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venerdì 30 maggio 2014

Habanero, la cucina messicana a Torino

di Vittorio Rusinà


Sono seduto ad un tavolo del ristorante messicano Habanero, in Vanchiglia a Torino e mentre sorseggio un margarita delizioso scorgo una immagine che non conosco ma che magicamente mi attrae.
E' Blanca, la giovane cameriera, a svelarmi il mistero "E' La Catrina, la signora del Dia de Muertos, figura popolarissima in Messico, questa l'ho disegnata io con dei gessetti colorati". In Blanca c'è la simpatia, il calore e la creatività che ritrovo nei piatti che mi vengono serviti.
Mi arrischio a prendere ottimi Jalapeno Rellenos, peperoncini piccanti ripieni di formaggio e una deliziosa Sopa Veracruzana, zuppa tipica di Veracruz, città che si affaccia sul Golfo del Mexico, con pomodori, avocado, zucchini, gamberetti e coriandolo fresco. Ah il coriandolo, meravigliosa erba, che mi riporta a certe zuppe marocchine assaggiate in gioventù.
Oltre alla margarita che servono in caraffa (aiuto!) ci sono birre e vini messicani, perché il Messico è anche terra di vigne.

Ristorante Habanero
Via Buniva 4, Torino, 011.19702328 
thanks to Luca Ferrua di La Stampa per la segnalazione

mercoledì 28 maggio 2014

PUNCH-DRUNK LOVE

di Eugenio Bucci

Punch-Drunk Love (Ubriaco d'amore) è un film del 2002 diretto da Paul Thomas Anderson (quello che prima aveva fatto Boogie Nights e poi fece Il Petroliere e tutti e due. all'incirca, parlano di trivellazioni). Ha vinto a Cannes il premio per la miglior regia ed anche a me piace un sacco, ma questo non c'entra. La trama è poppeggiante e succosa e tanto metaforica come solo (?) questa nouvelle vague di giovani americani sa fare. In breve succede che Adam Sandler (si, lui, l'equivalente americano di Christian De Sica che fa un sacco di vanzinate e, ogni tanto, qualcosa d'autore e spesso non si nota la differenza) ha una ditta di scopetti da cesso (metafora) ed è molto represso perché è cresciuto con 7 sorelle (metafora) e ha delle crisi di incazzo in cui, non so, spacca uno specchio in bagno quando nessuno lo vede. Poi incontra una tipa che è Emily Watson (si, lei, quella de Le Onde Del Destino di Von Trier con gli occhioni sempre spalancati e lucciconi tipo cerbiatto sulla statale) e si innamora ed è pure ricambiato. Nel frattempo Sandler, che continua coi suoi comportamenti, come dire, bipolari (nel film e nella carriera), sta comprando una marea, davvero una marea di budini XY (metafora) perché ha scoperto una falla nel regolamento di un concorso e, insomma, punta ad ottenere una serie infinita di miglia aeree e viaggiare gratis fino alla fine dei suoi giorni. Nel frattempo sempre Sandler ha combinato un casino prima di conoscere la Watson, cioè, una sera ha telefonato ad una hot line e ora è tampinato e ricattato da Philip Seymour Hoffman (si, quello bravo che poi fece The Master che è sempre di Paul Thomas Anderson e parla sempre di trivellazioni ma a livello più cerebrale e/o spirituale) che è il gestore della hot line e ha anche un negozio di materassi (metafora). Però Sandler ha ora tutto un atteggiamento diverso derivato dalla forza dell'ammmore per la Watson ed è meno represso e ancora incazzoso però nel modo giusto, così va da Seymour Hoffman e sistema la faccenda e poi torna a limonare con la Watson e ad accumulare miglia per il loro viaggio infinito (metafora).


