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lunedì 31 marzo 2014

Sauvignon 2004 - Camillo Donati

di Andrea Della Casa


Qualcuno dice che i frizzanti non hanno lunga vita.
Per fortuna i vignaioli d’Emilia, la terra dove nascono i frizzanti più buoni del mondo (#CampanilismoModeOn), hanno ben chiaro che così non è.
E saggiando certe bottiglie ti vien poi da pensare che forse hanno ragione loro.


Due lustri sulle spalle per questo Sauvignon, frizzante travestito da Metodo Classico.
All’apertura una folata di lievito e crosta di pane ti travolge le narici, lasciando poi spazio anche a profumi di miele, caramello, sbuffi di tostatura.
In bocca rimane coerente, bollicina da bar non eccessivi ma gusto sciampagneggiante. Una specie di Ripa di Sopravento elevato all’n-esima potenza.
Solo flebili tracce del vitigno che si esprimono come timide pungenze soverchiate da una sostanza che rende il sorso pieno, ricco, al limite dell’opulento.
Deciso il calore elargito dalla frazione alcolica che, seppur ben miscelata nell’amalgama delle componenti, lascia, a tratti, un scia finale come liquorosa.

domenica 30 marzo 2014

Open Baladin Torino

di Vittorio Rusinà


Per tutti è Dieghino, nessuno bravo come lui a spillare birre, e parliamo di 38 spine, 4 pompe e innumerevoli bottiglie, dietro il mega bancone di Open Baladin Torino, un paradiso da me lungamente sognato.
Aperto da pochi giorni, Open ha tutta l'allure di un locale internazionale, starebbe benissimo a New York, a Shangai, a Parigi e invece sta qui in piazza Valdo Fusi, dowtown di Torino.
Centinaia di persone ogni sera, dentro e fuori, tanti bicchieri e tanta convivialità. Il cibo c'è ma qui diventa accessorio, qui è il regno della birra, del bere. Ah come vorrei ci fosse un posto così per il vino.
Trovare alla spina la BeerBrugna di Loverbeer o la Perle ai Porci di Birra del Borgo non è cosa da tutti i giorni e riempe il cuore di gioia così come assaggiare le meravigliose Xyaugù nelle declinazioni Madeira, Barrel e Fumè. E il fascino indiscreto delle black? La Nigredo di Birrificio Italiano e la Bran di Montegioco, sorprendenti.
Una grazie a Teo Musso per questo "regalo" a Torino e una richiesta a gran voce "Lambic!"

Era quasi notte fonda, era giovedì 27 marzo, ero con Luigi Fracchia e Diego DeLa Cuerva il maestro delle birre di #gliamicidelbar che ci ha guidato in una folle e magica degustazione
Consigli: il bancone è la meta agognata, una volta raggiunto non mollatelo, resistete!
Open apre alle h.18.








venerdì 28 marzo 2014

Di scampagnate e ASPARAGI SELVATICI

di Rossana Brancato


Perizia ed attenzione massima alle spine dei rovi di asparagi selvatici sono tra le prime cose che s'imparano quando in primavera ci si avventura nei dirupi e nelle zone rocciose più inaccessibili a raccogliere gli intensissimi virgulti.
L’ Asparagus acutifolius è una Liliacea spontanea, il turione o germoglio apicale, si origina direttamente dal rizoma sotterraneo.
Oltre che dalle spine, il rovo si riconosce dai piccoli fiori bianchi e dalle bacche verdi, che a maturazione diventano nere.
In Sicilia la raccolta inizia già a febbraio e si protrae fino ad aprile, ma a latitudini superiori si arriva a fine maggio.

Nutraceutica

I germogli sono ricchi di amminoacidi, calcio, potassio, magnesio, fosforo, acido folico, vitamina B2, B6, C e carotenoidi.

Trascurabile l’apporto calorico, fonte di fibre, l’asparago è indicato come rimineralizzante, diuretico, per il contenuto di potassio, depurativo, in caso di astenia, nelle diete degli ipertesi e per chi soffre di bronchite.

