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martedì 26 ottobre 2010

Venticinquedieciduemiladiecitorinoenotecabordo

Venticinquedieciduemiladiecitorinoenotecabordopiazzadelleerbeviapalazzodicittà
Antonino Barraco
Il 24 sera un sms del mio amico Francesco, mentre ordinavo le pizze al padellino da Nicola Onorato (un buon posto dove morire, diceva un mio prof) in via Stradella 42, mi ha avvertito che ci sarebbe stato all’enoteca Bordò di Torino in via Palazzo di Città 19/A una cena degustazione con i vini dei due jeunes vigneron siciliani più interessanti del momento Arianna Occhipinti e Antonino Barraco.
Arianna Occhipinti

Il dubbio e l’incertezza aleggiavano nella mente.
Questi eventi, loro malgrado, si trasformano in sagre della castagna in val Filzetta, con partecipanti che meno ne capiscono e più si comportano in maniera antipatica o arrogante, il tutto ambientato in mense aziendali con produttori stanchi, annichiliti che cercano di infilarti le bottiglie in sacchetta per ammortare le spese della trasferta.
Il passo da farsa a tragedia di solito è breve.
La decisione di andare l’ho presa all’ora di pranzo del 25, molto gentilmente mi hanno trovato due posti e ci sono andato.
Il destino talvolta agglutina senso intorno a degli eventi apparentemente casuali: il mio viaggio in Sicilia di questa estate dopo otto anni di assenza, la mia passione per il vino e in sub ordine quella per i vini dei due enfant prodige, la decisione di creare un blog, la voglia di uscire in una serata piovosa, l’incredibile comunione di intenti con mia moglie (d’altronde nel suo sangue c’è molta Sicilia), la simpatia dei presenti.
Le ragazze del Bordò (che mi dicono sia aperto da soli sei mesi) sono squisite, di una gentilezza che ti mette a tuo agio, l’ambiente è bello, informale, caldo poco torinese; la gente presente era una commistione di amanti della Sicilia e del vino, avventori casuali molto simpatici ma sciroccati, produttori di vino gioviali e allegri insomma le condizioni ottimali per bere (bene) e mangiare (bene) e soprattutto divertirsi.
Alla fine del pranzo tutti si scambiavano indirizzi internet, bigliettini, consigli, indirizzi di locali, sarà stato l’alcool ma i livelli sonori e di partecipazione emotiva erano alti.
Grazie Bordò, grazie Arianna, grazie Nino, la serata mi è parsa il naturale compimento di una serie slegata ma inarrestabile di eventi  che ci hanno trascinato tutti lì mentre fuori pioveva.
Le coincidenze non si fermano, le ragazze del ristorante hanno lavorato a Modica (RG) al ristorante Gazza Ladra dell’Hotel Failla e lì hanno conosciuto Arianna che ha i vigneti a Vittoria (RG) e Nino  che i vigneti li ha a Marsala (TP) ma che rifornisce sia la Gazza Ladra sia l’enoteca Vini d’autore.
In breve mia moglie ed io ci siamo divertiti, Arianna e Nino sono di persona ancora meglio di quello che anticipano su You Tube, niente di più che persone serie che trasudano sicilianità, buon senso e un chè di Pirandelliano.
Io ho bevuto troppo, non volevo disperdere il nettare, quasi fosse un peccato mortale.
I vini di Nino erano il Catarratto 2008 (con tonno di coniglio al profumo di arancia, eccellente), lo Zibibbo del 2009 (con gratin di alici pecorino di Pienza e pesto, eccellente) e il Milocca del 2006 (con bavarese al pistacchio di Bronte).
Vini difficili bisogna ammettere, potenti, caldi, densi ma setosi nel bicchiere, il Catarratto ha profumi complessi salmastri/iodati e di frutta (pera?melone tardivo di Alcamo?) sottospirito e scorza d’arancia surmatura, sapido/salino molto intrigante. Lo Zibibbo la vera scommessa di Nino, vinificato secco, è a mio avviso il Traminer del Mediterraneo, aromatico (ovviamente), potente di struttura, glicerico, alcolico, colorato, un vino quasi pastoso con residui di acidità esaltata dalla sapidità e un profilo aromatico che dallo stereotipo del moscato si allontana evolvendo nel bicchiere e in bottiglia dal fico/dattero al melange di resina/scorze d’agrumi/miele/salvia/finocchietto, pietroso. Da abbinare con un sontuoso Bloc de Foie Gras.
Il Milocca una vendemmia tardiva di Nero D’Avola che gli fatto ottenere un vino con così tanto zucchero che i lieviti a 16°alcool hanno tirato la ghirba e hanno lasciato ancora dello zucchero  da svolgere ma con 8 g/l di acidità fissa ne è venuto fuori un piccolo alieno dolce, acido, amaro (passaggio in barrique di castagno) con un profilo aromatico complesso, con volatile ben percepibile che veicola i profumi terragni di un vino che è seta e carta vetro allo stesso tempo, il nostro tavolo consigliava l’abbinamento con Marron Glaces.
I vini rossi di Arianna erano l’ S.P. 68 2009 (cotto e crudo di fassone) e il Frappato 2008 (bocconcini di brasato di fassone con cipolle e pomodoro).
Splendidi, il Frappato è uno dei migliori vini Italiani  è di un bel rubino abbastanza intenso, brillante, vivo ha una freschezza supportata da una acidità benevola quasi dolce (per chi ama gli ossimori). Al naso stupisce per l’intensità con sentori anche vegetali di geranio e spezie come il chiodo di garofano, ritorni di frutta rossa appena matura, un po’ di viola/liquerizia forse humus, tannico il giusto da berne a secchiate. Ottimo il blend Nero d’Avola e Frappato a cui ha dato il nome della S.P. 68 che passa vicino ai vigneti, un vino che sta studiando per diventare grande, fragrante e bevibile, fresco e luminoso come il frappato da cui mutua un po’ di corredo aromatico. Incredibile pensare che tutta questa leggerezza dei vini di Arianna scaturisca da un terreno povero, terre rosse su sottofondo calcareo con precipitazioni da Sahara, una insolazione impietosa e il mare che limita l’escursione termica, l’unico aiuto arriva dall’alto piano Ibleo che innesca una rinfrescante brezza di mare durante il giorno e di terra la sera.
Provate anche i suoi oli: masticabile e intenso il Pantarei a base di Tonda Iblea, più dolce e discreto il Gheta a base di Nocellara del Belice.
Comunque sia i vini di Arianna sia quelli di Nino sono da bere mangiando e assaporando l’alito dello Ionio e di spezie d’Africa che ci mandano.