Il senso di un'etichetta.
Due uomini che tracannano vino. Io sono quello smilzo.
Entro breve colpirò quello panzuto per fregarmi la sua bottiglia


Ed è con la forza dell'ammmore che scrivo oggi ed è una forza potente e primigenia. Che può stordire e cartavetrarti l'intelletto. Che per fortuna (?) ti colpisce poche volte nella vita. Epperò mentre ti asfalta, ti esalta. Ti rende più lucido e centrato. Focused. Elimina le sovrastrutture per indirizzarti verso l'essenziale. Ti denuda (se ti va bene). E così che mi sono sentito al primo incontro con Litrozzo Bianco. L'annata era la 2009. I vin de soif erano ancora una nebulosa, un concetto timido che ogni tanto saltava fuori ma mica chiaro cosa fosse. Cioè, era chiaro ma mancavano ancora gli esempi, mancava una pratica di assaggi che solo in questi anni si sta completando. Ed invece ci ero capitato esattamente al centro. Ero nel punto esatto in cui vin de soif diventava vino da sete. E così scrissi una lettera d'amore (Nota 1). E li andai a trovare a Gradoli. Gian Marco Antonuzi e Clémentine Bouveron. E passeggiai per le loro vigne e camminai tra le muffe e i tufi della loro cantina e assaggiai ogni contenitore e mangiai con loro e ascoltai un torrente di racconti e idee e fatiche e sticazzi ogni 3X2. E l'innamoramento, la cotta adolescenziale divenne un amore solido e maturo. 
Ma ricapitoliamo. Era il 2008 e Vini Veri era in epoca pre-Cerea. Si andava in un villone vicino Verona. Come si dice. La splendida cornice di Villa Boschi a Isola della Scala. E accanto alla splendida cornice etc etc era un tendone, una tensostruttura che accoglieva una sfilata di produttori rimasti fuori dai saloni e salette settecentesche. Il tendone era ampio e arieggiato e, in caso di pioggia e/o vento, bagnato e freddo. Tutto molto Festa Dell'Unità. A metà pomeriggio inizia quello che definivo il Tirare A Caso. Andare dai produttori che non conoscevo, magari di zone meno famose. Era eccitante. L'esploratore in lande sconosciute. Certo, si beccavano spesso delle sòle. Ma la vita è una sola. Vabbè.
Lessi Lazio. Lessi Le Coste di Gradoli. Bevvi un paio di vini. Sticazzi. Quello lo diceva spesso Antonuzi. E quello lo pensai anch'io. Sticazzi, sono buoni. E poi bevvi un coup de coeur. Un 4 stelle Mereghetti. Carbò 2007. Un Greghetto in macerazione carbonica. Che costruiva un ponte immaginario col Rodano, quello sensuale e tuttotondo dei Gramenon e Dard & Ribo. E ancora non c'erano i Litrozzi. Non c'erano o non li aveva portati, non ricordo.
Le Coste era diventata un nuovo must-have. In ogni fiera/occasione dovevo passare a trovarli. Ma, come dicevo, quella era ancora un'infatuazione. L'amore con la A scoppiò col Litrozzo Bianco 2009.
Da allora ogni anno scatta la corsa all'accaparramento. Gli altri loro vini possono essere buoni, discreti, scorbutici, espansivi. Ma Litrozzo è il vino di Gian Marco e Clementine. Quello che li rappresenta, quello che preclude le masturbazioni mentali (in antonuziano, le seghe) e punta diretto all'ipotalamo, all'homo brutus che è in noi e vuole solo bere e godere.
E Litrozzo Bianco che nell'annata 2013 si fa, come sempre, bere e godere. Ma è (ovviamente) diverso. Vediamo come.
Intanto ecco la descrizione dell'annata nella loro puntuale newsletter:

 "...un’annata, 2013, pronta da subito. Difficile, molto piovosa e fredda nei mesi di aprile e inizio maggio, nonostante una piccola perdita di raccolto, si è rivelata per noi un’annata eccezionale. Tardiva e lenta a maturare, il 2013 ha dato uve molto equilibrate, mature al punto giusto, senza esagerazioni. Le fermentazioni si sono svolte in modo impeccabile, i vini sono freschi e fragranti con gradazioni alcoliche come ci piacciono."

E come presentano il vino:

"Il Litrozzo bianco è fatto con il procanico, insieme ad una piccola percentuale di diverse uve locali, da sempre mischiate nei vigneti tradizionali. Quest’anno abbiamo lasciato per qualche giorno insieme al mosto una piccola percentuale di uva diraspata. Il colore è più dorato ma la scorrevolezza e la beva sono quelle di sempre."

