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lunedì 30 aprile 2012

enodissidenze. dalla parte delle radici.


Festa contadina nel cuore della città.



Spigolando sul sito delle enodissidenze ho trovato questa dichiarazione:

“La naturalità delle produzioni non è il punto distintivo, la consideriamo un prerequisito da dare per scontato.
I contadini di Enodissidenze sono anzitutto etici e, ognuno a suo modo, sovversivo.”

Mi trovo in sintonia con questo concetto e ultimamente non riesco più a leggere, né tanto meno fare mie le inutili e sterili diatribe fra i sostenitori del bio vs biodinamici a loro volta vs chimici che guardano ciecamente all’interno del loro vigneto senza mai alzare lo sguardo verso ciò che succede nel fondovalle.
Prima bisogna rifondare una nuova socialità, nuovi mercati, un nuovo mondo e fermare lo sperpero intollerabile di risorse ambientali e umane a cui siamo soggetti.
Poi solo poi.
Discetteremo di quale metodo bio sia migliore.

Ecco i vignaioli che  verranno alle officine corsare a Torino il 5/6 Maggio:
Giovanni Canonica - Barolo (CN)
Giuseppe Rinaldi - Barolo (CN)
Cappellano - Serralunga d'Alba (CN)
Serafino (Teobaldo) Rivella - Barbaresco (CN)
Ezio Cerruti - Castiglione Tinella (CN)
Carussin - San Marzano Oliveto (AT)
Cascina Tavijn - Scurzolengo (AT)
Lo Spaventapasseri - Mombaruzzo (AT)
Iuli - Montaldo di Cerrina (AL)
Valli Unite - Costa Vescovato (AL)
Andrea Tirelli - Costa Vescovato (AL)
Cascina degli ulivi - Novi Ligure (AL)
Odilio e Mattia Antoniotti - Sostegno (BI)
Cantine del Castello Conti - Maggiora (NO)
Clarea Vini - Chiomonte (TO)
Coop La Vigna - Montecalvo Versiggia (PV)
Podere Il Santo - Rivanazzano (PV)
Ca' del vént - Campiani di Cellatica (BS)
Cascina Belmonte - Muscoline (BS)
Az. agr. Gatti Lorenzo - Ponte di Piave (TV)
Monte dall'ora - San Pietro in Cariano (VR)
Lorenzo e Cristoforo Aldrighetti - Marano in Valpolicella (VR)
Cinque campi - Puianello di Quattro Castella (RE)
Denny Bini - Coviolo (RE)
Cardinali - (PC)
Massa Vecchia - Massa Marittima (GR)
I Botri di Ghiaccioforte - Scanzano (GR)
Il Cerchio - Capalbio (GR)
Podere Le Boncie - Castelnuovo Berardenga (SI)
Colleoni - Podere Sante Marie - Montalcino (SI)
Stefano Amerighi - Cortona (AR)
Fattoria Cerreto Libri - Pontassieve (FI)
Marco Merli - Casa del Diavolo (PG)
Emanuele Rasicci - Controguerra (TE)
Marca di San Michele - Cupramontana (AN)
Fiorano - Cossignano (AP)
Grifalco della Lucania - Venosa (PZ)
'A Vita - Cirò (KR)
L'Acino - San Marco Argentano (CS)
Presa - San Gregorio (CT)
Burja - Vipava (Slovenija)
Klinec - Medana (Slovenija)
C&G Vergé - Macon (Bourgogne, France)

ALTRI CONTADINI/ARTIGIANI

Casa dei tajarin di Mauro Musso - Alba (CN) LA pasta artigianale
San Giovanni Vecchio - Moncestino (AL) macelleria e salumi
Piccolo forno Marziali - Saludecio (RN) fata roba!
Orto Pian del Bosco - Fossano (CN) ortofrutta
Danilo Basili - Orvieto (TN) olio/altri
Costa Digiano - Cingoli (MC) olio
Cucina-To - Torino gastronomia
Birrificio Baladin - Piozzo (CN) birra
Tano Malannino - Caltagirone (PA) ortofrutta
Corrado Iacono - Noto (SR) olio
Pianpicollo - Levice (CN) miele
Su Nuraghe - Ponte Pattoli (PG) formaggio e salumi
La Bucolica - Fivizzano (MS) piadine di castagna


venerdì 27 aprile 2012

trebbiano spoletino Terra dei Preti, vino ancestrale

Collecapretta e il Trebbiano Spoletino Igt Umbria Terra dei Preti 2010.



Piante centenarie di un vitigno antico spesso maritato con alberate, espressione di un antichissimo paesaggio policolturale mediterraneo.
Apro la bottiglia con trepidazione, annuso…
Questione di cultivar o questione di mano, di metodo, di pensiero, di memoria, di tradizione.
Un bianco macerato sulle bucce, opaco, arancio, tannico, lievemente ossidato.
Caramelle di orzo e camomilla e the e lieve tostato e infusi.
Scombussola un poco la categorie organolettiche, perché la bevibilità salata è impetuosa e non esibisce muscoli glicerici e folate alcooliche, il frutto limpido non esiste, i profumi sono intensi ma initelleggibili e mutevoli, quasi nascosti nella nostra amigdala.
Va giù veloce mai denso, saporito e invitante.
Delicato, malgrado il lieve raschio dei tannini.
E mi costringe a pensare al parallelo coi bianchi fruttati, floreali, morbidi come caramelline Leone.
E mi costringe a pensare che qui si gioca una piccola battaglia di retroguardia fra l’orizzonte organolettico pre-enologico e quello tecno-enologico contemporaneo.
E mi costringe a pensare a come tutta questa materia che c’è nel bicchiere possa invecchiare ed evolvere.
E bevo mentre penso e il bere mi fa pensare.
Forse questo basta.
Bonne degustation


Luigi

Ps
Ringrazio Jacopo Cossater per la segnalazione della cantina.

martedì 24 aprile 2012

il Ciliegiolo e i luoghi di Maremma, La Busattina e Antonio Camillo

Ciliegiolo.
Maremma, la Toscana che volta le spalle al Sangiovese?