luigi

lunedì 25 ottobre 2010

non è tutto oro ciò che luccica

Ho deciso di iniziare la seconda settimana di pubblicazioni con lo stesso identico incipit per ricordarmi e ricordarvi che sono in una fase di rodaggio, sia dei temi sia delle impostazioni grafiche della piattaforma blogspot.

Sono un architetto torinese, ho 44 anni da 15 anni mi interesso di enogastonomia per puro diletto e ho cominciato a scriverne per gioco dopo aver proposto a un amico scrittore la stesura di un libro sulla falsa riga di “Vino al Vino” di M.Soldati. Il suo rifiuto mi ha stimolato a scrivere e un altro mio amico “bottegaio” mi ha permesso di fare una capatina nella sua mail list per ammorbare i suoi clienti con temi enologici alcuni dei quali saranno riversati nel blog .

Perché un blog? Perché un blog di vini e di cucina?
Ne mancavano forse?
Non credo ma certe volte mi pare che l’informazione non sia in sincrono con quello che la gente vuol sentire.
Oppure, soprattutto i blog, imperniano tutto sulle polemiche e sullo scontro.
Io ormai ne ho abbastanza delle contrapposizioni, sono convinto della complessità del vivere e delle contaminazioni della vita, peraltro inevitabili e forse positive.
Quindi bando ai massimalismi e alle contrapposizioni manichee, basta alle urla, vorrei scrivere sussurrando e rispettando gli ecosistemi emozionali dei lettori.
1) vorrei parlare di vini pensati e sognati e bevuti;
2) vorrei parlare di cultura gastronomica;
3) vorrei parlare di agricoltura e enologia;
4) vorrei parlare anche un po’ tecnico e mi riservo il diritto di essere palloso;
5) vorrei parlare di tutto ciò a neofiti del vino;
6) vorrei parlare di piccoli produttori;
7) vorrei riuscire a scriverne in maniera diversa;
8) voglio poter cambiare idea sui punti dall’uno al sette.

Luigi Fracchia


Sono diventato, mio malgrado, Sommeliere nel maggio del 2010, una esperienza che vi racconterò.
Un ulteriore ringraziamento a Ste e Francesco pazienti lettori delle mie bozze deliranti e Marco amico da tanto, uno dei pochi autorizzati a chiamarmi “Gino”.






BIO BIO
bio...bio cosa?
Questi interventi (sei) sono nati da una conversazione avuta con Rosario Levatino ai primi di settembre sulle produzioni di vino biologiche e biodinamiche e alcuni sono stati inviati tramite la mail list di Rosario ai suoi clienti. Per mia scelta ho deciso di non modificarle e presentarle cosi come sono nate.

