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mercoledì 14 novembre 2012

E’ un po’ che mi chiedo se le Doc(g)




E’ un po’ che mi chiedo se le Doc(g) rispondano ad una vera omogeneità produttiva e organolettica dei vini prodotti al loro interno in netta contrapposizione a quelli prodotti nelle aree confinanti o esterne.
.
Oppure partendo da dei presupposti qualitativi (ineccepibili ma poco circostanziabili geograficamente e magari diffusi a macchia di leopardo) siano diventate degli strumenti economici atti all’innalzamento del valore dei vini compresi al loro interno, con il semplice meccanismo della riduzione dell’offerta a fronte di una domanda più o meno elevata.

Ovviamente non è sufficiente delimitare un area per sancire automaticamente l’innalzamento dei prezzi, le variabili sono molteplici (anche se tutte figlie di una visione del luogo ridotto a spazio-economico).
Bisogna affiancare alla delimitazione territoriale una serie di narrazioni atte a convalidare a rebours l’avvenuta perimetrazione.
Inventare tradizioni e rispolverare vecchi toponimi, chiamare in causa Fenici, Greci, Romani, Francesi o almeno un casato nobiliare.
In un gioco riduzionistico di equipollenza fra storia, territorio e qualità e valore commerciale.
Una concezione a dir poco semplicistica e mercantile dei luoghi e della biologia vegetale.
Ad esempio, mi pare che le Doc(g) non contemplino segnalazioni speciali per i vecchi vigneti (questi sì potrebbero raccontare il lungo processo di acclimatazione ai luoghi dei vitigni e alle molteplici sfaccettature dei vari fenotipi).

Il patrimonio vegetale è totalmente ignorato se non addirittura semplificato nella sua complessità varietale.
Anche le forme di allevamento e il portainnesto, usato spesso come chiave di volta per adattare le varietà a terreni loro non consoni, sono poco considerate.
Si esalta un concetto di territorialità vuoto e piatto come le carte su cui si disegnano improbabili confini fra comuni, paesi, parcelle, vigneti.
L’aspetto deleterio della riduzione a mappa è che una volta delimitato un confine all’interno tutti i terreni automaticamente divengono uguali (isotropismo cartografico) e ne aumenta il valore, penso alla docg Barolo o all’Asti docg, e anche quelli storicamente non vocati o usati per altre pratiche agricole sono via via vitati per estrarre il massimo valore economico possibile.

Da più persone mi è stato fatto notare che le composizioni pedologiche della Langa e del Monferrato sono molto simili, se non identiche.
Quindi che senso hanno le Doc(g) se il suolo su cui poggiano è identico a chi ne resta fuori.
Quale logica (se non quella di riduzione contabile dei luoghi) naturale giustifica l’erezione di confini fittizi, cosa ci assicura omogeneità e superiorità qualitativa dei prodotti?
Quando ad un passo fuori dal confine i terreni sono identici?

Di fronte alle cartine che ormai sono mondo e non immagine dello stesso pensiamo di comprendere le diverse sfumature organolettiche, non perché esistono (ed io non nego che esistano) nel reale ma perché segni grafici e schemi ne inverano l’esistenza.

L’omogeneità dei luoghi spesso si ha a macchia di leopardo, raramente per grosse aree omogenee, i confini sono sfumati con intrusioni e ricorsività.


Un particolare che mi colpisce è la tendenza, quasi un bisogno strano e anititetico rispetto alla formazione del territorio delle Doc(g) e probabilmente indotto dalla percezione di irrealtà delle perimetrazioni, di parcellizzare l’area in ulteriori sottozone via via sempre più minute sino alla definizione di singoli vigneti.
Processo che porterebbe se amplificato, in maniera paradossale a separare filare da filare, pianta da pianta.

Perché i luoghi sono eterogenei e in natura non esiste omogeneità e isotropismo e questo dubbio, questa forzatura, questa menzogna è interna al concetto stesso della Doc(g) che ha bisogno di frantumarsi in mille lieu dit per ritrovare la diversità negata dai sui stessi presupposti esistenziali.

Hanno dunque senso le Doc(g) al di fuori di un contesto economico?

