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mercoledì 6 luglio 2016

Il Ruchè della Vigna del Varsot

 di Vittorio Rusinà


Il signor Roggero, 78 anni, viene a sedersi al tavolo vicino, nella stanza in fondo al Bar Trattoria dove da sessanta anni la sua famiglia dà da mangiare e bere, stanza tenuta un pochino al buio per renderla più fresca in questi giorni afosi, e inizia a raccontare. 
“Io vengo da Castagnole Monferrato, la mia famiglia è conosciuta come i Miro dal nome della terra in cui abbiamo la casa e le vigne, vigne di Barbera e di Ruchè. 
Ah il Ruchè, una volta lo avevano in pochi.  Noi, quando ero piccolo, avevamo una vigna che era uno spettacolo, era la vigna del Varsot, giù verso Refrancore, la terra lì era sabbiosa, i grappoli facevano chicchi grossi grossi. Il mediatore che si chiamava Sciancabutun diceva sempre al mio papà di tenerlo dus, dolce, il Ruchè che in città così lo volevano e lui lo avrebbe pagato anche quattro volte di più rispetto al Barbera. Eh ma non era facile. Adesso lo vogliono tutti amèr il Ruchè”

testimonianza raccolta al Bar-Trattoria di via Oropa 9 a Torino, il 2 di luglio del 2016.
Il signor Roggero cura ancora qualche vigna di Ruchè e Barbera e forse metterà di nuovo del Grignolino ai Miro. Tutte le domeniche tranne due mesi d'inverno va a Castagnole Monferrato perché è là la terra del suo cuore.

lunedì 4 luglio 2016

Vini ad alto contenuto di verità/bis


Luigi Fracchia

Il post di Niccolò Desenzani pone l’accento sulla verità espressa da alcuni vini.
Lui parla del concetto di verità nell’accezione derivante dal greco antico.
αλήϑεια
aletheia
a-lethe senza veli

Una verità di ragione che diventa tale solo grazie alla logica, a seguito della scoperta delle condizioni che permettono di definirla.
E di pensieri sul vino, Niccolò in questi anni ne ha fatti molti.
Un processo, il suo, di disvelamento, di conoscenza, di narrazione.
E’ un lavoro complesso perché cultura e sensi fanno fatica a comunicare nel nostro cervello, sapori e profumi sono allocati in parti antiche del cervello che non comunicano molto con la corteccia frontale, per cui ridurre a λόγος (logos) le sensazioni è operazione difficile, talvolta impossibile.
Niccolò ci riesce meglio di molti altri e spesso esprime in concetti, sensazioni che, sopite ed inespresse, sono già lì velate nel nostro cervello e Niccolò è artefice del loro disvelamento.
In realtà noi quando sentiamo parlare di verità (ed è qui il problema principale dei paladini della finta laicità) pensiamo alla
veritas latina
che non è una verità di ragionamento ma una verità di fatto che assumiamo senza nessuna riflessione critica, una fede.

Due diverse verità, l’una determinata dal discoprimento delle ragioni che la inverano, l’altra rigidamente fissa e incontestabile.
La verità che percepisce Niccolò è la prima, figlia del logos e quindi legata al divenire, alle inevitabili modificazioni a cui la cultura è sottoposta.
Questa ricerca di aletheia condotta, forse, in maniera empatica, meno cosciente ma non con minore coerenza è portata avanti da Lorenzo Corino, Hubert Hausherr, Cyril Le Moing, Enrico Cauda e altri, i cui vini credo potrebbero entrare nel novero di quelli con “contenuto di verità di un vino” come li definisce Niccolò.
Territorio, lavoro, tradizione, basso impatto ambientale, solido pragmatismo il tutto condotto con la leggerezza e l’incoscienza legata alla consapevolezza di non poter e non voler controllare tutto.
Anche loro come Niccolò si affidano alla volatilità degli eventi e alla soggettività del gusto e delle scelte.
Potrebbero sembrare dei nostalgici invece, credo, che stia segnando una via per uscire dall’eccesso di programmazione e normalizzazione dell’attuale cultura, non solo enologica.
La sensazione leggendo i post di Niccolò e bevendo i vini di Lorenzo, Hubert, Enrico, Cyril è che siano capaci di penetrare più in profondità e rendere visibili i legami labili, inafferabili che ci legano alla terra.