 
Ho letto ultimamente che alcuni critici non vedono di buon occhio il proliferare di vini da vitigni autoctoni riscoperti.
Vedono in questo accanimento una strategia per lo più di marketing volta alla diversificazione dei prodotti.
A sostegno della loro tesi dicono che quando si degustano li si paragona a varietà più conosciute e nelle descrizioni compaiono paragoni del tipo “nebbioleggia” o “pinoteggia”, per cui sarebbe inutile, a loro dire, faticare a fare dei vini che sembrano o occhieggiano ad altri già consolidati.
Non è che mi sia fatto un’idea a riguardo però il fatto che si paragoni un vino nuovo, per rendere comprensibile l’esperienza ad altri, ad un patrimonio di sensazioni condivise non mi pare indice di discredito, bisogna solo aver pazienza e bere il nuovo vino fino che “autoctonicheggi” in perfetta autonomia.


Vagheggiavo intorno a pensieri di questo genere mentre assaggiavo due Ciliegiolo di maremma, vitigno a me totalmente sconosciuto ma dal nome piuttosto invitante.
Il primo che ho aperto è quello di Emilio Falcione de La Busattina, un Rosso Igt Maremma Toscana 2007.
Alcool 14,5% vol.
Cupissimo di colore e di profumi terrosi e affumicati.
Con aperture floreali, acidulate di ciliegie, officinale.
Introspettivo, chiuso, austero, fresco con una certa imponenza strutturale.
Tannino piuttosto corrosivo ma piacevole, ampio e mutevole, viola e liquerizia, minerale.
Un vinone direi ma molto bevibile.



Il secondo è quello di Antonio Camillo il Vallerana Alta 2009 Igt Maremma Toscana, lo stesso vino che va a comporre in blend con sangiovese e grenache il Capatosta 2009, Morellino di Scansano Docg di Poggio Argentiera.
Colore molto più scarico, rubino.
Alcool 13,5% vol.
Frutta fresca intensa, ciliegia e ribes e melograno spremuti e dolci, succulenti.
Rose rosse carnose e folate di timo.
In bocca morbido e fresco, meno imponente.
Tannini lievi e leggero amarostico.
Molto piacevole anche lui.

Due vini dallo stesso vitigno, da vigneti collinari allevati il primo con metodi biodinamici, il secondo in maniera tradizionale e con molte piante a piede franco.
Due vini buoni, molto buoni, eleganti ma molto diversi (al di là delle comprensibili differenze del millesimo).
Emilio Falcione mi ha detto che il Ciliegiolo si presta in base alla maturazione delle uve e alle vinificazioni a dare vini diametralmente differenti.

Poi confronto i protocolli produttivi dei due vignaioli e scopro che più o meno sono realizzati in maniere simili.
Fermentazioni con lieviti autoctoni in fermentini di legno con macerazioni prolungate di quattro settimane e affinamento di un anno in legno medio grande.
Al chè vado in confusione, controllo dove sono ubicati i vigneti e vedo che uno è a San Martino sul Fiora (GR) e l’altro a Montiano (GR) e mi dico che il Ciliegiolo ha una capacità di leggere i luoghi incredibile e di declinare le sue caratteristiche organolettiche in base alle caratteristiche pedoclimatiche di provenienza.
Avrò pensato giusto?
Ben vengano autoctoni con queste capacità!
Glu glu vanno giù.
Bonne degù.

Luigi

PS
Il primo nebbioleggia
Il secondo grenacheggia
Così per capirsi.

Vallerana Alta e Corrado il vignaiolo






mercoledì 18 aprile 2012

#vinicolki0 arriva inaspettato di Niccolò Desenzani

arrivando a Torino


Non un giorno perfetto perché un po’ di negligenza per il sublime ci sta tutta.
Finalmente dopo mesi di rapporti twitterari, un paio di incontri più o meno fugaci, riusciamo a organizzare un pranzo a Torino.
C’è Vittorio Rusinà alias @tirebouchon che è il sostegno che chiunque vorrebbe avere. Immensa saggezza, profonda conoscenza, totale umiltà. Il suo è un ruolo fondamentale: è un agitatore di anime e da queste fa scaturire il meglio.

Vittorio Rusinà @Tirebouchon


C’è Luigi Fracchia de gliamicidelbar.blogspot.com, palato fine in fermento di curiosità e penna spesso sublime nel suo mix di agronomia, sovversività e poesia.

Luigi Fracchia @LuigiFracchia

Si aggiunge anche Davide Marone, studente tardivo di enologia, già tecnico delle telecomunicazioni al servizio della capitale sabauda.
Davide Marone @dmarone31


La scelta del luogo è scontata: il Consorzio: miglior carta vini del mondo, che io sappia. E luogo d’elezione per i miei amici torinesi che qui sono come a casa, in perenne tenzone sfottona con i due giovani bravissimi gestori (Pietro Vergano e Andrea Gherra).
-          Se avessi preso io la telefonata avrei detto a Frakkia che non c’era posto!
-          Dài portaci la carta dei vini, o vuoi dircela a voce (parecchie centinaia di etichette ndr)?

io @ndesenzani

Ci siamo giunti io e il Fracchia dopo un giro turistico per i dintorni, nel centro torinese, dove le passioni di architetto di Luigi sono emerse chiaramente. Ne ho avuti vicini di architetti e c’è un furor che li prende quando raccontano di opere a loro care, che io invidio davvero. Perché hanno accesso a un sapere che è sfaccettato, interdisciplinare, preciso. Umanesimo e tecnica.
Ma il tempo non è tanto e tutto è sfiorato.
Dunque finalmente ci sediamo e la scelta dei vini è mezzo improvvisata, mezzo sognata, mezzo pensata… mezzo qualcos’altro così facciamo due! Luigi ha deciso di portare una bottiglia di Soldera del ’69 (che scopriremo essere un ’79, l’indomani: errore di vergatura di Luigi). Non si sa se sia Rosso o Brunello perché le etichette si son perse sotto la sabbia dove furono riposte. Va aperto, ma va anche aspettato.
Un consulto confuso e l’interazione con l’oste portano a un esordio con il Serragghia bianco di Gabrio Bini.