L’acido aspartico è responsabile dell’odore caratteristico che assume l’urina, gli amminoacidi e le purine contenute incrementano la concentrazione di acido urico.
Consumare asparagi è controindicato nelle infiammazioni e nelle calcolosi renali, cistiti, nelle patologie delle vie biliari, reumatiche e se si soffre di gotta. 
Anche chi è allergico ai salicilati e al nichel deve evitare di assumere asparagi.

Acquisto, utilizzo e conservazione

Se non volete accompagnarmi a raccoglierli ;D , scegliete mazzetti turgidi e controllate che gli asparagi abbiano le punte ben chiuse.
La parte edibile più tenera è quella che si spezza piegando il germoglio.


Anche la parte più dura si può utilizzare per brodi o vellutate, cuocendo i gambi a lungo, o in pentola a pressione, frullandoli e setacciando il composto per eliminare le fibre più invadenti.
Il concentrato che se ne ricava si può congelare in cubetti, da utilizzare per impreziosire risotti, sughi, secondi di pollo o maiale.
Ideali con le uova, ma esaltano anche molluschi e crostacei.

Si conservano un paio di giorni con le estremità inferiori immerse in acqua, avendo cura di proteggere le punte dall’avvizzimento avvolgendole in pellicola per alimenti, in frigo o in un luogo fresco.
Si possono congelare, dopo averli scottati nell’apposita pentola alta e stretta che permette alle punte di cuocere a vapore, o in un tegame basso e di grande diametro di acqua salata bollente, raffreddati in acqua e ghiaccio, asciugati e riposti in contenitori monoporzione. Così si conservano due mesi.




Rossana

giovedì 27 marzo 2014

Barbera d'Alba 2011, Giovanni Canonica: rapide evoluzioni

di Riccardo Avenia



Il primo assaggio di questa Barbera d'Alba, risale ad aprile 2013. Praticamente era appena entrata in commercio. Ricordo un vino fresco, delineato, con tutti i profumi ed i sapori del vitigno nella sua parte più esuberante. Certo, l'alcool si sentiva anche allora (15° si fan dare del voi) ma del resto, dalla vendemmia 2011 mi sarei aspettato tranquillamente struttura e corpo superiori alla media. Invece era talmente brioso il frutto, che anche il calore, passava in secondo piano. Un centrifugato di freschezza, con tanta frutta acidula e dolcezza. Piacque tanto a tutti.

Marzo 2014, quasi un anno dopo.

Stappo la seconda bottiglia e noto che già nel calice il pigmento è scuro e profondo. Il naso, inizialmente difficile e lento, si apre su piccoli frutti, ora sotto sciroppo. Spezie dolci, rosmarino, un ricordo di zucchero a velo, ed una sottile parentesi animale. Il tutto sparato al naso da un calore decisamente presente.

Il sorso risulta pieno, ruvido e scorretto, tra alcool, acidità (inferiore a quella che vorrei), un tannino teso ed una generale sensazione morbido-dolce che, tutto sommato, gestisce bene il sorso, donando decise sensazioni tattili, tra materia (che predomina) e freschezza. Il finale, ancora caldo, ricorda la confettura e la liquirizia.

In conclusione, ho trovato un vino che sta maturando forse troppo repentinamente. Nel quale l'acidità non riesce a tenere il passo con l'alcool (in questa sua fase, sicuramente dominante), con profumi che stanno evolvendo in fretta, determinando una prospettiva di vita più corta rispetto a quella che avevo pensato al primo assaggio.

Con tutte le incertezze del caso (o della bottiglia), con meno di mille etichette l'anno, resta comunque un piccolo gioiellino artigianale per pochi.

