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giovedì 24 marzo 2016

Ideale (e) naturale

di Niccolò Desenzani



"Naturale"’, detto del vino, non è il contrario di "artificiale", come i finger watchers (guardatori del dito, anziché della Luna) si affannano a voler capire, o peggio a non saper non capire. "Naturale" è il contrario di "ideale". È ciò che non ha una forma canonica cui tendere, cui avvicinarsi per via di addizione e sottrazione; è il porsi davanti a quel che sta per nascere con maggiore meraviglia, anche accettando che ci siano cose su cui è culturalmente alto e nobile il non voler intervenire, ma solo controllare. Ci passa la differenza che c’è tra l’antropologia e l’eugenetica. (Armando Castagno sul suo profilo Facebook)


Il pensiero di Armando Castagno ha il pregio di spostare l’attenzione dai discorsi legati all’impiego di certe sostanze e pratiche in vigna e in cantina come elementi per determinare la naturalità del vino. Infatti questo tipo di argomentazioni ha il difetto logico di portare alla contraddizione del totale non intervento umano, senza il quale il vino non esisterebbe.
Quindi, dato che far vino è un’attività umana che comporta l’interazione-manipolazione con la materia tramite “attrezzi” in vigna come in cantina, è corretto che la definizione di vino naturale si rifaccia a concetti astratti, filosofici, che definiscano al meglio la qualità di questa interazione-manipolazione. È allora sensatissimo parlare di canoni estetici, dal momento che il vignaiolo è artefice di un’opera alla quale vorrebbe dare una certa forma-sostanza o, meglio, che egli vorrebbe avesse una certa forma-sostanza. In questa apparentemente sottile piega di senso si annida lo spartiacque fra vino naturale e vino non naturale secondo il suggerimento di Castagno. Estremizzando, vediamo da un lato chi vuole controllare con ogni mezzo il risultato, puntando a un artefatto enoico con determinate e controllabili caratteristiche di forma e sostanza, fissate da un sapere tecnicistico, dall’altra chi cerca di creare le condizioni per dare inizio e poi assecondare un processo che ha un proprio senso e un’estetica naturali; in ultima istanza la cui forma e sostanza esprimono non tanto un’idea precostituita, ma piuttosto siano il segno di un equilibrio raro, ma naturale*.
Resta aperto il dibattito su quale modalità esprima meglio le tipicità di vitigno, territorio, clima, e troveremo sostenitori di entrambe le fazioni.
Cosa si portano dietro questi due atteggiamenti?
Io credo che si possa dire che nel primo caso l’accento sarà sull’utilizzo di pratiche tecnologiche al servizio di un risultato che rispetti ben definiti parametri organolettici e gustativi. Nel secondo l’artefice, per forza, dovrà assumere un atteggiamento di studio e osservazione dei fenomeni naturali per imparare in qualche modo a sfruttarli a proprio vantaggio, a tener lontano il mosto-vino da equilibri indesiderati, puntando a forme più o meno stabili e salubri**.
Ma una differenza irriducibile rimane: l’atteggiamento che potremmo definire enologico tecnicistico si basa su una pratica del tipo: “ se fai questo, ottieni quello”; ma in molte situazioni non saprà rispondere alla domanda “se non fai questo, cosa succede?”. L’atteggiamento naturalistico (e qui il termine calza anche nella sua accezione più comune) sarà più basato sull’osservazione e sul tentativo di spiegazione e per forza di cose porterà a percorrere strade che non si trovano nei manuali pratici.

* La fermentazione dell'uva è un processo naturale, ovvero una trasformazione fisica spontanea; essa può svolgersi "con o senza il controllo dei parametri ambientali e operativi, oppure artificialmente creando le condizioni affinché si indirizzino i fenomeni verso il risultato desiderato" (fonte wikipedia sub voce trasformazione agroalimentare).

** In questo secondo atteggiamento una profonda preparazione tecnico scientifica non può che essere di aiuto.

martedì 15 marzo 2016

Una serata pizzesca





  • di Niccolò Desenzani

  • Una sera di novembre, per chicchierare e stappare qualche bottiglia che aspettava di essere bevuta fra amici che del liquido odoroso han fatto una delle ragioni di vita.

  • 1) Billecart et Salmon Vintage 2004, bello sciampo elegante avvolgente belle bolle non troppo invasivo, dosaggio molto moderato, finale non eterno, ma comunque equilibrio e bocca pulita. Si è sposato divinamente con la pizza margherita.

  • 2) D'Ugni bianco 2013. In formissima. Appena aperto è un vortice quasi magmatico di sale, lieviti, acidità; super funky, ma chiaramente per nulla difettoso, o meglio, talmente enologicamente coerentemente scorretto da essere perfetto e integro. Nessuna deriva puzzona, giusto il tempo per distendersi e lasciare che sale e acidità, con una volatile di penetrazione giustamente integrata e bilanciata da una quantità di feccia da far sembrare il Barbacarlo un vino filtrato sterile, definissero una dimensione di inedita beva selvaggia. Si mantiene per tutta la serata benissimo.

  • 3) Pinot nero LN012 2013 di Schueller: bevuto anni fa un 2005 che mi aveva sconvolto per la bontà, qui sicuramente infanticidio. Allo stappo ha sparato fuori qualche schizzo. Nel bicchiere subito un naso ammaliante ancora troppo giovane e compatto, che ricorda il meglio Antonuzi, ma anche qualche grenache stile Gramenon d'antan. In bocca invece dritto come un fuso, compatto e schioccante. Tutto giovane, ma tutto equilibrato e succosissimo. Anche in questo caso il no so2 non è certo motivo di difetti, al contrario è purezza di vitigno, di territorio e beva a gargarozzo.

  • 4) Jolly dal cilindro. Un naso struggente di dolcezze e sussurri mediterranei, una bocca invece che tiene l'austerità e una nota quasi verde, ma sotto c'è una luce di freschezza da posti caldi. La bocca ha qualche cosa di nebbiolesco e mi porta verso aglianico e poi cirò. Invece è quel miracolo di vino del Guccione di una volta: Rosso di Cerasa 2009: mezzo nerello, mezzo perricone. Comunque siamo in zona fuoriclasse. La bocca è dinamica articolata fra acidità, sali, note salmastre e succosità suadenti. Il naso rimane un viaggio verso l'oriente mediterraneo forse di spezie dolci e profumi lascivi… Col tempo l'acciughina , quella buona, si fa strada.

  • 5) Questo era il programma, già ampio, delle bevute. Ma quando in una sera stappi e tutto sembra dare il meglio, viene voglia di aprire ancora e ancora.... e così ritorno in cantina e prendo la Barla 2010.
  • Caspita la barberasa! Il naso inganna, inizialmente, portandoci in Langa, ma poi la nota di smalto e la bocca di sapida acidità astigiana, lo porta in zona Ratti e poi necessariamente a Corino. Annata meno ricca, meno sangue dolce, ma tanta fresca acidità insieme a una materia che si evolve barbericamente percorrendo tutti i luoghi che sono di quell'amato nostro vitigno. Tantissima terra nel sorso...

  • La mattina dopo in chat:
  • - dove siete tutti?
  • - Da me a bere Barla
  • - ah ecco, bastardi
  • ...
  • - Ci starebbe un post...