Insieme arriva la prima tranche di antipasti, con una tartare al coltello e un nido di insalata capricciosa.
Questo zibibbo dagli aromi di pompelmo rosa e dalla polpa sapida e lievitosa accompagna alla grande.
Si decide di proseguire con un vin de soif (vino tipicamente giovane, beverino e poco impegnativo nel gergo francofono ndr), un cabernet franc del 2011, Appellation Saumur-Champigny, di Thierry Germain. Ancora vinoso e giovane e acerbo sarebbe da lasciar lì e ribere il giorno dopo, perché comunque è dinamico nel bicchiere.



Si passa dunque al Rouge Fruit di Anne Marie Lavaysse, probabilmente il 2010, che con il suo carattere fresco e un po’ speziato, e una dirittura in bocca che non si penserebbe possibile in un vino figlio di sedici diversi vitigni, si rivela perfetto sui fritti che arrivano come seconda tranche di antipasti. Un fiore di zucca a regola d’arte, un piccolo pezzo di semolino dolce, ché siamo in Piemonte, acciughe fritte, e salate su crostino di burro. Un pezzetto di animella, che mi è piaciuto nonostante non ami quella parte, e altre gourmandise.


Nel frattempo è stato aperto anche un Arbois Pupillin di Overnoy del 2005.
Ma è tempo di agnolotti e per loro, come l’oste suggerisce (più che un suggerimento sembrava un ordine categorico), ci vuole la barbera!
Dunque apriamo la 2006 di Ratti, che io ho portato da Milano.
Il vino viene sottoposto alla critica inflessibile e severa di Luigi e Davide che dapprima ne rilevano con i loro nasi di segugi, odor di stalla, e poi una certa imprecisione in bocca. In effetti appena aperto è un po’ scomposto. Ma piano piano con l’ossigenazione riuscirà ad ammaliare Davide e a convincere Luigi. E’ un vino che fa discutere. E’ archetipico. E’ anche pieno di difetti. Ma l’acidità insieme ai sapori rustici lasciano un’interminabile impronta sul palato. E non c’è dubbio che per gli agnolotti questo fosse il vino.
Finalmente ci avviamo verso una pausa di meditazione: arriva il Soldera, in ottima forma. Piacevolissimo, aperto, molto bevibile. Regge gli oltre trent’anni molto bene, senza acciacchi. Chapeau.



Sulla sua coda partono i taglieri di formaggi.
Non ho voglia di sforzarmi di descriverli e ricordarmeli. Ma sono un’apoteosi di piacere e l’Overnoy, con i suoi aromi di fermenti quasi lattici, e la profondità e la freschezza ossidativa, arriva in tavola col tempismo giusto ad accompagnarli fino a un centrale boccone di comté d’alpeggio che commuove nel suo abbinamento con il vino. Chiude un gorgonzola un po’ violento che non troverà degno contraltare alcolico. D’altra parte solo un vino dolce l’avrebbe accompagnato a dovere.
Luigi


Finiamo con del ruhm.
Vittorio e Luigi mi accompagnano a Porta Susa giust’in tempo per prendere l’Eurostar che in molto meno di un’ora mi porterà alla stazione Garibaldi di Milano, dove mi sveglio per fortuna da un sonno etilico quasi catalettico.
Sono stordito. Abbiamo decisamente esagerato. Ma penso che ogni tanto sia giusto. Aspettavo questo giorno da tanto tempo.
Tengo duro e vado in Centrale a recuperare la bicicletta con la quale mi dirigo in garage a prendere la macchina. Devo raggiungere la mia famiglia a una festa di compleanno nel sud della città.
Sono accompagnato da Radiotre a un volume imbarazzante, con una trasmissione splendida che dapprima mi propone Mingus, poi Les Claypool per poi arrivare fino alla goccia d’acqua di Chopin. Con una serie di collegamenti tanto improbabili quanto azzeccati. E penso che è un po’ come la serie di vini che abbiamo bevuto a pranzo.
Torniamo finalmente a casa.
Adesso le bimbe sono a letto e io scrivo sdraiato sul divano e penso che non è una giornata perfetta solo perché abbiamo un po’ esagerato, la testa un po’ mi pesa.
A volte è il piccolo prezzo che si paga per una grande felicità.
Ho solo una gran voglia di vedere ancora questi nuovi amici.
Aggiungo posticcia questa riga l’indomani, dopo un ottimo risveglio,  ascoltando la goccia di Chopin e ripensando alla bella giornata di ieri.
Alla prossima.

Niccolò

Breve postfazione.
Ho volutamente mantenuto il titolo #vinicolki, anche se come ci fa notare Niccolò poi non ritorna nel testo, perché mi piace e perché tutti i vini bevuti quel giorno rientrano in questa categoria non categoria inventata da Vittorio.
Ho pubblicato con piacere questo resoconto perché (un po’ per il mio sfrenato ego) dalla dimensione privata e particolare dell’evento, forse, si possono trovare degli spunti pubblici e universali.

i cuochi del Consorzio


insalata capricciosa

lunedì 16 aprile 2012

buono da bere o buono da pensare?

Del buono.
Molti sostengono che:

Ciò che piace è buono.
Indipendentemente da come, ciò che piace, sia stato fatto.

Questa teoria del “puro-piacismo” (perdonatemi il neologismo) mi trova da tempo in netto contrasto.
Perché riduce tutto ai sensi e alle percezioni, infischiandosene di come i sensi si intreccino con la cultura, l’antropologia, la storia e di come il cibo, quindi il vino nella sua accezione di alimento e la loro preparazione siano, al di là della loro funzione nutrizionale, un processo culturale di autocostituzione e autorappresentazione della società.