mercoledì 26 marzo 2014

Paolo Fantini, cuoco architetto

di Vittorio Rusinà

photo by Luigi Fracchia
Capita che un mezzogiorno di fine inverno tu abbia voglia di fish&chips, un piatto che a Londra non fanno quasi più ma che tu, anni fa, hai mangiato in versione memorabile in un pub molto English in una traversa degli Champs Elysées a Parigi, e allora chiami l'amico Luigi che ha appena scoperto le bottiglie più buone di timorasso del mondo e lo inviti da Scannabue*.
Fa caldo e ci sediamo nel dehor, una lieve brezza annuncia l'immanente primavera, una signora importante della ristorazione romana siede ad un tavolino vicino, gli altri stanno all'interno nelle confortevoli sale del ristornate.
Arriva Paolo lo chef che ci propone un piatto di crema verde di puntarelle, uno dei pochi piatti veg° in un menù in cui trionfano la carne e il pesce in varie declinazioni e salse. Paolo è chef di sostanza, i suoi piatti sono abbondanti (sono come piacciono a lui quando va a mangiare fuori), in cucina ha un team di lavoro collaudato che prepara anche ottimi grissini (bisogna supplicare per averli perché li tengono nascosti in cassaforte, scherzo ovviamente).
Paolo è anche un cercatore di cose buone, in questo momento la sua passione sono i formaggi, sua è la fontina d'alpeggio più buona che abbia mai mangiato, notevole il gorgonzola naturale e alcune chicche di Francia.
Luigi sbicchiera alla grande e tre meravigliose bottiglie di timorasso prodotte da Carlo Daniele Ricci spariscono in un attimo, anche per il vino Paolo svela doti non comuni.
Ma il colpo da gran maestro lo chef architetto lo riserva al caffè, che prepara e serve di persona, una miscela di arabica torrefatta dai fratelli Damosso che è fra i caffè migliori serviti a Torino e che entra di diritto nella top ten di #cafferevolution.
Grande simpatia, grande semplicità, grande passione per uno dei migliori cuochi di Torino.
Se andate a trovarlo portategli una Guiness bella fresca, lui la adora.

* a pranzo da Scannabue menù cheap e possibilità di trovare posto (alla sera è meglio prenotare)
° mi piacerebbe vedere in carta più piatti veg: la crema di puntarelle era deliziosa.



martedì 25 marzo 2014

barolo 1969, massolino, serralunga d'alba


Oggi sono felice! Grazie a Rosario, il nostro speleologo enoalimentare, ho assaggiato con lui e con Gianpaolo Laiolo un Barolo 1969 di Massolino.
Tappo frantumato durante l’estrazione!
Non ho avuto tempo di preoccuparmi che il vino era nei calici.
Colore intensissimo, vivace, per nulla mattonato, cangiante.
Gianpaolo ed io siamo rimasti colpiti dalla acidità viva che traspariva anche al naso con profumi di ribes (insomma un frutto acidulo, fate voi!) e poi veniva fuori una componente terrosa e il tabacco, il caffè macinato, l’arancia sanguinella, il tamarindo.
Non cadeva mai nei profumi brodosi di umami e l’acidità teneva tutto in galleggiamento vivace.
Profumi in mutazione, delicati.
Poi siamo arrivati al momento del bicchiere col fondo e ho pensato a Niccolò.
In effetti a bicchiere fermo c’era più percezione di tostato, caffè, cioccolato amaro, terra arsa, tabacco.
In bocca si percepiva una granella materica molto intrigante che aumentava le percezioni tostate e i profumi sembravano persino più intensi.
Arieggiandosi un po’ è comunque ritornata la componente agrumata e acidulata.
Il tannino era risolto e morbido, era più l’acidità a giocarsela con grande eleganza e ciò mi è sembrato strano per un nebbiolo.
L’annata è rubricata nel sito dei Massolino come “Normale”, chissà come sono quelle “Grandi”?
Comunque un pensiero mi è venuto a riguardo dell’invecchiamento dei vini: sicuramente questo Barolo ha avuto momenti evolutivi molto antecedenti in cui era migliore di come lo abbiamo bevuto noi oggi, per cui mi chiedo che senso abbia farsi obnubliare dalla ricerca dell’”antico”, la vedo come una sfida, tutta umana, contro il tempo, una ricerca di “immortalità” ottenuta con elementi mortali, un gioco culturale più che una necessità organolettica, in cui tra l’altro si creano le barriere tra i savant e i non savant,tra i “professionisti” e gli “amatori” che tanto fanno male alla comunicazione enologica.