Ci sono un paio di cose da annotare. Uve molto equilibrate,... senza esagerazioni. E Uva diraspata. E molto di queste note si ritrova nel bicchiere. Perché LB 2013 è un vino che vive di un sottile equilibrio perdendo in parte quell'esplosività aromatica di altre annate ed esaltando una componente verde spiccata. Gli odori, che rimbalzavano tra le dolcezze da pera matura e il floreale, tra una trama finemente tannica e terrea, qui si appuntiscono e rimandano a certi trebbiani new-age, a quel verde rasposo e linfatico. Epperò nel contatto con l'aria, nello scambio virtuoso (direbbe qualcuno) con l'ossigeno sentiamo piccoli sommovimenti ed aperture, col passare dei minuti e delle ore (lode a me, con incredibile sforzo di volontà ne ho pure lasciato un po' da assaggiare il giorno dopo) si intra-vede e intra-sente una evoluzione, un andare verso una speziatura in filigrana a scalfire quella monodirezionalità iniziale. Una promessa, una suggestione, un riverbero.
Quindi. Quindi un LB più dritto, meno ampio ma sempre campione di beva. Beva costruita su un equilibrio più teso, dove l'acidità allunga e rinfresca. Si perde qualcosa rispetto ai 2009 o 2010, si perde quel plus di semplicità miracolosamente legata alla complessità. 
LB 2013 è un'edizione semplificata ma non semplicistica. Diretto e sfacciato, primario e poche-seghe. E' e rimane un vino la cui etichetta pare un Istruzioni Per l'Uso: da bere a gargarozzo attaccati alla bottiglia. E qui, ora, nella primavera 2014 come nelle primavere precedenti, finalmente sono seduto e lo guardo negli occhi e so che viaggeremo ancora tanto insieme e non ci lasceremo mai. Sono ancora ubriaco d'amore. 








Nota 1: “Vino torbido e coloratissimo, è frutto di un progetto quasi di preservazione del territorio. Gianmarco Antonuzi prende le uve di vecchi vigneti coltivate dai contadini della zona (vigneti nei quali non c’è alcun intervento ma che vengono lasciati produrre naturalmente in una sorta di auto-controllo naturale dato solo dall’età della vigna) e le vinifica. E’ un vino anti-intellettuale, per dirla con le sue parole, un dialogo diretto con la storia del suo territorio e con quelle viti che, grazie all’età e solo a quella, sono arrivate a produrre in equilibrio. Un progetto che riporta all’idea di vino contadino dove questo sta a significare bevibilità quotidiana e digeribilità (ancora) e un rapporto con la terra. Un’idea per la quale vale la pena di spendere la parola veronelliana. E tutto questo non basterebbe ancora se, in effetti, il vino non fosse così buono. Il concetto olfattivo è spremuta d’uva: sensazioni dolci, buccia di pera, fiori d’acacia, quello che volete, tutto disteso ma non ruffiano, ruvido il giusto, e con naturalezza porto al naso. La bocca è tonda, un cerchio perfetto d’equilibrio acido-tannico-dolce. Consistenza non spaventosa ma, davvero, qui non importa. Qui si torna ai primordi del bere, quando il bere era nutrimento e il nutrimento era piacere puro, sano e quotidiano. Si, quotidiano. Allora datemi 100, 1000 Litrozzi e lasciatemi godere di quello che la terra in sinergia con l’uomo può dare. Rispetto”.

martedì 27 maggio 2014

La superficie liscia delle cose. In realtà la vita è nelle corrugazioni, negli anfratti

foto di Luca Garberoglio


Questo è la continuazione di un altro post (gli esperti del web dicono che sia inutile mettere il link  tanto sono pochissimi quelli che lo usano, gli altri se ne battono la ciolla e continuano a leggere disinteressandosene).
In realtà i due post sono legati dalle mie elucubrazioni sulla casualità e sul senso che eventi slegati e incontrollati creano quando convergono su di me che mi trovo in concordanza di tempo e luogo.

Tento un piccolo riassunto della puntata precedente:
1) Bevo Terre Silvate 2012 di Corrado Dottori e mi piace
          a) il vino è un macerato, non lo sapevo! e si infila di forza nella preparazione di #macerati1
             b) mi viene servito in due versioni: da bottiglia scolma e aperta da un po’ e da bottiglia nuova. Ed è diversissimo e questo mi ricollega a due post sequenziali uno di Niccolò e l’altro mio.
2) ritrovo Corrado Dottori nel film "Resistenza Naturale" di Nossiter alla cui proiezione partecipa Stefano Bellotti e assaggio il suo Nibiò 2006.