“Pensate oggi alla notorietà dei vigneti della Cote-d’Or: dopo Santenay non c’è più nulla. Eppure, facendo le analisi del suolo a Givry, Mercurey e dintorni si trovano cose eccellenti. Ma il limite di influenza della diocesi di Autun era Santenay.
...
Il vescovato di Autun non poteva estendersi. Autun si trova nel cuore del Morvan. Ci sono Macon da una parte, e Langres e Digione dall’altra. Quindi la gente di Autun ha protetto quei pendii e impiegato ogni mezzo per valorizzali all’interno dei confini della propria diocesi. Ha sviluppato un sistema di vendita e lavorato i terroir… Sono cose molto complesse, ma osservando quei confini oggi si ritrovano esattamente i confini dei dipartimenti.”

domenica 12 dicembre 2010

franciacortaextrabrutdocgfaccolinondosècoccagliobrescia

Ho preso una deriva conformista.
Di quella sciovinista vi avevo già detto.



Sono l’unico che parla di ostriche e sciampagn a Natale.
Quindi vi parlerò ancora di Metodo Classico (perché la gente beve con le bolle solo dal 24 dicembre al primo gennaio? e poi perché diavolo solo secco e solo sul dolce? Pensavo di rispolverare la pena di morte).
Bresciano questa volta, un Franciacorta DOCG Extra Brut elaborato dai Fratelli Faccoli a Coccaglio (BS).
Cuvèe di Chardonnay 65%, Pinot Bianco 25% e Pinot Nero 5%.
Degorgément (dire sboccatura mi fa impressione) 1° sem 10.
Giovanissimo.
21 mesi di presa di spuma.
Dosaggio minimo come nella tradizione di famiglia intorno ai 2,5 gr/l di zuccheri riduttori.
Secco da paura.


Per non dire caustico (questo blog è vietato a chi non ha il sense of humor).
Spuma intensa e perlage fino e fitto naso pizzicante e nervoso quasi aspro e citrino con una mandorla amara molto presente anche in bocca, tagliente come promette al naso e forse di più con lieve amarognolo finale, vino difficile, per me of course.
Forse bisognava aspettare un  po’ prima di berlo che le asperità si mitigassero e l’ammandorlato (che io non amo molto) del Pinot Bianco si stemperasse.
Comunque insisterò a berne perché bisogna dare fiducia a chi vinifica in controcorrente e in aree difficili.
Le sorprese arrivano dagli artigiani appassionati che si dannano e non sono mai contenti dei loro prodotti.
I Fratelli Faccoli hanno una azienda piccola in quel della Franciacorta che ormai è in mano al capitale o all’industria (non è un male ma il marketing, il brain storming raramente fanno rima con sogno).
Il territorio stesso, sub pianeggiante, forse era bello cent’anni fa, ora è pesantemente antropizzato e pure malamente (capannoni, discoteche, ipermercati, rottamazioni, capannoni industriali).
I Faccoli hanno solo 7 ha alle pendici di una vera zona collinare il Monte Orfano che raggiunge i 450 m slm con pendenze anche molto forti (40-80%) e ha la forma di chiglia rovesciata nel mezzo della pianura al confine  sud est della Franciacorta.



Il versante sud mediamente ripido è zona classica per la vite.
Calcareo (ghiaie cementate da sabbie quarzifere) con rocce affioranti, suolo povero con profondità variabile con presenza di scheletro (terreno molto drenato).
Insomma un postaccio per le viti.
Ma la vite si esalta e tira fuori tutto il minerale che incontra facendo affiorare le ruvidità più che le morbidezze.
I Faccoli poi non guardano il consumatore come un riferimento semidivino da lusingare anzi lo frustano esaltando le freschezze dosando molto poco ed evitando con cura il legno.
Nessuna morbidezza e lunghe prese di spuma.
Il risultato sono il Brut per la massa l’unico ammicamento al gusto imperante, l’ Extrabrut (21 mesi di presa di spuma e 2,5 gr/l di zuccheri), il Dosage zero (48 mesi di presa di spuma e 1,8 gr/l di zuccheri) e il 10 anni (106 mesi di presa di spuma e 2,5 gr/l di zuccheri) per chi vuole farsi male..
Anche i costi sono molto poco Franciacorta (che ormai mediamente costano assai più dello Champagne di piccoli/medi produttori, con lo stesso valore ?).
Mettetene una cassetta da sei in fondo alla cantina, quando fra due o tre anni la ritroverete, mi sà che saranno perfette e vi pentirete di non averne comprate dodici.

Costo in enoteca 18,00 euro
A Torino all’Enoteca Bordo’

Luigi

sabato 27 novembre 2010

franciacortadocgsatenchardonnayenricogattierbuscobrescia

Carissimi
Dopo la cena a base di Champagne e Foie Gras ho avuto delle derive scioviniste, quindi sono sceso in cantina e ho lungamente spulciato tra le riserve spumantistiche (ahimè sempre più scarne) tricolori.
Ho prelevato con un certo imbarazzo e dispiacere l’ultima bottiglia di Franciacorta docg Satén 2004 di Enrico Gatti, Erbusco (BS).