Vino  ottenuto dal blend del nebbiolo di Vigna Rotonda (credo sia la rinomata Vigna Rionda di adesso) e della Vigna Parafada come si faceva a Barolo sino agli anni settanta, il concetto di cru nasce in tempi più recenti, anche su stimolo di Veronelli, che sia meglio chi lo sa?
Una delle cose che mi ha colpito è il grado alcolico 12,5%vol, credo che gli enologi contemporanei lo ritengano un po’ basso per un vino da grande invecchiamento a parte questo, mi ha anche colpito che vini contemporanei di Massolino provenienti dagli stessi vigneti abbiano anche un paio di gradi alcolici in più.
Kempè


Luigi


lunedì 24 marzo 2014

FutureFood, post da leggere lontano dai pasti

di Andrea Della Casa

No, non mi riferisco a quell’intruglio misterioso che si prepara in 3 minuti con una bustina sospetta e acqua bollente.
Qualcuno forse ha già capito.
Sto parlando di coloro il cui peso rappresenta il 45% del peso di tutti gli animali della terra.
Gli insetti.



chapulines messicane
Quando un domani non sarà più sostenibile fare un allevamento di vacche, per il quale occorre tanto consumo di suolo, se vorremo mangiare proteine animali dovremmo ricorrere agli artropodi.
myrmecocystus o formica del miele
E sicuramente non moriremo di fame visto che pare che ciascuno di noi abbia a disposizione circa 200.000.000  insetti (più o meno 135kg di insetti per ogni kg di uomo).
Smettiamola di fare gli schizzinosi solo noi Europei (assieme ai nordamericani) non abbiamo questi animali presenti nella dieta, in tutti gli altri continenti sono pietanze molto apprezzate. Eppure mangiamo tonnellate di gamberetti che dal punto di vista biologico sono praticamente identici agli insetti. Anzi, in verità ci sono già locali in Inghilterra dove una birra viene accompagnata da grilli saltati in padella con le spezie anziché dalle classiche chips.

larva di punteruolo



Le specie commestibili sono circa un migliaio: il myrmecocystus sp., detta anche formica del miele, è la cosiddetta caramella degli aborigeni australiani, le chapulines (cavallette tostate e condite) sono un piatto molto comune in Messico, e pure la larva del famigerato e tanto temuto punteruolo delle palme pare essere decisamente gustosa.






E come potete vedere qui sotto hanno valori nutritivi decisamente elevati:


Le termiti ad esempio apportano una grandissima quantità di ferro, subissando ampiamente la carne di manzo.
Siamo però davvero sicuri che noi italiani assolutamente non mangiamo insetti?
Chi pensa di sì e vuole continuare a credere ciò è pregato di non proseguire la lettura.
IL CASO DEL CASU MARZU
Molti di voi, i sardi in particolare, conosceranno sicuramente questo tipico formaggio che ha una peculiarità: ha i vermi!
I pastori rimuovono volutamente la crosta indurita di modo che sulla parte più molle la piophila casei (mosca del formaggio) possa depositarvi le proprie uova. Una volta schiuse e uscite le larve, queste emettono enzimi proteolitici predigestivi trasformando il formaggio sodo in una sorta di crema con aromi e odori particolari (etticredo!!) molto apprezzata dai sardi. E viene mangiata assieme alle larve!
*

          larva di mosca vista al microscopio elettronico                                          il casu marzu                                                                     
Ma senza scomodare i pastori sardi mangiare insetti è un’azione abbastanza frequente quanto involontaria. Per esempio gli insetti delle derrate alimentari (es. il punteruolo del grano) lasciano exuvie ed escrementi in loco, non sono così educati da andare bagno per liberarsi. E questi resti saranno poi macinati assieme ai chicchi per diventare farine….Si calcola che ogni anno indirettamente (e inconsapevolmente) ognuno di noi ingerisca 500-1000 g di insetti.Quindi non ci resta altro da fare che trovare il perfetto vino da abbinare e…buon appetito!