3)Carissimi,
torniamo a noi affermando l’unica verità (in attesa che venga sconfessata) che sottende alla diatriba tra colture convenzionali e bio: gli organismi vegetali sembrano svilupparsi meglio e dare prodotti di qualità organolettiche decisamente superiori se allevate con metodi naturali in assenza di concimazioni chimiche, trattamenti fitosanitari, arature profonde e con moderati interventi irrigui; qualcuno chiama effetto diluizione ciò che affligge i prodotti convenzionali.
Le piante, nelle colture bio, sviluppano una naturale resistenza alle aggressioni delle malattie o infestazioni di parassiti; gli organismi vegetali in un ambiente competitivo, producono sostanze naturalmente destinate alla protezione della pianta come i polifenoli ed altri antiossidanti naturali che la rendono più robusta ma anche più buona (ho personalmente verificato tutto ciò, le banali insalate verdi coltivate in montagna per la reazione al potente irraggiamento solare diurno e al freddo notturno e alla relativa aridità sviluppano foglie di un verde molto più intenso e brillante, la consistenza è più tenace e le superfici più bollose e vi giuro che il sapore non è paragonabile a quelle di pianura).
E’ ormai assodato che gran parte del lavoro sporco è affrontato dal consorzio microbico presente nel terreno che con le micorrize (rapporto simbiotico tra funghi e apparato radicale delle piante) espande e integra le funzioni dell’apparato radicale permettendo di moltiplicare per 600 volte la superficie dello stesso, migliorandone le capacità di assorbimento dell’acqua e delle sostanze disciolte nel suolo.
Da questa discende un’altra, forse ultima, certezza che meno si intossica e si desertifica il terreno, migliori saranno i risultati agronomici, è provato che l’uso anche non continuativo di diserbanti riduce in maniera sensibile il consorzio microbico (che poi, qualitativamente, non si rigenera più anche dopo lunghi periodi di sospensione), stesso discorso vale per la pratica insensata dell’aratura profonda (che modifica l’ecosistema dei microorganismi presenti nel terreno), per le colture scoperte (senza inerbimento o pacciamatura del terreno che con le piogge si dilava e innesca processi di erosione, di lisciviazione dei composti umici e di desertificazione), per le concimazioni inorganiche che essendo sempre sovradosate tendono a salificare il terreno, a distruggerne l’equilibrio biochimico e una volta dilavati i nitrati finiscono in falda ad inquinare le acque; noi  tutt’oggi usiamo diffusamente tutte queste pratiche suicide.
Il suolo e l’humus non sono un supporto amorfo, sono la matrice viva e vitale dell’agricoltura e sono terribilmente fragili, il loro spessore medio non supera il metro.
Il microbiologo Giusto Giovannetti sostiene che il concetto di terroir in viticultura (ma non solo) è da imputare alla estrema variabilità geografica del consorzio microbico che è sessile quindi incapace di spostarsi, per cui i nebbioli di Barbaresco sono in simbiosi con microbi diversi da quelli di Barolo e il risultato è che i diversi microrganismi in un processo di ingegneria genetica (Epigenetica), cambiano l’espressione genica delle piante leggendo pezzi di dna, detto dna spazzatura e lo interpretano in maniera differente tra un consorzio e l’altro (quindi tra un luogo e un altro) e producono quindi profili aromatici differenti.
Così, sostiene Giovannetti, si hanno Barbaresco, Barolo, Roero rosso, Carema, Gattinara, Ghemme, Lessona, Donnas etc. cioè diverse interpretazioni del dna del Nebbiolo da parte di microbi diversi che ne modificano le caratteristiche aromatiche.
A fronte di queste scoperte della microbiologia si capisce come mai in territori fortemente vocati con grandi interessi economici e di mercato si è iniziato da alcuni anni, in sottotraccia ma senza tentennamenti, a riconvertire i vigneti alla coltivazione biologica se non biodinamica. Molti produttori della Borgogna e della Cotes du Rhone infatti lamentavano da tempo un progressivo ma inarrestabile peggioramento della sanità dei vigneti e delle uve, in parallelo ad una semplificazione organolettica dei vini.
Molti di questi produttori come il Domaine de la Romanée-Conti, a Vosne-Romanèe in borgogna nella Cote d’ Or, sono quanto di più lontano ci sia dalla filosofia Steineriana ma molto concretamente hanno, per evitare il crollo qualitativo e di quotazione dei loro gioielli come il La Tache e il Grands Echézeaux, abbracciato le sue metodiche e oggi lavorano i vigneti  di La Tache, Richebourg e Montrachet con i cavalli (in Francia da qualche anno c’è anche un diploma in Agronomia Biodinamica).

Vini consigliati per ristorarsi dopo la lettura. Mettete mano al portafogli e compratevi:
produttore il Domaine de la Romainée-Conti a Vosne-Romanée, il vino il La Tache annata 1999 (io sinceramente non l’ho mai bevuto per cui mi aspetto la recensione da uno di voi).
Con molto meno da Rosario ai Sapori d’Italia:
Produttore la Porta del Vento a Camporeale (PA), il vino il Maquè 2008 blend di perricone e calabrese (nero d’avola). Rosso rubino intenso, cangiante, profumi freschi di frutta rossa, minerale quasi terroso, ricordi di macchia mediterranea. Appagante in bocca, tannini un po’ polverosi. Io lo abbinerei al Tonale, formaggio a pasta cotta (forse pressata) che ho assaggiato da Rosario oppure sulla Sola ottimo anche su carni alla brace.

Per chi ama leggere consiglio:
Claude e Lydia Bourguignon, “Il suolo un patrimonio da salvare”, 2004, Bra, Slow Food Editore.
Giusto Giovannetti e altri “Il vero vino naturale” atti del convegno di Trento dicembre 2009, pg 90  e sgg in “Porthos. Ribelle, nobile, disperato” n° 35 inverno-primavera 2010, Roma, Porthos Edizioni s.r.l.