Degorgement gennaio 2008.
Salgo in casa, i salatini erano pronti, stappo senza botto, bottiglia inclinata, tappo perfetto conferma mia figlia (due anni e mezzo e una esperienza da sommelier scafato), drop stop (io, confermo, sono un pervicace fautore dell’attrezzo in questione).
Verso, spuma non abbondante, perlage fitto, colore intenso giallo paglierino, uno spettacolo, naso di fascino, complesso, non lievitoso ma vino sul serio, minerale, profondo, fresco.
I quasi tre anni di separazione dai lieviti gli hanno giovato e non poco, si è evoluto con sicurezza assumendo colori e profumi adulti.
Per essere un Satén di solito giocati sulle morbidezze a cominciare dalle bollicine (pressione inferiore 4,5 atm), dal vitigno Chardonnay che ha geneticamente dei componenti aromatici che terziarizzano verso profumi vanillo-burrosi e dalla latitudine di produzione era ancora incredibilmente fresco, secco, giovane con una struttura ossuta ma importante giocata su binari paralleli di asperità organolettiche e vaghe promesse di morbidezza.
Minerale, leggermente lievitoso e agrumato in bocca snello, sapido e sgrassante, ricorda la Francia.
Bravo Enrico.
Peccato fosse l’ultimo.





Note di produzione dal sito aziendale:
costo sui 18 euro.
100% Chardonnay
Vinificato al 50% in fusti di legno usati e 50% in acciaio 6 mesi di permanenza sulle fecce.
Presa di spuma dalla primavera dopo la vendemmia per almeno 36 mesi e tre mesi di bottiglia dopo il degorgement.
Nessuna notizia sul dosaggio del liquer d’expedition.