Oltretutto si fa riferimento sempre ai sensi (del consumatore medio, ma chi è questa entità a cui ci appelliamo?) un po’ obnubliati da anni di anestesia dei sapori, di glaciazione dei cibi.

E’ un concetto ormai assodato, fra i gourmet (o presunti tali), che i formaggi (rigorosamente d’alpeggio a latte crudo, da razze storiche, affinati in grotte), il pane (lievitazioni acide, lavorazioni lente, grani di alta qualità) siano migliori se fatti in maniera tradizionale, a bassa tecnologia ed alto artigianato, invece quando si parla di vino perchè ricompare sempre la presunta superiorità di enotecniche scientifico-industriali?

E’ come se il vino rientrasse obbligatoriamente, pena una squalifica organolettica e di mercato, nell’orizzonte retorico e di senso dell’immaginario tecnico-scientifico e se ne fosse sancita definitivamente la distanza dalla sua storia e tradizione.
Semplificando, l’orizzonte retorico e di senso è quello dei protocolli igienico-sanitari, l’ansia del controllo dei processi e delle avversioni ad ogni contaminazione e devianza organolettica (la stessa devianza è un invenzione concettuale strumentale alla definizione dell’ “errato o scorretto” da contrapporre al “giusto o corretto”).

Bisognerebbe avere il coraggio di dire che esistono due vie parallele di produzione enologica dalle quali si ottiene un prodotto nominalmente e merceologicamente chiamato vino.
Ma che non sono lo stesso prodotto l’uno è artigianale, l’altro semi artigianale o para industriale fate voi.
Con ciò non sostengo la superiorità dell’uno sull’altro.
Uno è vino, l’altro è paravino e, probabilmente, rappresentano simbolicamente due diversi insiemi di consumatori della nostra società.

Credo che ormai le sfumature intermedie di produttori, dimensionalmente ancora “artigiani”,  con i piedi in due staffe non abbiano più molto senso (anche da un punto di vista commerciale, se il problema è la lotta sui prezzi, è già persa in partenza nei confronti dei grandi agglomerati agroindustriali).
Perché usare tecniche agronomiche pesantemente tecniche e poi vinificare tradizionalmente?
Perché usare tecniche agronomiche tradizionali e poi vinificare in maniera pesantemente tecnica?

Perché non ricominciare (o ritornare) a lavorare sulle cultivar e ritornare a propagazioni sessuali, massali direttamente in vigna e confrontare i sistemi di allevamento (quelli attuali sono nati per produrre quantità)?
Perché non studiare a fondo la fillossera e provare ad eliminare, dove possibile, il piede americano?
Perché non studiare i lieviti di cantina (in ogni singola cantina, in ogni singolo territorio)?
Perché non studiare i consorzi microbici del terreno e delle piante in ogni singolo territorio viticolo?
Perché non studiare tecniche agronomiche agroecologiche e la riduzione dei costi esterni alle aziende?
Perché non studiare modelli di commercializzazione diversi dagli attuali (perché il mercato è una convenzione sociale e non una fede)?
Perché fare il vino artigiano è un’attività ad alta intensità di lavoro e questo credo che sia un concetto non da rifuggire ma da analizzare e comprendere e stimolare (abbiamo forse bisogno di fiumi di vino che i mercati, già ora, non riescono ad assorbire?).
Credo che ci sarebbe molto lavoro, per molti professori e tecnici delle nostre esangui università.

Questo discorso vale anche per tutte le altre produzioni agricole, basta sostituire la parola vino con cereali, ortaggi, frutta,…e il costrutto logico non cambia.
La nostra vita, forse si.




giovedì 12 aprile 2012

domaine leon barral Herault blanc 2006

Leon Barral 2006 blanc Vin de Pays de l'Herault.


Sud ovest della Francia Languedoc-Roussillon (denominazione non proprio di punta neanche per i nostri cugini d’oltralpe) per bere del Terret Blanc e Gris (chi sono costoro?), un po’ di Viogner e Roussane.
Provenienti da vigneti centenari, ad alberello.
Gestiti in bioestremismo.
Macerati con una spremitura lenta con torchio verticale.
Malolattica eseguita, poca solforosa aggiunta.
Decantatelo un po’ che si apra e avrete fra le mani un bianco (con riflessi arancio) ruvido e insolente.
Camomilla secca strofinata fra le mani.
Sferzate di timo e buccia di agrumi.
Ondeggiante, mutevole.
Insiste con distillato e laccature pungenti e tabacco biondo.
Fieno e sale.
Quel quid di tannino e di linfa asciugante.
Nervoso in bocca, rinfrescante e dinamico.
Parafrasando Niccolò Desenzani: cosa sarebbe questo vino senza i suoi difetti?
Un vino mediocre?
Non lo sappiamo perché Barral eleva il (lieve) difetto a fonte di piacere (e conoscenza?) e forse giunge al sublime?



Per non farmi mancare nulla, nella stessa sera ho aperto uno Savagnin Les Chalasses Marnes Bleues 2009 e uno Chardonnay Les Chalasses Vieilles Vignes 2008  entrambe Cotes du Jura di  Ganevat.
Superbi entrambi.
Il Savagnin era di una freschezza acida limonina, salino, tagliente, affumicato, vegetale, speziato quasi piccante .
Con lievi accenni ossidativi (marchio di fabbrica, non difetto) travolti e integrati nella freschezza agrumata, floreale, succoso, quasi tannico, lunghissimo e saporito.
Lo Chardonnay anche lui molto interessante, più morbido, floreale e delicato  ma scattante e verticale con lieve decadente mielosità amara.
Giovanissimi, bevibilissimi impossibile aspettarne la maturità.
Bonne degustation


Luigi

martedì 10 aprile 2012

giovanna morganti Podere le Boncie castelnuovo berardenga


Uomini pardon donne dietro i terroir
“Un viaggio inizia sempre dal bisogno
di muovere un confine fino al sogno”.