Per oggi può bastare.
buona bevuta e buona lettura
luigi                                                                                                              

giovedì 21 ottobre 2010

c'è post per te

Rubrica per neofiti o neoappassionati.
Come nasce il vino?
Dall’uva che è il frutto della: genere vitis, sottogenere vitis, specie europea, sottospecie sativa e silvestris.
La vitis è stata addomesticata (questo ve l’ho già detto in “invenzione della tradizione”) circa 6.000 anni fa.
Le piante sono coltivate in vigneti ormai mono varietali con fittezze di piante per ettaro variabili (da 1.000 a 20.000), hanno un ciclo vitale: crescono (inizio produzione 4, 5 anni di età, maturità e continuità produttiva fino a 25 anni, senescenza e morte (anche più di 100 anni), un ciclo vegetativo (riferito alla chioma e ai rami) e un sotto ciclo produttivo (riferito alla fioritura, fecondazione, formazione dei grappoli e maturazione degli acini).
Ho lungamente ragionato sull’impostazione classica della didattica sul vino che parte da questi aspetti agronomici per trattare poi l’enologia e le sue tecniche di elaborazione dei vini.
Al termine del ragionamento mi sono detto che lo schema è troppo rigido.
L’obbiettivo principale per l’appassionato, altra cosa per il tecnico, è quello di riallineare le percezioni di una società inurbata la quale, ormai, crede o le fanno credere che ciò che mangia sia industriale e non agricolo e quindi intimamente legato ai cicli stagionali e solari.
Quanti di voi sanno in quanto cresce un’insalata, un broccolo, una patata, un pomodoro? Per gioco sarebbe interessante me lo scriveste sui commenti.
Non crediate che voglia fare il maestrino, anch’io dopo anni di orticoltura hobbistica, ci devo pensare prima di rispondere e ogni volta che entro nell’orto devo spogliarmi dell’abito di “omo industrialis, sottospecie metropolitana” per sintonizzarmi su frequenze sconosciute. Forse , un sistema per comprendere cosa “percepisce” una pianta,  potrebbe essere quello di sdraiarcisi accanto e guardare il cielo, infilare le dita nel terreno come radici e sentire l’umido della terra tra le scapole, il tocco delle erbe sulle guance, il frenetico e incessante brulicare degli insetti, il vento e la pioggia e il sole sulla faccia, il silenzio rumoroso dello scorrere del tempo,  allora  potremmo intuire il mondo dei vegetali.
Le piante non sono delle entità a sè stanti avulse dal contesto ma vivono nel e dell’ambiente in cui sono calate, lo influenzano e ne sono influenzate in un continuo feed back di azioni e reazioni.
I vegetali sono foto, crono, chemio, termo sensibili, hanno percezioni tattili  ogni azione esterna viene percepita e analizzata e mette in moto delle risposte fisiologiche mirate alla conservazione dell’individuo e della specie.
Leggono e sono letti dal mondo circostante con paziente efficienza, questa mi pare una buona approssimazione di quello che i francesi definiscono “Terroir”.
Questa sensibilità ambientale spiega perché certe varietà si adattino (si siano nel tempo adattate) meglio di altre a particolari condizioni pedologiche e geografiche anche con interventi colturali umani, un esempio lampante sono gli agrumi che derivano da piante del sottobosco della foresta pluviale del sud-est asiatico i cui frutti sono pressoché immangiabili tanto sono acidi, duri e amari.
I giardinieri Siciliani e poi Campani, Pugliesi nei secoli ne hanno forzato la resistenza all’insolazione diretta, al vento, hanno selezionato per talea (selezione clonale) gli individui più resistenti, produttivi e organoletticamente più rilevanti in un processo instancabile di interazioni pianta-uomo-ambiente.
Un processo simile ma ancora più lungo ha subìto la vite che allo stato naturale è una pianta rampicante e/o strisciante anch’essa del sottobosco, presente in gran parte delle regioni temperate del mondo, irriconoscibile rispetto alla varietà Sativa che si esibisce nei bellissimi panorami vitati del mondo dalle Langhe ai pendii del Rheingau.
Quindi per avere dell’uva bisogna piantare la vite, nei terreni suoi congeniali, allevarla (guyot, cordone speronato, alberello, pergola etc.), potarla perché abbia sempre delle branche che fruttifichino e ogni anno raccoglierne i frutti maturi pronti per essere vinificati. Le piante nel corso della stagione e della loro vita, con i loro frutti, interpreteranno il mondo che le circonda e il vino sarà il loro giudizio sul clima e sul nostro operato.

Per ristorarsi dalle fatiche della lettura consiglio di sorseggiare:
Produttore Tenuta le Calcinaie di Simone Santini a S.Gimignano nel pieno dell’unica docg “bianca” della Toscana l’omonima Vernaccia di S.Gimignano Docg. Il  vino da uve certificate bio la Vernaccia di S.Gimignano Vigna ai Sassi docg riserva 2005. Un vino che va aspettato due o tre anni dalla messa in commercio, ora il 2005 è buonissimo e complesso e appagante E’ di un colore giallo paglierino intenso con riflessi oro, vivace e brillante il naso intenso di pietra focaia e di agrumi anche lievemente canditi con leggere memorie di idrocarburi, zafferano e zagare, in bocca miele e agrumi maturi supportato da una spina acida rinfrescante e da una sapida e piacevole mineralità, buonissimo su una trota fario alle erbe e preburgiu.

Produttore Osvaldo Barberis a Dogliani (CN) nel pieno della docg “Dolcetto di Dogliani Superiore”. Il vino da uve certificate biologiche il Puncin 2008 Dolcetto di Dogliani Superiore docg affinamento in botte grande.
Setoso e brillante con spezie e corteccia e frutta una certa vena vegetale di geranio e un po’ di humus, dolce  di liquerizia e viola (il profumo del butun del preive) ravvivato da tannini robusti ma morbidi e da una acidità levigata e pulsante. Ottimo anche su un panino con toma di montagna, splendido con cavateddi al ragù bianco di agnello, da provare come un tempo su salame fresco e pane a pasta dura.

Per chi ama leggere consiglio:
AAVV, “Il piacere del vino”, Bra (CN), Slow Food Editore, 1993.
AAVV, “Il mondo del Sommelier”, Milano, Associazione Italiana Sommeliers Editore, 2005.
Mario Fregoni, “Viticoltura di qualità”, Verona, L’informatore Agrario, 1998 non proprio rilassante.