Luigi



martedì 19 ottobre 2010

Inventare la Tradizione


Stamattina un negozio di alimentari vicino a me ha esposto il cartello con l'annuncio che gli erano arrivate le "paste di meliga", nel mio cervello immediatamente è risuonata la parola tradizione, questo termine evoca in me sensazioni discordanti. Come si può dire che biscotti come le Melighe (fatte con farina di Mais notoriamente centro americano) facciano parte di un passato ancestrale se la materia prima è stata scoperta e coltivata in europa dopo la metà del 1700 circa. Bisogna quindi rivedere il nostro concetto di tradizione come corpus immutabile e monolitico di saperi e accettare che la tradizione muti per effetto dei rimescolamenti demografici, tecnologici, agricolo-colturali, per effetto delle mode e che le tradizioni si inventino per opportunità o per calcolo economico.
Il vino che è uno dei pochi prodotti agro alimentare antichi ancora consumato, in quanto la sua prima realizzazione è antecedente al 7000 a.c. e le viti (genere vitis, sottogenere vitis, specie europea, sottospecie sativa e silvestris) sono state addomesticate e allevate in area pontica (caucaso tra il mar Nero e Caspio) dai Georgiani e poi nella mezzaluna fertile dai Sumeri, dagli Ittiti, dai Babilonesi, dai Persiani, dagli Arabi e nell'area mediterranea dagli Egizi, dagli Ebrei, dai Fenici, dai Greci, dagli Etruschi, dai Romani e adesso dall'uomo moderno in Europa, Nord America, Sud America, Africa, Oceania e Asia, sembrerebbe essere portatore di una continuità che però è solamente formale.
Il vino di oggi non ha alcuna affinità con quello del passato (neanche così lontano) per almeno due motivi uno botanico e uno tecnologico-organolettico.
Quello botanico è duplice: il primo derivato dalle mutazioni degli organismi vegetali quando li si moltiplica e propaga (in particolare per via sessuale) per cui in 6.000 anni cosa sarà rimasto delle viti primigenie? Il secondo è un effetto collaterale di un afide Nord Americano, la Fillossera che verso metà 800 ha infestato il vigneto europeo, distruggendo ed estinguendo centinaia di varietà di vitigni che fino ad allora concorrevano nella produzione dei vini ed ha reso decisamente più complicata e destinata all'opera di scienziati-vivaisti la propagazione delle varietà, sradicandole dal loro territorio di appartenenza (uno dei primi casi di globalizzazione e di diminuzione della biodiversità, ancora oggi pochi vivai selezionano e moltiplicano cloni di vitigni anche molto lontano dai territori in cui poi vivranno), si è difatto interrotta la selezione massale delle piante e oggi molti vigneti nuovi sono composti da decine di migliaia di piante tutte uguali con il medesimo dna, uno scenario da film dell’orrore “l’invasione degli ultra-cloni”. Il radicamento territoriale dei vegetali non è pura poesia del terroir ma è un processo di adattamento all’ecosistema che incide anche sul corredo genetico della pianta, cambiandolo in maniera anche consistente per cui si può parlare di fenotipo invece di genotipo (il fenotipo è l’espressione del genotipo attraverso la lettura del dna da parte dell’ambiente, lettura parziale e selettiva per cui stesso genoma in ambienti diversi abbiamo diversi fenotipi).
Inoltre produttori, agronomi e sommelier sostengono che il portainnesto o piede americano influisca negativamente sulle caratteristiche organolettiche delle uve accentuando i toni vegetali aspri e legnosi, diminuendone la complessità, la persistenza e le potenzialità evolutive sia in bottiglia sia nel bicchiere. A  causa di problemi di incompatilbilità biologico-vascolare fra innesto e porta innesto le viti non riescono più a vivere sino all'età di 70, 80 anche 100 anni momento magico per questi organismi che danno il meglio di loro dal punto di vista organolettico (per ironia i vini che potrebbero avvicinarsi di più a quelli dell'europa prefillosserica arrivano da nazioni senza tradizione vitivinicola come il Cile e l'Argentina che possono, per caratteristiche geografiche, impiantare vigneti franchi di piede).
Quello tecnologico-organolettico perchè i vini del passato erano prodotti con uve spesso immature con mosti diluiti dalla sovraproduzione di uva per ceppo, raramente le fermentazioni, incontrollate e piuttosto casuali, esaurivano gli zuccheri per cui si ottenevano vini con residuo zuccherino, acidità volatili alte, acidi fissi sbilanciati, poche sostanze coloranti, tannini verdi estratti dai graspi, ossidazioni importanti insomma dei vini instabili da bere molto rapidamente, talvolta per la stabilizzazione si ricorreva a pratiche per noi impensabili come la miscelazione con resine (esiste ancora oggi la retzina in Grecia), acqua di mare oppure il riscaldamento sia naturale al sole sia con bollitura, zuccheraggio e speziatura.
Oggi di quei vini rimane un’eco in prodotti di nicchia come la Malvasia Di Bosa, il Marsala, il vin Jaune del Jura (a base Savagnin), lo Jerez (Sherry), il vino di Malaga, il Porto, il Muscatel di Setubal, il Madeira, il Tokaj, la Retzina.
Tutti gli altri vini di adesso sono lontanissimi dai loro predecessori, le tecnologie e la conoscenza delle fermentazioni permettono la produzione di vini freschi, fruttati, concentrati, pronti al consumo ma anche piuttosto longevi e con profumi nitidi mai ossidati.
Il  Mais “Zea Mais” in Messico e in centro America è coltivato da 5.000 anni (come l’uva in europa) ed ha subito un continuo miglioramento (ahimè sino alla industrializzazione) dal punto di vista della selezione varietale in base agli usi  ed ai luoghi in cui veniva prodotto (dalle pendici montane, agli altopiani aridi sino alle foreste pluviali) ed è stato culturalmente e simbolicamente vicino alla coltivazione europea della vite. Da noi si stanno riscoprendo antiche varietà tipo il Mais ottofile diretto discendente delle cultivar Americane che ha caratteristiche organolettiche superiori agli ibridi moderni (ma questo è un discorso a parte ed è un terreno un po’ scivoloso che affronterò più avanti).
Tutta questa sparata primo per autocompiacermi e secondo perchè per amore dell’ossimoro ad un ottimo biscotto della (recente) tradizione si abbina molto bene un vino che è il più tecnologico e contemporaneo che ci sia: l'Asti docg o il Moscato d'Asti (la differenza sta solo nella pressione e nel grado alcolico 5 bar e 8% alcool il primo 1,5 bar e 5% alcool il secondo e un residuo zuccherino leggermente superiore). le paste di meliga legano magnificamente con la freschezza, l'effervescenza, la pacata dolcezza, la delicatezza gusto olfattiva del Moscato d'Asti.
Per un tuffo nel passato proverei a mangiare melighe e sorseggiare un Marsala Superiore oro “Vigna la Miccia” di De Bartoli  a 12/14°C

Per oggi può bastare.
buona bevuta e buona lettura
luigi