*se siete così impavidi da voler assaggiare il mix di formaggio e larve vi raccomando di masticare bene questi insetti perché in caso contrario le larve di mosche che raggiungeranno il vostro stomaco/intestino non moriranno  e useranno quei piccoli “uncini” che vedete nell’immagine per aggrapparsi e muoversi sul substrato con il risultato di qualche spiacevole mal di pancia.

domenica 23 marzo 2014

Ristoro 28 Marzo, il posto degli gnocchi a Torino

di Vittorio Rusinà


Ai margini settentrionali della Crocetta a Torino c'è un piccolo delizioso ristorante che si chiama Ristoro 28 Marzo ma che è conosciuto come "il posto degli gnocchi"*. Spinto da questa fama e da una certa fame, entro deciso un giorno caldo di questo strano fine inverno, mi siedo ad un tavolino sul fondo del locale, di fianco ad una lunga vetrata che da su un piccolo cortile di piante fiorite e lenzuoli bianchi stesi, intorno una luce quasi magica.
Ordino gnocchi al pomodoro, sul menù c'è scritto al ragù di anatra, ma chiedo una piccola modifica veg, prontamente accettata. Gli gnocchi sono proprio buoni, fatti in casa e di patate vere, il sugo rosso perfetto, da scarpetta che prontamente eseguo. Pane e grissini buoni. Assaggio gli gnocchi anche in versione "in bianco"° conditi solo con burro e salvia che come dice sempre l'amica Bianca aka @tartetatin è il modo migliore per capire se gli gnocchi sono buoni, e sì sono proprio buoni.
A seguire con grande gioia ci sono i carciofi proposti in tutte le salse: io provo quelli spadellati e quelli fritti, giusto una leggera tempura, da applausi. La giovane ragazza del servizio, assai premurosa, mi avverte che prossimamente ci saranno gli asparagi, gioia per chi come me trova difficoltà a saziare il suo appetito veg quando va fuori a mangiare (lo ripeto: c'è troppa carne nei menù torinesi e troppi hamburger).
Non c'è spazio per i dolci che voci fidate dicono di buona fattura.
I vini? Ho bevuto solo acqua, davvero :)

*devo alla dott.sa Cristina Caroni, gran gourmet torinese, la dritta sul posto degli gnocchi
° anche il giovane chef Alessandro Mecca consiglia la verifica in bianco degli gnocchi, conditi con olio evo e parmigiano

Ristoro 28 Marzo, via Pigafetta 56/D, Torino tel.0115086066
chiuso sabato a pranzo e la domenica

venerdì 21 marzo 2014

La brezza e le tonalità vibranti del Menfishire: intervista a Marilena Barbera


di Rossana Brancato




Carisma e straordinarie doti comunicative fanno di Marilena Barbera l’ambasciatrice del Menfishire nel mondo, ovunque arrivino il suoi vini si sprigionano la brezza e le tonalità vibranti che dipingono l’identità di un territorio vocato alla viticoltura.
Marilena vive e lavora a Menfi, coltivando i vigneti che prima suo nonno e poi suo padre hanno impiantato in Contrada Belicello, a pochi passi dal mare. Una piccola cantina a conduzione familiare, dove rispetto per il terroir e sperimentazione su tecniche tradizionali di viticoltura e vinificazione si pongono l’obiettivo di rappresentare l’anima più intensa della Sicilia.
Interpreta la storia millenaria, ai vigneti autoctoni risalenti alla colonizzazione fenicia e greca, affianca le cultivar internazionali che l’evoluzione genetica e l’adattamento ambientale hanno naturalizzato, in armonica integrazione.
Un particolare ecosistema Menfi, durante la vendemmia e le fermentazioni risente di drastiche escursioni termiche, passando dai 50 dello zenit ai 20°C notturni.

Con entusiasmo, grande generosità e rendendomi felice, Marilena mi ha regalato l’opportunità di intervistarla, consiglio un calice di Dietro le Case per tratteggiare la lettura, per amplificare e cogliere ogni emozione…

Il tuo metodo di vinificazione è codificato di personalità, metodo analitico, know how tramandato attraverso le generazioni, o c’è anche una percentuale di spregiudicata interpretazione dei mutamenti colti tra i vigneti?

Non ho una formazione tecnica, ho studiato diritto internazionale e poi diritto tributario. In azienda mi sono occupata prima di amministrazione e subito dopo di vendite nei mercati esteri, quindi il mio avvicinamento al vino è avvenuto in maniera graduale, iniziando dalle basi. Ho fatto l’operaio di vendemmia, il cantiniere e il magazziniere, ho iniziato letteralmente lavando i pavimenti. Ho imparato moltissimo dai consulenti che hanno seguito la mia azienda per anni, poi è arrivato il momento di camminare con le mie gambe. Per questo nel mio lavoro c’è sicuramente una parte di know how, ma la maggior parte delle cose che faccio dipende da sensibilità e istinto, e certamente dai moltissimi assaggi in giro per il mondo e dal confronto con i produttori che ammiro e che sono per me continua fonte di ispirazione.