Per oggi può bastare.
buona bevuta e buona lettura
luigi      

martedì 19 ottobre 2010

Inventare la Tradizione


Stamattina un negozio di alimentari vicino a me ha esposto il cartello con l'annuncio che gli erano arrivate le "paste di meliga", nel mio cervello immediatamente è risuonata la parola tradizione, questo termine evoca in me sensazioni discordanti. Come si può dire che biscotti come le Melighe (fatte con farina di Mais notoriamente centro americano) facciano parte di un passato ancestrale se la materia prima è stata scoperta e coltivata in europa dopo la metà del 1700 circa. Bisogna quindi rivedere il nostro concetto di tradizione come corpus immutabile e monolitico di saperi e accettare che la tradizione muti per effetto dei rimescolamenti demografici, tecnologici, agricolo-colturali, per effetto delle mode e che le tradizioni si inventino per opportunità o per calcolo economico.
Il vino che è uno dei pochi prodotti agro alimentare antichi ancora consumato, in quanto la sua prima realizzazione è antecedente al 7000 a.c. e le viti (genere vitis, sottogenere vitis, specie europea, sottospecie sativa e silvestris) sono state addomesticate e allevate in area pontica (caucaso tra il mar Nero e Caspio) dai Georgiani e poi nella mezzaluna fertile dai Sumeri, dagli Ittiti, dai Babilonesi, dai Persiani, dagli Arabi e nell'area mediterranea dagli Egizi, dagli Ebrei, dai Fenici, dai Greci, dagli Etruschi, dai Romani e adesso dall'uomo moderno in Europa, Nord America, Sud America, Africa, Oceania e Asia, sembrerebbe essere portatore di una continuità che però è solamente formale.
Il vino di oggi non ha alcuna affinità con quello del passato (neanche così lontano) per almeno due motivi uno botanico e uno tecnologico-organolettico.
Quello botanico è duplice: il primo derivato dalle mutazioni degli organismi vegetali quando li si moltiplica e propaga (in particolare per via sessuale) per cui in 6.000 anni cosa sarà rimasto delle viti primigenie? Il secondo è un effetto collaterale di un afide Nord Americano, la Fillossera che verso metà 800 ha infestato il vigneto europeo, distruggendo ed estinguendo centinaia di varietà di vitigni che fino ad allora concorrevano nella produzione dei vini ed ha reso decisamente più complicata e destinata all'opera di scienziati-vivaisti la propagazione delle varietà, sradicandole dal loro territorio di appartenenza (uno dei primi casi di globalizzazione e di diminuzione della biodiversità, ancora oggi pochi vivai selezionano e moltiplicano cloni di vitigni anche molto lontano dai territori in cui poi vivranno), si è difatto interrotta la selezione massale delle piante e oggi molti vigneti nuovi sono composti da decine di migliaia di piante tutte uguali con il medesimo dna, uno scenario da film dell’orrore “l’invasione degli ultra-cloni”. Il radicamento territoriale dei vegetali non è pura poesia del terroir ma è un processo di adattamento all’ecosistema che incide anche sul corredo genetico della pianta, cambiandolo in maniera anche consistente per cui si può parlare di fenotipo invece di genotipo (il fenotipo è l’espressione del genotipo attraverso la lettura del dna da parte dell’ambiente, lettura parziale e selettiva per cui stesso genoma in ambienti diversi abbiamo diversi fenotipi).
Inoltre produttori, agronomi e sommelier sostengono che il portainnesto o piede americano influisca negativamente sulle caratteristiche organolettiche delle uve accentuando i toni vegetali aspri e legnosi, diminuendone la complessità, la persistenza e le potenzialità evolutive sia in bottiglia sia nel bicchiere. A  causa di problemi di incompatilbilità biologico-vascolare fra innesto e porta innesto le viti non riescono più a vivere sino all'età di 70, 80 anche 100 anni momento magico per questi organismi che danno il meglio di loro dal punto di vista organolettico (per ironia i vini che potrebbero avvicinarsi di più a quelli dell'europa prefillosserica arrivano da nazioni senza tradizione vitivinicola come il Cile e l'Argentina che possono, per caratteristiche geografiche, impiantare vigneti franchi di piede).
Quello tecnologico-organolettico perchè i vini del passato erano prodotti con uve spesso immature con mosti diluiti dalla sovraproduzione di uva per ceppo, raramente le fermentazioni, incontrollate e piuttosto casuali, esaurivano gli zuccheri per cui si ottenevano vini con residuo zuccherino, acidità volatili alte, acidi fissi sbilanciati, poche sostanze coloranti, tannini verdi estratti dai graspi, ossidazioni importanti insomma dei vini instabili da bere molto rapidamente, talvolta per la stabilizzazione si ricorreva a pratiche per noi impensabili come la miscelazione con resine (esiste ancora oggi la retzina in Grecia), acqua di mare oppure il riscaldamento sia naturale al sole sia con bollitura, zuccheraggio e speziatura.
Oggi di quei vini rimane un’eco in prodotti di nicchia come la Malvasia Di Bosa, il Marsala, il vin Jaune del Jura (a base Savagnin), lo Jerez (Sherry), il vino di Malaga, il Porto, il Muscatel di Setubal, il Madeira, il Tokaj, la Retzina.
Tutti gli altri vini di adesso sono lontanissimi dai loro predecessori, le tecnologie e la conoscenza delle fermentazioni permettono la produzione di vini freschi, fruttati, concentrati, pronti al consumo ma anche piuttosto longevi e con profumi nitidi mai ossidati.
Il  Mais “Zea Mais” in Messico e in centro America è coltivato da 5.000 anni (come l’uva in europa) ed ha subito un continuo miglioramento (ahimè sino alla industrializzazione) dal punto di vista della selezione varietale in base agli usi  ed ai luoghi in cui veniva prodotto (dalle pendici montane, agli altopiani aridi sino alle foreste pluviali) ed è stato culturalmente e simbolicamente vicino alla coltivazione europea della vite. Da noi si stanno riscoprendo antiche varietà tipo il Mais ottofile diretto discendente delle cultivar Americane che ha caratteristiche organolettiche superiori agli ibridi moderni (ma questo è un discorso a parte ed è un terreno un po’ scivoloso che affronterò più avanti).
Tutta questa sparata primo per autocompiacermi e secondo perchè per amore dell’ossimoro ad un ottimo biscotto della (recente) tradizione si abbina molto bene un vino che è il più tecnologico e contemporaneo che ci sia: l'Asti docg o il Moscato d'Asti (la differenza sta solo nella pressione e nel grado alcolico 5 bar e 8% alcool il primo 1,5 bar e 5% alcool il secondo e un residuo zuccherino leggermente superiore). le paste di meliga legano magnificamente con la freschezza, l'effervescenza, la pacata dolcezza, la delicatezza gusto olfattiva del Moscato d'Asti.
Per un tuffo nel passato proverei a mangiare melighe e sorseggiare un Marsala Superiore oro “Vigna la Miccia” di De Bartoli  a 12/14°C