Certe volte il caso o la necessità di dare significato alle proprie follie agglutinano senso intorno ad una frase, una strofa di una canzone ascoltata mille volte distrattamente.

“Un viaggio inizia sempre dal bisogno
di muovere un confine fino al sogno”.

Compulsavo sul lettore cd e dal finestrino scorrevano guard rail e caselli e aree di sosta e aree di servizio.
Il cordone ombelicale che ci accompagna indistinto e indistinguibile per tutta l’Italia, l’Europa.
Castelnuovo Berardenga (SI), al confine sud del territorio del Chianti Classico Docg,  spunta fra boschi di conifere, poca terra su affioramenti di pietre calcaree, un ambiente che a me ricorda la montagna e il vento di maestrale rafforza questa impressione.



“E' mia comunque sia, la decisione
di prendermi altro tempo
è mia l'unica via
dentro a un milione di strade divergenti”.

Giovanna Morganti ne ha imboccata una irta di difficoltà.
Ha cercato di pensare come una pianta di vite e ha sentito la sofferenza che prova nell’essere piegata e legata e ridotta ad una dimensione sola, piano vegetale bidimensionale in un mondo tridimensionale.
Ha messo in pausa la sua preparazione universitaria e i tecnicismi derivanti da visioni iper-riduzioniste.
Ha ricominciato dall’alberello (con tutte le complicazioni che questo metodo di allevamento implica) per provare a dare libertà ai vegetali, libertà di auto regolarsi, di sentire la forza di gravità, il sole senza la stampella dei tutori.



Una strada tra il milione di strade divergenti che Giovanna vorrebbe tentare ma che i tempi della biologia non consentono a noi mortali se non viste in proiezione evolutiva.
Foglia Tonda, Colorino, Mammolo, Sangiovese.
Sovescio con leguminose e crucifere a filari alternati, con rotazioni annuali delle varietà per rivitalizzare la terra.
Cosi ciottolosa e avara, ricca di calcare attivo.
Con pazienza ascolta le mie domande e risponde e mi spiega come fanno il piede di cuvèe (mosto e vino dell’annata precedente sino all’ottenimento di 5% vol di alcool per scongiurare lo sviluppo dei lieviti apiculati) e poi come lo inoculano nei vari fermentini.
In cantina poi prosegue l’estrazione del territorio con fermentazioni spontanee in piccoli tini da 5q e 7q tronco conici aperti.

spino per le follature e fermentino da 7qt

Sorvegliati e follati il giusto con uno spino in legno che pare un bastone di una qualche divinità agreste.
E quando il cappello delle vinacce riprecipita è il segnale che la fermentazione è finita.
La semplicità apparente di pratiche che diventano routine solo dopo aver accumulato esperienza e sensibilità.
Mi parla anche del fatto che lei vuole capire la natura (anche se poi non vuole forzarla anzi vuole essere natura) e continua a leggere di microbiologia e vorrebbe fare una campionatura delle famiglie di lieviti residenti nella sua cantina.
Per capire e per darsi una spiegazione a certi problemi di ridotto che compaiono talvolta in certe bottiglie e in certe annate.
“Per il nuovo impianto abbiamo copiato i viticultori del Carso, hanno modificato l’alberello a forma di candelabro, di croce per lavorare meglio tra i filari più liberi...”
“C’è bisogno di scienza nella viticoltura naturale, c’è bisogno di conoscenza…”.
“il percorso del viticultore appassionato porta inevitabilmente al piede franco…”.
“Anzi l’aspirazione sarebbe di ripartire dal seme, ridare la sessualità alle piante e se poi sono diverse dalle piante madri, non è detto che sia un male…” (eterozigosi derivante da riproduzione sessuata  e non clonale ndr).

Da questi alberelli viene fuori un vino più vicino alla terra e non solo per indubbia questione geometrica ma anche nei gusti più minerali e terrosi, cupi e introversi.
L’alcool sembrerebbe anche minore come se le piante in maggior equilibrio prediligano concentrare le sostanza minerali, gli acidi, i polifenoli, i tannini.

Prima di andarmene mi parla di una comunità di un paese li vicino che vorrebbe continuare a vivere nelle loro case e del loro lavoro agricolo ma che non ci riesce, inascoltata dalle autorità e dai politici.
Il destino del paese sarà l’abbandono o la trasformazione in relais di lusso?

A breve uscirà il Le Boncie 2009 Chianti Classico  Docg e il "5" 2010 (vino base) io ne ho prese un po’ di bottiglie.
Se volete  leggere del Le Boncie 2008 Chianti Classico Docg

Giovanna Morganti

seggiolino gommato per potare (merita uno spazio espositivo al Moma!)



venerdì 6 aprile 2012

RINO mangiare a Parigi da un italiano apolide

Consigli di viaggio.


Ho sempre delle remore a parlare di ristoranti, perché alla fine viene fuori un elenco enciclopedico di piatti.
E quando, finalmente dopo mesi, noi lettori andiamo nel ristorante recensito, il cuoco li ha cambiati tutti!
Certo!
Non ci poteva aspettare e i clienti abituali cominciavano ad essere stufi della stessa minestra.
Ci ritroviamo con un menù ignoto in cui nessuno ci consiglia l’agnello piuttosto che il brasato.
Ci sentiamo abbandonati e traditi dall’oste e dal recensore.
Questo lungo preambolo per dirvi che io da Rino a Parigi non aspetto altro che ritornarci e non mi importa cosa mi farà mangiare perché sono sicuro che al di là dei miei gusti personali saranno piatti speciali.