Il mercato estero è focalizzato sugli standard canonici, o ricerca l’anima del vino fotografata annata per annata, attraverso metodiche enologiche rispettose dell’identità?

Credo non esista “un” mercato estero, ma una molteplicità di mercati dove ciascuno possa trovare la propria collocazione e molte soddisfazioni, sia personali che commerciali. L’importante, a mio avviso, è l’estrema coerenza tra quello che si fa e quello che si comunica, tra gli obiettivi aziendali e il prodotto che viene realizzato. Altrimenti si rischiano autogol clamorosi.




L’utilizzo dei lieviti indigeni, il coraggio di assecondare i tempi di macerazione, la scommessa di seguirne l’evoluzione a volte anarchica, le difficoltà create dalle torride temperature isolane…
Soddisfazioni proporzionali all’impegno?

Più che proporzionali. Nella mia esperienza ho potuto constatare empiricamente che molte delle affermazioni più in voga sui lieviti indigeni sono favolette raccontate dall’industria vinicola e dalle multinazionali della chimica: ad esempio che sono incontrollabili, che fermentano “sporco”, che non conducono la fermentazione fino alla fine. Gli unici arresti di fermentazione, per dirne una, li ho subiti usando lieviti selezionati, molti anni fa.
Credo che non esista una sola strada, e nemmeno che ci siano strade giuste o sbagliate in assoluto, ma che ciascuno debba trovare la propria, sperimentando e rischiando di persona. Le soddisfazioni che arrivano così sono straordinarie.

Possibile aggiungere solfiti solo in fase di imbottigliamento?

E’ una delle strade: un esperimento la scorsa vendemmia, che non so ancora dove mi porterà, ma che fino ad ora è molto positivo. Io non ho ricette, non ho verità assolute: è importante capire, osservare, assaggiare continuamente, ed essere disposti a cambiare idea.

Le strategie di web marketing, pensi ti abbiano aiutata a crescere professionalmente?

Sono convinta che né io come vignaiola né la mia azienda come è oggi esisteremmo senza i social networks e il web in generale. Uno strumento essenziale di confronto e comunicazione, che ti permette di relazionarti con altri produttori, di interagire con i tuoi clienti, di fornire supporto all’attività di vendita e di risolvere i problemi in tempo reale. Questo comporta un profondo ripensamento delle strategie aziendali tradizionali, che non funzionano affatto nel mondo digitale.

Il libro che vorresti avere il tempo di rileggere, sulla spiaggia di Vignammare, a vendemmia conclusa, respirando l’unicum tra mare e vigneti, legati indissolubilmente dal sale?

Tutto Baudelaire, dalla prima parola all’ultima.




Nerello Mascalese e Nero d’Avola ingentiliti dal “Microcosmo” di Menfi, quali percezioni sensoriali li distinguono?

I miei vini sono salmastri, freschi, molto distanti dall’idea corrente del vino siciliano, immaginato spesso come surmaturo, caldo, pastoso. Lavoro con grande attenzione in vigna, e spesso vendemmiamo con diversi giorni di anticipo proprio per salvaguardare l’acidità naturale e gli aromi primari dell’uva. Scoprire che anche sotto i 12 gradi alcolici si possono raggiungere splendidi risultati di pienezza aromatica senza appesantire il vino è stata per me una delle più belle soddisfazioni degli ultimi anni.

Se dovessi partire per un viaggio, portandoti dietro un innesto da far attecchire, quale sceglieresti e che storia avrebbe da raccontare?