Per oggi può bastare.
buona bevuta e buona lettura
luigi                                                                                                                   

















lunedì 18 ottobre 2010

il mattino ha l'oro in bocca

Sono un architetto torinese, ho 44 anni da 15 anni mi interesso di enogastonomia per puro diletto e ho cominciato a scriverne per gioco dopo aver proposto a un amico scrittore la stesura di un libro sulla falsa riga di “Vino al Vino” di M.Soldati. Il suo rifiuto mi ha stimolato a scrivere e un altro mio amico “bottegaio” mi ha permesso di fare una capatina nella sua mail list per ammorbare i suoi clienti con temi enologici alcuni dei quali saranno riversati nel blog .

Perché un blog? Perché un blog di vini e di cucina?
Ne mancavano forse?
Non credo ma certe volte mi pare che l’informazione non sia in sincrono con quello che la gente vuol sentire.
Oppure, soprattutto i blog, imperniano tutto sulle polemiche e sullo scontro.
Io ormai ne ho abbastanza delle contrapposizioni, sono convinto della complessità del vivere e delle contaminazioni della vita, peraltro inevitabili e forse positive.
Quindi bando ai massimalismi e alle contrapposizioni manichee, basta alle urla, vorrei scrivere sussurrando e rispettando gli ecosistemi emozionali dei lettori.
1) vorrei parlare di vini pensati e sognati e bevuti;
2) vorrei parlare di cultura gastronomica;
3) vorrei parlare di agricoltura e enologia;
4) vorrei parlare anche un po’ tecnico e mi riservo il diritto di essere palloso;
5) vorrei parlare di tutto ciò a neofiti del vino;
6) vorrei parlare di piccoli produttori;
7) vorrei riuscire a scriverne in maniera diversa;
8) voglio poter cambiare idea sui punti dall’uno al sette.

Luigi Fracchia


Sono diventato, mio malgrado, Sommeliere nel maggio del 2010, una esperienza che vi racconterò.
Un ulteriore ringraziamento a Ste e Francesco pazienti lettori delle mie bozze deliranti e Marco amico da tanto, uno dei pochi autorizzati a chiamarmi “Gino”.






BIO BIO
bio...bio cosa?
Questi interventi (sei) sono nati da una conversazione avuta con Rosario Levatino ai primi di settembre sulle produzioni di vino biologiche e biodinamiche e alcuni sono stati inviati tramite la mail list di Rosario ai suoi clienti. Per mia scelta ho deciso di non modificarle e presentarle cosi come sono nate.




1) Carissimi,
è tempo di rientri e forse, avendo un po' preso le distanze dalla città, di ripensamenti sulla natura e sulla terra (intesa come DEMETRA madre terra).
Così è stato per Rosario ed il sottoscritto che pur non sentendoci per 5 o più settimane, rivedendoci dopo le vacanze in Sicilia abbiamo all'unisono parlato di vini e vignaioli "bio".
Forse è tempo di parlare di approcci differenti all’agricoltura rispetto a quella chimica o industriale. Il tema è un po' complesso ma cercherò di riassumere e semplificare per non annoiarvi.
Prima però ecco alcuni suggerimenti per sane bevute:

Rosario consiglia i vini di la "Porta del Vento", produttore Biologico di Camporeale (PA) che ricade nelle DOC Alcamo e nella DOC Monreale (di più recente istituzione ha allargato le maglie delle varietà consentite includendo vitigni internazionali come cabernet, chardonnay etc,.), sia i bianchi a base Cataratto bianco sia i rossi a base Perricone e/o Calabrese (Nero d'Avola) in vendita presso il suo negozio.
Il Cataratto bianco 2008 che ho assaggiato era molto intrigante, giallo paglierino intenso, al naso frutta molto matura, agrumi, sbuffi mielati in bocca rotondo e ben bilanciato, giusta acidità grande serbevolezza ottimo su uno stoccafisso mantecato con olio extravergine di cultivar Nocellara del Belice con polentine tostate.