Rino è in un quartiere moderatamente periferico per chi è Louvre-centrico, vicino al mostroarchitettonico dell’Operà de la Bastille (costruita negli roaring 80’s del novecento, periodo molto fecondo di brutture architettoniche) nasce con le dimensioni di un ristorante di quartiere, chiara impostazione Foodies (alta qualità ma un occhio al prezzo), ed è subito diventato magnete per gli italiani in terra d’oltr’alpe e per i francesi amanti del cibo e del vino.
Giovanni Passerini, lo chef, è partito da Roma per arrivare a Parigi prima allo Chateau Briand di Inaki Aizpitarte poi al Gazzetta di Petter Nilsson.

Giovanni Passerini


La sua cucina è maledettamente e positivamente internazionale, un superamento del facile ragionamento populista intorno alla retorica della cucina di territorio e di tradizione.
Il suo territorio e la sua tradizione sono quelli cosmopoliti e bulimici della cucina mondiale (l’alta cucina è sempre stata globalizzata, anzi per lungo tempo è stata l’unica “attività umana” ricercatrice compulsiva di novità).
“…, la grande cucina non esiste senza evoluzione, erosione e oblio. La cucina è diventata arte grazie a una continua elaborazione, alla mescolanza di passato e futuro, qui e altrove, crudo e cotto, salato e dolce, e può continuare a vivere solo liberandosi dall’ossessione di chi non vuol morire…”
Muriel Barbery, Estasi Culinarie.



I suoi piatti sono scomposti ma riassemblati, italiani ma francesi, rarefatti ma materici e buoni, cotti al punto giusto, ricchi di sensazioni e profumi e colori.
L’uso delle verdure e delle erbe selvatiche valicano il confine del contorno per diventare propellente gustativo.
Risotto d’orzo (cremoso e perfettamente al dente) con midollo, erbette e fiori (delicatamente amarostici), frutti di mare (crudi e potentemente salini), porro stufato.
Lingua di bue o Cabillaud Bretone con topinambour in crema, coste e olive.
Petto d’anatra (migliore di quella del maestro Inaki Aizpitarte) e carciofi e altre verdure intraducibili.
Filetti di pesci Atlantici dai nomi improponibili con morbidezze da sogno.
Un Babà tra i più buoni mai mangiati, con agrumi disidratati, spuma di ricotta e sorbetto d’arancia questo dolce accompagnato dal distillato di tabacco e mele di Capovilla è magnifico (poi fatevi chiamare un taxi, ma ne vale la pena!).

risotto d'orge, herbes sauvages, couteaux, moelle, poireaux

Ciò che colpisce di più alla fine del percorso gustativo è la piccolezza della cucina, non più grande di quella di un monolocale, affollata da quattro persone che paiono danzare e come d’incanto i piatti escono in tempo con cotture e temperature perfette.
Ero allibito, anche perché nel frattempo Giovanni non disdegnava parlare con noi e con altri commensali e con Francesca Tradardi (sommelier)  in sala.

Cabillaud Breton avec topinambour, blette, olives

 Ho bevuto i vini che ho recensito il mese passato e vivo ancora del ricordo.

A pranzo costa dai 20/25,00 euro la sera il doppio, vini esclusi (abituatevi ai ricarichi stratosferici vigenti in Francia sui vini).
Prenotazione consigliata  46, Rue Trousseau, Paris  11°, tel n°+33 1.48.06.95.85

Giovanni sarà al Consorzio a Torino il 29 ottobre in occasione del Salone del Gusto 2012.

Baba au Rhum, agrumese, ricotta, sorbet


mercoledì 4 aprile 2012

l'agricoltura nell'epoca del capitalismo finanziario



Dalle “sane” polemiche (le polemiche trovo che non siano mai sane e tendono sempre a costruire muri e confini invalicabili irti di incomprensioni e risentimento) nate dal mio post “agricoltura alto artigianato” e “Bio! Bio chè? Pensieri sparsi” ho avuto momenti di profondo ripensamento e anche di altrettanto profondo malumore.
Però la diatriba sui vini naturali versus industriali è continuata su altre piattaforme.
Così va la vita.

Il malumore che mi ha colto è stato causato più che altro dalla durezza con cui il discorso sul biologico e sulla sostenibilità delle pratiche agricole è stato attaccato nei commenti, portando come argomentazioni il grande e mirabolante successo della “rivoluzione verde” (che di fatto vuol dire industrializzazione dell’agricoltura e il massiccio uso di fertilizzanti minerali, pesticidi, meccanizzazione, monocoltura, irrigazione, selezione genetica mirata all’aumento di produttività delle varietà) che secondo i suoi sostenitori avrebbe salvato milioni di vite umane destinate alla morte per fame, sancendo la superiorità del “metodo scientifico” sulla gestione tradizionale e empirica dell’agricoltura .
Assistendo alla proiezione di The last farmer e ascoltando le voci di Luciano Gallino e Giorgio Cingolani ho capito che forse avevo colto nel segno e i miei scritti erano in assonanza con le loro tesi.
Giorgio Cingolani sostiene che il 70% della popolazione mondiale è alimentata (sicuramente non con i tassi calorici dei paesi occidentali) da agricolture contadine e solamente il 30% dall’agroindustria.
Inoltre le carestie, eventi sempre portati ad esempio di arretratezza delle agricolture contadine, hanno per lo più una base economica e non una assenza di generi alimentari, ossia le fasce più deboli non riescono ad avere un reddito sufficiente per accedere al cibo i cui costi aumentano in base alla momentanea scarsità (scarsità non assenza) per cui redditi più elevati scongiurerebbero molti problemi di sottonutrizione e morte per fame.

Questa consapevolezza non mi ha aiutato a guarire dal malumore perché Luciano Gallino1 rincara la dose sostenendo che l’attuale modello di sviluppo della civiltà-mondo è di fatto una scellerata corsa verso l’esaurimento completo delle risorse del pianeta con conseguente distruzione degli ecosistemi che sostengono la vita.
Dalla distruzione delle foreste primarie all’inquinamento dell’aria, acqua, suoli; dalla perdita di biodiversità alla erosione, desertificazione e salinizzazione dei suoli; dalla perdita di biodiversità di specie animali e vegetali all’accumulazione di rifiuti tossici.
“Sono tutti aspetti di un deterioramento sistemico dell’ambiente terrestre che è il prodotto diretto e indiretto di una civiltà la quale, in base alle teorie economiche che la orientano, attribuisce valore principalmente al consumo delle risorse naturali, ignorando del tutto nella sua contabilità il valore della loro produzione e riproduzione ad opera della Terra”2.