Mi porterei il Perricone, una varietà antica e affascinante che è, purtroppo, quasi scomparsa. Negli anni 50 e 60 era praticamente l’unica varietà a bacca rossa presente nella Sicilia Occidentale: il Nero d’Avola, originario della parte orientale dell’isola, iniziò ad essere introdotto qui solo successivamente, sull’onda del successo riscontrato nei mercati internazionali, dove se ne apprezzava il corpo pieno e strutturato e la sua attitudine ad essere assemblato con vitigni internazionali. Fu così che il Perricone iniziò ad essere espiantato, a vantaggio di altri vitigni, passando dagli oltre 20.000 ettari originari ai 334 di oggi.
Un vero disastro, in grado di minare – se non si invertirà questo processo - la stessa sopravvivenza di questa splendida varietà. Per questo mi impegno così tanto nella comunicazione e promozione del Perricone, perché rappresenta la storia e il valore della cultura vinicola tradizionale di questa parte della Sicilia. Un vitigno spesso piantato in vigneti misti, insieme ad altre varietà autoctone, che io ad esempio ho adattato a Belicello in convivenza con il Nerello Mascalese.





Il tuo piatto della memoria, i sapori e gli aromi che desideri quando atterri in Sicilia.

Il Timballo di Anelletti, proprio in abbinamento al Perricone: le spezie, usate in maniera molto generosa nel ragout di carne, ne esaltano la particolare aromaticità.

Al risveglio, in estate, facendo colazione guardando il mare, pensi ai campionamenti in vigna, pianifichi, focalizzi nuove sfide o ti perdi semplicemente tra il verde, il blu e la salsedine?

Se sei un vignaiolo non pensi ad altro, credo. Ma per me sono pensieri stimolanti ed appaganti, ancor meglio se elaborati in terrazza al tramonto, con un calice di vino in mano.

Sorpresa dalla freschezza conturbante e acidula di Albamarina, ho osato utilizzarla per sfumare dei calamaretti spillo, e non credo potrò più farne a meno.
Personalità che si presta agli azzardi?

Credo proprio di si: perché Albamarina è un passito molto delicato, non eccessivamente dolce, molto versatile in cucina e adatto ad accompagnarsi con formaggi e paté, carni e pesci affumicati, mandorle abbrustolite.





Un prodotto del territorio di Menfi da valorizzare e promuovere.

Facciamo due allora: la Vastedda del Belice, unico formaggio siciliano di pecora a pasta filata, e il carciofo spinoso di Menfi, la nostra “spinella”, recentemente diventata presidio slow food.

Il Menfishire, le tue vigne, le colline che declinano fino al mare… che sceneggiatura scriveresti per un film?

Un giallo solare, senza le note noir dei gialli francesi, oppure un racconto di viaggio, una cosa tipo Basilicata Coast to Coast. Però lo facciamo interpretare da Javier Bardem!


Viticultori in Menfi
Contrada Torrenova S.P. 79
92013 Menfi (Agrigento) Italia
Tel. +39.0925.570442 
Fax +39.0925.78248

Come acquistare

Ringrazio Marilena Barbera anche per le foto gentilmente concesse.


Rossana

giovedì 20 marzo 2014

“Il veleno nel piatto” di Marie Monique Robin. Non una recensione ma un ragionamento sul nostro futuro.

Quanto durerà l’umanità a questi livelli di intossicazione cronica?
Leggendo il libro di M.M. Robin mi sono chiesto perché, ad un certo punto della storia umana, si è deciso che per far crescere piante e animali si dovesse fare un uso abbondante di sostanze chimiche di sintesi spesso già palesemente tossiche prima del loro impiego in agricoltura, oppure nate proprio per essere armi chimiche.
Proprio mi sfugge la logica del ragionamento che sottostà a questo modello, come è possibile, coscientemente, irrorare di benzene, atrazina, ftalati, ddt, cadmio, agente arancio, neonicotinoidi i campi. 
Perchè uccidere ogni forma di vita, al fine di creare vita (i vegetali) e con essa sostentare vita (noi umani e gli animali da carne)! 
E’ un ossimoro con risvolti tragici.
E poi giù a parlare di quanto ddt* al dì possiamo mangiare e parte il balletto delle opinioni “scientifiche” 30mg/kgpesocorporeo, no! 10mg/kg, no! 100mg/kg, no! 5mg/kg (quantità inventate dal redattore, sottile ironia!).

