrah de l’Ardèche o un Trousseau della Jura sventolanti uno snobistico 10°; e, Dio non voglia, se a quel punto hai iniziato a supporre che le uve saranno state così-così mature e polpute e deboli deboli; e quando hai finito di cazzeggiare supponendo e sei andato dritto al bicchiere ti sei accorto che in realtà quella che avevi sotto il naso e tra i denti era un’esplosione di sapore e per quanto sottile potesse apparire, quella sottigliezza era un sasso lanciato nello stagno dei tuoi preconcetti che avrebbe fatto onde per il resto della vita; se ti è capitato questo, capisci che la risposta riguardo il Fattore A è non solo Dipende, ma Dipende davvero davvero.
E poi facciamo un bel back-to-the-basics, il matusa che è in me è ancora lì a menarsela con la consistenza. Da che parte sta nei vini da sete? Da che parte la ficchiamo? Lotta con noi o contro di noi? Ce ne frega o non ce ne frega? Può succedere che da bonus diventa malus? La consistenza, che era il monolite nero, che innalzava il vino da acqua a qualcosa’altro, per papà tuo conta ancora tanto ed è importante perché la consistenza è frutto di un frutto () portato a piena maturità e questo costa fatica e rischio e soldi e spesso procura piacere. La consistenza, agganciata ad altri parametri virtuosi, innalza il piacere. Ed è quindi importante. Ma non-più-così-importante?
Forse. Perché c’è qualcosa di più insondabile. Che però dobbiamo sondare. Qualcosa che viaggia al ritmo di Parole Parole Parole, perché è l’unico modo per misurarlo e misurarci. Il sapore, il gusto. Un sapore che ci inviti a bere. Che, attraverso i cortocircuiti dei ricordi, attraverso quello schedario incasinato e impolverato che abbiamo in testa sotto l’etichetta MEMORIE, ci riporti a sensazioni piacevoli. Un rimando all’aromatico, alla frutta, ai funghi, alla salsedine, ai fiori, al minerale, alla kriptonite, a qualsiasi diavolo di roba ci ricordi una-cosa-buona. Il sapore che ci arriva diretto, un masso di sapore che rotola direttamente dalla cima del bicchiere verso i nostri sensi. Senza interferenze, se possibile. Senza interferenze ma scavallando l’Integrità che non è un parametro morale (in Italia è stata sostituita dallo zeligismo) ma un parametro gustativo, quello che rimanda direttamente al frutto-uva ai 100 all’ora senza godersi il panorama o deviare un attimo dal percorso, l’integrità che una scuola degustativa di derivazione, diciamo, enologica considera per molti aspetti un fondamento nel giudizio del vino, scuola che, approcciandosi verso certi sapori e difetti-da-manuale-di-enologia, tende a segnare con la matita rossa. Giustamente, per carità, e spesso con enorme competenza tecnica smontano un giocattolo che a te piaceva. E pur sapendo quanto sia comprensibile e assolutamente chiaro e tecnico questo approccio e questa indicazione di gusto, a volte mi pare che, davanti a quei pezzi di giocattolo buttati per terra, ci si perda, come dire, il quadro d’insieme e, in definitiva, ci si perda qualcosa di importante a non lasciarsi trasportare nella veemenza a volte imperfetta di un così intenso sapore (appunto). Ecco. Anche a me piace andare ai 100 all’ora verso il frutto e schiantarmi verso quella dolce-morte-apparente che sono certi vin-de-soif (e quando voglio giocare a Crash, io inforco una Dard & Ribo). Ma spesso per arrivare a quel frutto tocca rallentare, deviare il percorso, guardarsi il panorama e qualche volta forare o sbagliare strada o fondere il motore. Insomma, fare un viaggio.
E guardate dove sono siamo stati di recente.





Bianchetto 2014 (Lammidia): Marco Giuliani e Davide Gentile hanno studiato, hanno girato, assaggiato, lavorato, e poi sono tornati nel loro Abruzzo a fare vino. Non hanno vigna e allora comprano l’uva e iniziano a vinificare. Lammidia si fanno chiamare. L’invidia, il malocchio da togliere (su Gastrodelirio c’è una breve presentazione). Il Bianchetto è trebbiano. Questo l’ho scoperto dopo averlo bevuto. Col trebbiano in Abruzzo iniziano i paragoni importanti. Ma qui ci si sposta leggermente verso ovest. Coi paragoni, dico. Perché ho scoperto un’altra cosa dopo averlo bevuto. E cioè, che pare che siano amici di Antonuzi-Mr Le Coste. E mi si è chiuso un cerchio mentale. Perché Il Bianchetto ‘14 è un simil-Litrozzo. Meno esplosivo, senza quel quid aromatico dei migliore Litrozzi. Ma molto simile. Un fratellino. Più nitido e misurato, per certe cose. Con parametri alti su 2 tra le meglio cose: equilibrio e sapore. Col naso dove le componenti vegetali (quel filo di peperone, quella nota di erba tagliata) si mixano e shakerano con il giallo della pera, di frutta matura ma mai ossidata. Dove la bocca si dichiara apertamente minima, di consistenza a regimi bassi. Dove, eppure, assapori davvero un sapore puro e praticamente senza interferenze. Dove leggerezza fa davvero rima con beva.
87/100  




Ombra 2014 (Farnea): Marco Buratti sta sui Colli Euganei. Ha 2 ettari e mezzo di vigna. Fa il viticoltore da qualche anno. Non usa chimica. Né in vigna, né in cantina. Non fa fiere. Se ne fotte delle guide. Così dicono. Insomma, pare un bel personaggio. Qualche mese fa comprai diversi suoi vini. Alcuni buoni, altri meno. Poi, a gennaio, compro l’Ombra. Che mi fa un sacco di simpatia. Perché è da un litro. Un tipo di formato che implicitamente significa vino da bere a secchi. E perché è tappato con una bella corona. Le uve sono merlot e cabernet sauvignon. Fa macerazione carbonica. Costa il giusto. Fin qui tutto bene. Tutto incastrato in paletti che me gustano, amigo. E l’attacco al naso è diretto, vegetale spinto a manetta e acidità che spara forte come una mitragliata nell’aria in un matrimonio balcanico. Poca finezza, tanta rusticità. E qualche scricchiolio. Un’interferenza che appare dopo qualche minuto. Un odore di chiuso, di stantio, di polveroso. Che ricompare in bocca, una bocca lieve, sottile, 10,5° stile foglio-di-carta, che si apre sempre sul vegetale/acido e cabernetfrancheggia inseguendo un’idea di Loira, stimola una certa idea di beva. Ma si tarpa in quel finale, in quella chiusura avvertita al naso che tira il freno a mano alla beva, che si amplifica in un panorama di consistenza minima. Finale che sembra a volte il corrispettivo di certi vini palestrati così anni 90, quando una massa glicerinosa ti impasta(va) la bocca e rimanete te e la bottiglia mezza piena a fissarvi.
79/100