La New Economics Foundation, nel 2008, ha stimato che il limite massimo oltre il quale gli ecosistemi saranno irreversibilmente compromessi, recando danni a centinaia di milioni di persone sarà l’autunno del 2016.
Al di là della veridicità di tale profezia è ormai provato che gli ecosistemi che ci forniscono cibo, acqua, legno e fibre; regolazione del clima, del livello delle acque e della loro qualità; lo smaltimento dei rifiuti; il sostegno di processi vitali quali la formazione di suolo fertile, la fotosintesi e il ciclo alimentare, hanno ormai subito un degradamento del 60% dei servizi che ci forniscono.
A questa analisi che definire negativa rasenta l’umorismo macabro, innesterei un tema caro ai tecnici che è la fiducia incondizionata e tranquillizzante nella capacità di correzione delle storture da parte delle tecnoscienze (e dell’industria sempre vista come buona, etica e giusta) questo è un modello di ragionamento tecno centrico che esclude ogni altro attore dai suoi ragionamenti e affida un ruolo metafisico alla scienza e quello di “sacerdoti contemporanei” agli scienziati.
Premettendo che non ho nulla in contrario con la ricerca scientifica e il metodo scientifico, non bisogna ignorare che il clamoroso successo della scienza e della tecnica in simbiosi con la politica e le teorie economiche neoliberiste, hanno portato all’attuale situazione di non ritorno. Già negli anni settanta il Club di Roma aveva avvertito gli Stati e gli economisti di questa stortura concettuale della crescita senza fine.
Solo che era troppo presto per dire che era troppo tardi.
Gli stessi media, le università inglobati anzi coevoluti con il finanzcapitalismo, tacciono o abbracciano le confortanti tesi del: “tutto bene, stiamo tranquilli, tanto gli scienziati risolveranno tutto, ora passiamo alla finale di Champions League.”
In un commento ad un mio intervento su Face Book uno stimato docente universitario, ha detto che nel momento, drammatico, in cui si assisteva alla fine (per eccesso di estrazione) del caucciù qualcuno ha inventato la plastica che ora lo sostituisce (non facciamogli notare che la plastica è un prodotto petrolchimico difficile da smaltire, energeticamente oneroso da produrre  e in ultimo che il petrolio è in fase di esaurimento).
Perfetto, quindi con quest’ottica noi dobbiamo continuare a viaggiare a duecento all’ora verso un muro, nella speranza che qualcuno lo abbatta prima di sfracellarcisi contro e nella speranza che dietro non c’è ne sia un altro.

Forse è il caso, ora, di tentare di spiegare in poche parole cosa Gallino intenda per finanzcapitalismo.
“Il finanzcapitalismo (o capitalismo finanziario) è una mega-macchina che è stata sviluppata nel corso degli ultimi decenni allo scopo di  massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e potere, il valore estraibile  sia dal maggior numero possibile di esseri umani, sia dagli ecosistemi.”
…“Come macchina sociale, il finanzcapitalismo ha superato ciascuna delle precedenti, compresa quella del capitalismo industriale, a motivo della sua estensione planetaria e della sua capillare penetrazione in tutti i sotto-sistemi sociali, e in tutti gli strati della società, della natura e della persona.”3
Il potere non è il potere “del” capitale ma il capitale è potere in sé organizzato e pervasivo, esercitato sulla società e decide cosa e dove produrre, quante persone occupare o licenziare, che prezzi abbiano i generi alimentari, quali tecnologie o farmaci o linea di ricerca sviluppare.
 “Ancora il capitale è il potere di trasformare le foreste pluviali in legno per mobili e i mari in acque morte; di brevettare il genoma di esseri viventi evolutisi nel corso di miliardi di anni e dichiarato proprietà privata; di decidere quali debbano essere i mezzi di trasporto usati dalla grande maggioranza della popolazione e con essi quale debba essere la forma della città, l’uso del territorio, la qualità dell’aria.”4.

La capacità di governo poi di questa macchina è affidata a persone che più volte sono state scoperte falsificare i bilanci e mentire sulle attività svolte, ignorando ogni interesse che non fosse il loro e quello degli azionisti. Dice meglio di me D.J.H.Greenwood “Il paradigma centrato sul valore delle azioni incoraggia i manager a vedere il loro lavoro come se gli richiedesse di ignorare tutti i valori politici, morali e umani tranne uno: il profitto. Questa concezione sollecita i manager a vedere il mondo in termini puramente strumentali.”5

La ricerca del profitto ha avuto negli ultimi decenni come obiettivo, quello di attenuare la concorrenza a mezzo di fusioni e acquisizioni che però hanno generato un impressionante sperpero di risorse con le quali si sarebbe potuto facilmente finanziare ricerche mirate all’agroecologia o alla ricerca in generale, invece il primo pensiero delle multinazionali è stato quello di contenere e laddove possibile eliminare la concorrenza che a dispetto del credo neoliberista è l’elemento di maggior fastidio per i loro affari. Le concentrazioni oligopoliste inoltre, a fronte dell’assenza di concorrenza, determinano una inevitabile diminuzione degli investimenti in ricerca e sviluppo a favore del marketing per smaltire un eccesso di produttività non richiesta dal mercato invece di migliorare i beni necessari.
Va da sé che il problema della riduzione dell’uomo a uomo economico investa con brutalità l’agricoltura, la cui filiera è stata oggetto di imponenti concentrazioni sia nella produzione sia nel comparto sementiero e chimico sia nella distribuzione e vendita, che ha subito e subisce una estrazione di valore fortissima a cominciare dall’esternalizzazione di innumerevoli forniture: dall’energia, ai concimi (che dovrebbero preservare la fertilità del terreno e la cui efficacia è messa in forte discussione), ai pesticidi, ai sementi, alle attrezzature meccaniche e i mezzi d’opera (utili ma costosissimi e ad alto grado di obsolescenza).