Io vi consiglio i vini di Antonino Barraco produttore “naturale” di Marsala (TP) nell'omonima DOC, sia i bianchi a base Grillo, Cataratto bianco o Zibibbo sia il rosso a base Perricone o Calabrese (Nero d'Avola). Lo Zibibbo 2006 è ottimo, fresco, quasi salmastro con intense sensazioni di erbe aromatiche come salvia, finocchietto, macchia mediterranea e frutta come il melone maturo, la scorza d’arancia una goduria sul pesce spada in umido con capperi e olive o su dei caprini. Purtroppo non è disponibile da Rosario, se lo trovate non fatevelo sfuggire.

Queste tre DOC della Sicilia occidentale si intrecciano e si sovrappongono e pescano da un patrimonio ampelografico comune come si intuisce dalle varietà coltivate dai i vignaioli in questione che hanno puntato proprio sui vitigni autoctoni tipici della zona (gli stessi che danno vita al Marsala sia in versione Oro sia Rubino) ma le assonanze territoriali finiscono qua perchè il terroir è molto differente, Barraco in contrada Fontanelle è al livello del mare su terreni misti sciolti anche sabbiosi con forte vento salmastro e scarsa escursione termica, la"Porta del Vento" invece è nell'entroterra a 600 m slm su terreni sabbiosi poco profondi con sottostante roccia calcarea, molto drenanti con forti escursioni termiche e un vento incessante.
Entrambe hanno ignorato le DOC e i loro disciplinari forse per derive anarcoidi forse perché le regole dovrebbero avere delle eccezioni  e stimolare le sperimentazioni piuttosto che irretire in lacci e lacciuoli.
Entrambe hanno lavorato duramente per ottenere vini moderni da varietà difficili, selezionate nei secoli con intenti molto lontani da quelli attuali ma che sicuramente vantano un adattamento alle condizioni pedoclimatiche imbattibili.
Entrambe poggiano su un terreno ostile, arido, infuocato dal sole e dai venti ma proprio nella lotta per la sopravvivenza e nell’intimo legame fra la pianta e l’ambiente che la vite esalta le sue qualità riducendo autonomamente la produzione, autolimitando la vigoria, concentrando in pochi grappoli gli zuccheri, i polifenoli e gli estratti.
Entrambe usano metodi di coltivazione "naturale" che privilegiano la salute della pianta e dell'ecosistema agricolo in cui cresce a dispetto di una concezione convenzionale dell'allevamento in cui la terra, il suolo è un supporto amorfo da arricchire (concimazioni inorganiche) e le patologie malattie da debellare con i trattamenti fitosanitari.
Entrambe vinificano in "rosso" (ossia con macerazioni sulle bucce) anche i bianchi intervenendo pochissimo sui mosti (non innescano le fermentazioni con lieviti selezionati), usano poca solforosa, stabilizzano i vini con la malolattica, non li filtrano affinchè le fecce nobili arricchiscano e proteggano naturalmente il prodotto.
Una concezione Olistica versus una concezione Riduzionista.

Per chi ama leggere consiglio:
Nicolas Joly (guru del biodinamico e produttore di vino a Savenniere) “La vigna, il vino e la biodinamica.”,       2008, Bra, Slow Food Editore.

Per oggi può bastare.
buona bevuta e buona lettura
luigi                                                                                                                  



2)Carissimi,
abbiamo iniziato il viaggio nel bio-logico, bio-dinamico un percorso che come un labirinto confonderà, esalterà, annoierà, di sicuro non risponderà ad alcuna delle vostre domande.
Si intende per agricoltura convenzionale o intensiva o industriale quella nata fine ottocento primi del novecento sia dalle scoperte delle scienze moderne (chimica, botanica, medicina) sia dalla industria  e dalla necessità di sfamare sempre nuova popolazione inurbata
Iniziale teorico fu J. von Liebig chimico tedesco il quale scoprì che i vegetali consumano per crescere azoto, fosforo e potassio. La sua teoria si basò sull’inutilità del suolo se non come contenitore di N, P, K necessari per le colture, quindi teorizzò l’uso sistematico dei concimi chimici per compensare le perdite e per poter così coltivare sempre le stesse colture sugli stessi terreni, liberandosi dalle pastoie delle rotazioni agricole. L’azoto però è stato sempre impossibile da sintetizzare artificialmente e solamente nel secondo dopoguerra grazie agli studi del chimico tedesco F. Haber e alla tecnologia sviluppata da Bosch, sulla produzione industriale (a scopo bellico) dell’azoto, l’agricoltura si è definitamente liberata dai cicli  naturali ed ha potuto accedere a quantità illimitate di azoto per concimare le coltivazioni, assorbendo le rimanenze di nitrato d’ammonio bellico, agganciandosi ai processi industriali ed ai suoi costi energetici. “Anziché attingere esclusivamente alla fonte solare, l’umanità ha iniziato a bere i primi sorsi di petrolio” M. Pollan.
La meccanizzazione delle lavorazioni che ha portato ad intervenire con forza e brutalità sui suoli rivoltandoli in profondità, l’industria chimica che ha sviluppato negli anni sempre nuovi diserbanti, pesticidi anche sistemici e pratiche come la bromurazione dei terreni hanno fatto il resto.