Luigi

venerdì 1 luglio 2016

Vini ad alto contenuto di verità



di Niccolò Desenzani



Spesso, pensando alla mia passione per i vini naturali, mi chiedo quanta retorica ci sia nel mio gusto. Quanto condizionamento dato dall’adesione a un certo concetto del vino; ma anche quanto condizionamento proveniente dal suo prezzo e dal mio potere di acquisto.

Da un lato, onestamente, risolvo la questione attribuendo al mio gusto un alto livello di soggettività e accettando che sia comunque plasmato da tutti i possibili condizionamenti culturali e psicologici che mi caratterizzano, dall’altro, siccome è pur sempre una questione di estetica, di concetto del bello, c’è irriducibile un tentativo di afferrare qualche categoria appena più universale. E dunque, alla domanda perché un vino senza orpelli possa ambire a una maggior bellezza rispetto a un vino costruito con mezzi sintetici mi è capitato di percepire qualcosa che chiamerei verità, contenuto di verità di un vino. È sparare alto, me ne rendo conto, ma pensando alla parola greca aletheia, etimologicamente senza veli, penso che letteralmente il vino vero sia quello senza veli, in qualche modo nella sua forma più spontanea e quindi più essenziale. E poi il vino è dall’uva e quella dalla vigna e quella dalla terra e dal sole e dall’aria. Ed ecco che esser senza veli significa contenere la combinazione di tutti quei fattori, in un artefatto di senso compiuto che mantiene l’informazione al massimo livello di purezza. In giornalismo si parla di fonti primarie dell’informazione e di grado di verità putativa. Ed ecco che ritorna questa parola.
Certi vini sono verità allo stato di bevanda alcolica e credo che il nostro apparato sensoriale sia sufficientemente complesso per cogliere questo aspetto.
E goderne appieno.



Un vino che ha fatto condensare la nube di pensieri in questa piccola narrazione, che ne è emblema passo passo, è la Dorona di Gastone Vio, contadino e vignaiolo in quel di Sant’Erasmo nella Laguna di Venezia. Non solo egli ha custodito questo vitigno, semi abbandonato negli anni ‘60, mantenendo in vita le viti già in attività quando le comprò il padre di suo suocero (parliamo di viti fino a 130 anni), ma ne ha una cura meticolosa e un rispetto religioso, riducendo il suo apporto quasi unicamente agli aspetti meccanici manuali della coltura, osservando le piante in salute e in malattia senza quasi intervenire, ma anzi aspettandole anche dopo l’apparente morte vegetale “perché le viti a piede franco a volte si riprendono”.




Ogni trattamento cessa ai primi di luglio per garantire che nessuna traccia arrivi al vino, che è il frutto di operazioni manuali regolate dall’esperienza e la sensibilità di Vio, portando a mosto uva pura e sana. Il vino conoscerà solo il vetro in ogni fase, per finire in bottiglie tappate a corona quando il momento è propizio per quello che vuole essere un vino fermo, ma ha sempre un filo di elegante carbonica a testimone di vitalità.
La dorona porta un profumo di fiori bianchi schiacciati, forse un po’ di torba dolce. In bocca è equilibrato nelle componenti acide, saline e gliceriche. Un vino freschissimo e liscio, acido e rotondo al tempo stesso, che si beve con estrema facilità anche grazie a un nerbo che direi proprio minerale. Pur non essendo aromatico, il vitigno è caratteristico con sentori fini fini di zucchero grezzo di canna che ritornano al palato. Riconoscibile.
Questa facilità del liquido a divenire parte del nostro corpo, la gentilezza che riesce a esprimere, ne permettono una lettura nitida e si afferra così quel senso di vino senza veli, ad alto contenuto di verità.

Ah che bontà!