L’agricoltura ha inoltre pagato un costo umano elevatissimo, le nuove tecnologie e il basso valore riconosciuto dal mercato ai prodotti hanno determinato, anziché un miglior salario ai braccianti agricoli, lo spopolamento delle campagne, dei territori montani (in cui i comuni sono ormai costretti a vendere terra per rimpinguare i bilanci esangui e dando il là al progressivo e distruttivo fenomeno della cementificazione da seconda casa o da turismo “insostenibile”), la chiusura di moltissime aziende agricole, l’accorpamento di terreni in pseudo latifondi gestiti in pressochè totale monocoltura. E i costi sociali, ambientali, culturali di questo processo sono magicamente finiti fuori bilancio e riversati sulla collettività.

E’ ormai assodato che l’estrazione di valore dalla produzione agricola abbia come obiettivo l’abbassamento del prezzo delle materie prime che ormai vengono pagate meno del costo di produzione (che viene in parte compensato agli agricoltori europei e statunitensi con la politica delle sovvenzioni  all’agricoltura, denari prelevati dagli erari pubblici degli stati). Quindi è palese il circolo vizioso e demoniaco in cui siamo finiti, le imprese acquistano (spesso determinando o influenzando i prezzi di acquisto speculando sui future nel mercato borsistico) i prodotti agricoli a costi irrisori, li trasformano (spesso delocalizzando la produzione in aree a basso costo del lavoro e altrettanto bassa tutela del lavoratore), li rivendono nei paesi a maggior reddito (ancora per poco a maggior reddito, visto il trend di compressione dei salari, indotto proprio dalla delocalizzazione produttiva) “infestando” il mercato di cibo spazzatura e caricando di costi occulti la società (sanitari, è di questi giorni la querelle sulla tassa ai junk food, ambientali, sociali) .

L’allargamento della visione all’economia e al funzionamento della mega-macchina, secondo me, sposta e rende quasi ridicolo l’antagonismo fra bio e non bio, fra scienziati e stregoni, relegandolo ad una posizione di chiacchiericcio inutile, perché al di là dell’uso o no di prodotti chimici e di agrotecniche più o meno scientifiche o olistiche, è chiaro l’effetto di estrazione di valore che l’economia globalizzata sta operando sul lavoro e sui prodotti agricoli e la tendenza sarà quella di travolgere tutti i produttori medio piccoli quale che sia il loro orientamento produttivo.
Colpisce tutte le produzioni agricole compresa la viticoltura che godeva fino a poco tempo fa di una maggiore redditività ma che sta subendo l’effetto del dumping sui propri prodotti.
Le uve retribuite a prezzi ridicoli, sempre inferiori di anno in anno, i fiumi di vino prodotto in maniera industriale e meccanizzata (o sfruttando manodopera a basso costo), l’asfissiante politica dei ribassi imposti dalla GDO hanno determinato la progressiva perdita di reddito agrario, il tutto accompagnato dalla retorica del presunto efficientismo delle concentrazioni agroindustriali sono il problema contro cui lottare per evitare di perdere quel poco di cultura agricola e di vitalità e preservazione del territorio.

Cosa bisogna fare non lo so, di sicuro bisogna aprire gli occhi e cercare di smetterla di ragionare come uomini economici e tentare di rispolverare valori etici e culturali che ora giacciono coperti dalle menzogne propinateci dai fautori del “libero mercato” visto come panacea di tutti i mali.
Probabilmente è anche un rischio rifugiarsi nella nicchia delle produzioni di eccellenza, perchè ho il sospetto che si possa tramutare in loculo.
Per cui nel mio piccolo, forse già da tempo, intuivo che i produttori bioqualcosa così orientati al loro ecosistema e alla sostenibilità delle loro azioni agricole, compiessero, magari in maniera inconscia e istintuale, un atto di disobbedienza sociale, una svolta etica mirata alla sopravvivenza stessa della loro famiglia e della loro comunità.
Una sorta di ribellione o quantomeno un chiamarsi fuori dalle dinamiche economiche del finanzcapitalismo.
Il tentativo, forse naif, di abbandonare la schiavitù nei confronti dell’industria chimica, dell’agroscienza, del mercato, della politica e dalle loro pressioni culturali e dall’estrazione di valore cui sono (siamo) sottoposti.
Per cui, con una forte semplificazione, è possibile che la formazione di una comunità di bioqualcosa abbia permesso loro di poter condividere una visione diversa, seppur vaga, dell’economia, dell’agricoltura e della socialità.

Quindi per me, ancora di più adesso alla luce di questi approfondimenti, il consumo di prodotti “contadini” coltivati in maniera sostenibile e rispettosa degli ecosistemi, è un atto etico e penso che tutti coloro che sono agricoltori oggi, dovrebbero compiere un atto etico di abbandono delle logiche produttive e commerciali attuali non per rituffarsi in un “medioevo” tecnico ma per riprendere il controllo della propria libertà e un briciolo di speranza nel proprio futuro.





1) Luciano Gallino, “Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi” Torino, 2011
2) Luciano Gallino, “Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi” Torino, 2011 pg39.
3) l’estrazione del valore è un processo che si discosta dalla creazione di valore attraverso la produzione e vendita di un bene e si tratta per lo più di manipolazioni dei tassi di interesse, artificiosi aumenti di beni in monopolio, distruzione di risorse naturali per l’edificazione, aumento dei ritmi di lavoro a parità di salario.
4) Luciano Gallino, “Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi” Torino, 2011 pg5 e sgg.
5) D.J.H.Greenwood, “Enronitis. Why Good Corporation Go Bad”, in Columbia Business Law Review, pg776.