Biologico e Biodinamico sono nati per contrastare l’agricoltura convenzionale e per cercare di tornare verso concezioni meno utilitaristiche e più sostenibili delle produzioni agricole;  hanno, però, modi di affrontare le pratiche agricole molto lontane tra loro, la prima ”metodica” è più scientifica, esiste anche un corso di laurea specifico alla Facoltà di Agraria e affronta le problematiche in maniera più simile alla coltivazione convenzionale cioè con un approccio scientifico-riduzionistico volto a risolvere i singoli problemi nella sequenza in cui si presentano e con cure che sono simili a quelle tradizionali ma utilizzano prodotti non tossici di derivazione naturale: vegetale come il piretro o i macerati di aghi di pino, animale come il latte, gli estratti di bacillus  thuringiensis e i concimi organici al più minerale come il solfato rame e lo zolfo.
La Biodinamica è invece un approccio olistico, antroposofico teorizzato da Rudolf Steiner ai primi del novecento. Secondo Steiner e i suoi discepoli “l’antroposofia è una via della conoscenza che vorrebbe condurre lo spirituale che è nell’uomo allo spirituale che è nell’universo”. Postulano l’esistenza di un mondo spirituale obiettivo e comprensibile, investigabile con il metodo scientifico. Nella realtà hanno sviluppato una concezione dell’ecosistema agricolo come unicum in perenne tensione tra la terra, il sole e gli astri e le malattie sono degli squilibri di questo ordine dinamico del mondo e come tali vanno affrontati, per cui i trattamenti sono a base esclusivamente di componenti naturali (il corno silice, il corno letame, gli infusi di piante con doppie valenze sia interiori, spirituali sia materiali) meglio se auto prodotti (per questo sono invisi dalle industrie chimiche), da applicare, con metodi che ricordano l’omeopatia, seguendo il calendario lunare. Il compito del contadino biodinamico è bilanciare queste attrazioni fra la terra (radici) e il sole, gli astri (le foglie che paiono fondersi con la luce).
Le aziende che vogliono fregiarsi in etichetta dell’appellativo Biologico o Biodinamico devono seguire i protocolli produttivi consigliati e poi farsi certificare dagli enti preposti, i controlli sono annuali.
I viticoltori possono certificare Bio solo l’uva e non il vino per cui in etichetta si leggerà “vino prodotto con uve provenienti da coltivazioni biologiche/biodinamiche”.
Questo aspetto per quanto bizzarro in realtà segnala la complessità della produzione del vino che non si ferma agli aspetti agronomici ma continua e con grandi polemiche nel chiuso delle cantine.
Le dizioni biologico e biodinamico sono di fatto delle certificazioni di applicazione di protocolli produttivi unificati e riconosciuti a livello europeo, ciò secondo alcuni porterebbe ad un aumento di valore aggiunto del prodotto senza un significativo miglioramento della qualità, ai detrattori faccio notare che gli unici agricoltori che accettano i controlli sono quelli biologici, biodinamici e quelli sottoposti a protocolli sperimentali con uso di sostanze chimiche a basso impatto ambientale. Le azienda agricole convenzionali si guardano bene dal farsi sorvegliare o anche solo dal rendere note le sostanze di sintesi e quelle sistemiche utilizzate per le produzioni e i loro dosaggi, per cui ragionevolmente la pasta che avete appena mangiato sarà contaminata da pesticidi e diserbanti (largamente utilizzati nelle coltivazioni cerealicole) ma non sono tenuti a dirlo a nessuno, buona digestione!

Vini consigliati per ristorarsi dopo la lettura.

Rosario consiglia i vini dell’ Az.Agr. Biologica “Il Monticello” di Sarzana che ricade nella Doc Colli di Luni una doc interegionale tra la Liguria in provincia di La Spezia al sud e la Toscana in provincia di Massa Carrara, luogo di elezione del Vermentino e per i rossi inizia l’epopea del Sangiovese toscano che dicono avrà nuova linfa e si ricostruirà una credibilità a partire dalle doc della costiera da Luni (MS) a Capalbio (GR).
Il Vermentino 2009 ha un colore giallo paglierino con riflessi verdi, profumi di fiori e frutta quasi immatura, è  abbastanza intenso e persistente con una piacevole sensazione amaricante, fresco con una spina acida che sgrassa la bocca, io l’ho bevuto e apprezzato su una aringa dolce affumicata con patate “La Ratte” di montagna e olio di mono cultivar di olive Ascolana dell' az.agr.bio.Livia e Amurri Foglini a Petritoli (AP).

Io vi consiglio un vino di Frank Cornelissen prodotto in Sicilia a Solicchiata (CT) sulle pendici dell’Etna il Munjebel, le vigne ad alberello di carricante, grecanico dorato, coda di volpe, sono curate a mano in regime naturale senza prodotti di sintesi e le uve poi sono vinificate senza controllo delle temperature con macerazioni sulle bucce senza lieviti selezionati. Il risultato è un vino difficile a cui io non so dare giudizi, lievemente ossidato sia nel colore sia in bocca con sbuffi di profumi inebrianti di arancia amara o erbe aromatiche alternati a spunto acetico un po’ fuori misura e una bocca un po’ bruciante e un po’ appagante. Bevetelo e poi ditemi voi, forse non sono ancora pronto per prodotti così.

Per chi ama leggere consiglio:
Sir Albert Howard (agronomo inglese inviato in India per migliorare le tecniche colturali e antesignano del
biologico)  “I Diritti della Terra”, 2005, Bra, Slow Food Editore.

Michael Pollan, “il dilemma del’onnivoro”, 2008, Milano, Adelphi


Per oggi può bastare.
buona bevuta e buona lettura
luigi