Il problema diventa quanto pesticida possiamo mangiare noi e i nostri figli al giorno (naturalmente non si fanno studi per vedere che effetti hanno le sommatorie di principi attivi) e non quello molto più importante che verte sul fatto che con il fior fiore di “scienziati” che abbiamo potremmo affrontare l’agricoltura con meno piglio da guerra chimica, con meno riduzionismo, con un approccio positivo, vitale invece che mortifero e distruttivo.

L’agricoltura non è da considerarsi una guerra (vi ricordo che è parere condiviso degli esperti che solamente lo 0,3% del prodotto chimico va effettivamente a contatto col bersaglio sia esso insetto, fungo; il 97% si disperde nell’ambiente) perché se no, ne usciamo sicuramente perdenti.
Storicamente, si fa nascere l’agrochimica ad alta dipendenza energetica (senza il grande impiego di energia non rinnovabile non si potrebbero produrre le quantità impressionanti di pesticidi e fertilizzanti oggi utilizzati) nei primi anni del novecento in concomitanza con lo sviluppo dell’industria chimica legata alla guerra ed è innegabile che questo approccio è di concezione militare, il parassita è visto come un invasore da distruggere.

Un’agricoltura a basso impatto energetico che integri i parassiti nel suo processo, che lavori sulla vitalità invece che sulla mortalità! 
E’ questo quello che ci vuole.
Oggi come oggi la “Green Revolution” serve solamente  a mantenere alti i guadagni delle multinazionali dell’agrochimica, le quali cercano con ossessione e derive criminali solamente gli utili e si guardano bene dal verificare con la dovuta sicurezza, la presunta innocuità dei prodotti chimici che sono di volta in volta messi in vendita, la storia degli ultimi due secoli è lastricata di disastri ecologici (ddt, diossina, mercurio, distilbene, atrazina). 
Perché immettere nel mercato prodotti poco e/o male testati? 
Solo per accrescere i guadagni? 
Perché mantenere sul mercato questi stessi prodotti con escamotage anche quando sono stati dichiarati pericolosi? 
Perché esternalizzare i danni e i costi (sanitari e ecologici) delle proprie condotte criminali con la collusione dei governi, delle istituzioni preposte al controllo?
Oggi i nostri corpi sono colonizzati da alcune decine di molecole, alcune come i ftalati, il Bpa, sono molto stabili e altamente liposolubili e ci intossicano cronicamente con cessioni multiple di principi attivi la cui interazione nel nostro corpo è completamente sconosciuta.

Ormai l’”effetto cocktail” e l’azione endocrina dei “perturbatori endocrini” sono la nuova frontiera della ricerca tossicologica che però, suo malgrado è sempre in ritardo sulla commercializzazione delle nuove molecole il cui iter per poter essere utilizzate è sempre troppo semplice e non verifica mai con sufficiente sicurezza l’impatto sanitario dei prodotti.
Siamo ormai una popolazione di cavie sottoposte a intossicazioni continue e deliberate senza che ne abbiamo un qualsivoglia giovamento.

Luigi 

“Il veleno nel piatto” di Marie Monique Robin, Feltrinelli, Milano, 2012.

*il ddt ora è illegale (ma non da tutte le parti del mondo se ne è cessato l’uso), aveva anche lui probabilmente una Dose Giornaliera Ammessa (ossia una dose la cui assunzione non dava alcun sintomo di tossicità), dopo un po’ si è scoperto che il ddt si accumulava nel grasso corporeo e la molecola è praticamente eterna, per cui nel grasso dei predatori e degli uomini, le concentrazioni erano (sono?) altissime e stabili e danno luogo a gravi forme di intossicamento cronico (pochissimo studiate dai tossicologi).
Oggi altre molecole (il cui utilizzo è permesso dalle normative) hanno un po’ le caratteristiche del ddt, anzi sono ancora più subdole perché non sono tossiche come un veleno, per loro è assurdo parlare di Dga in quanto interagiscono col sistema endocrino e lo fanno a dosaggi bassissimi (alcune parti per milione per kg di peso) e sono molto pericolose soprattutto nelle fasi di crescita embrionale e arrecano danni soprattutto alle generazioni future con modalità spietate quanto poco conosciute ancora adesso: Bisfenolo a, Alacloro, Atrazina (illegale in EU, ancora in uso in molte parti del mondo) e altre ancora, ahimè!