Da qui parte la narrazione odierna.
Stefano Bellotti è sul proscenio e arringa la sala, i suoi toni e le sue parole sono sempre un po’ in discordanza con l’immagine che si ha di lui, usa sempre parole e concetti catastrofisti e militaristi come il generale di una armata. Per cui spesso lo ascolto e mi sdoppio e non riesco a sentire ciò che dice come nelle vecchie televisioni di un tempo quando l’inquadratura sfarfallava sullo schermo e l’audio sembrava arrivare da un altro mondo in totale fuori sincrono con le immagini.

Poco importa se non riesco a concentrarmi ho in mano un Filagnotti di Gavi 2011 e, malgrado Stefano dica che è giovane, io lo trovo fotonico, incredibilmente fresco e beverino.
Vedo il film che non mi fa impazzire, è affetto, forse, da un eccesso di documentarismo e da una “sceneggiatura” che per avere i tempi filmici affronta i temi con un eccesso di semplificazioni per un pubblico "scafato" ma complicato per i neofiti, il discorso sul vino si intreccia anche con la salvaguardia e il restauro di vecchie pellicole ad opera della Cineteca di Bologna, comunque del film e del rapporto fra vino e cinematografia ne parla meglio di me Giulia Graglia.http://senzatrucco.wordpress.com/2014/05/23/dopo-lanteprima-di-resistenza-naturale/
A fine proiezione servono in assaggio il Nibiò 2006 (vino di cui avevo parlato il medesimo giorno con un amico) che un annetto fa ad una degustazione non mi era piaciuto per niente, era chiuso, puzzoso, scontroso al limite della bevibilità.

Invece il 21 maggio 2014 (che fosse un giorno di fiori, frutti o foglie?) nota1 era diventato farfalla nata dal bruco di un anno prima.
Profumi terrosi e fruttosi, cupi ma nitidi, tannini setosi e acidità viva, mineralità di talco, un vino intenso e complesso con derive glu glu!
Me ne sono fatto servire due o tre calici, nel frattempo sentivo parlare di vitalità microbica e di biodinamica, di impegno sociale, di scelte etiche, di atti agricoli…e per lunghi minuti mi sono sentito far parte di chi sarà sconfitto dall’inerzia del mondo.

E me ne sono andato, solo, saltando da un nodo di senso all’altro, facendo attenzione a non rompere la rete che mi sosteneva.
Kempè

Luigi

poscritto
il Nibiò è a base dolcetto


Nota1
Secondo i biodinamici le degustazioni andrebbero fatte solo nei giorni di fiori, frutti e di foglie, le indicazioni le trovate sul calendario di Maria Thun o altri.



lunedì 26 maggio 2014

Terre Silvate 2012, Marche Bianco Igt, La Distesa (I° parte)


Come ho detto spesso, il tempo e la fatalità creano, nell’apparente intreccio casuale, dei grumi di senso intorno ad eventi ai quali diamo un significato più profondo di una semplice casualità.
Mi è capitato di aspettare al ristorante delle persone, decido di regalarmi un calice di vino in attesa dei ritardatari.
C’è in mescita il Terre Silvate 2012 di La Distesa, perfetto!
Io adoro il verdicchio e sono attirato dal lavoro e dal pensiero di Corrado Dottori (anche se devo ammettere di non aver mai letto il suo libro).
Assaggio e sento che è un macerato, forse una breve macerazione ma c’è il pizzicore linfatico della buccia, infusi e fienagione.

Quella sera, inaspettatamente, il caso mi ha portato ad assaggiare un altro macerato, in un momento in cui il manipolo anarchico de gli amici del bar sta lavorando duramente a #macerati1 che è in programmazione per settembre.
Mi piace il Terre Silvate, addirittura me lo servono in due “versioni”, la prima più densa, intensa, scalpitante arriva da una bottiglia aperta, la seconda quando, arrivati gli amici, decidiamo di prenderne una bottiglia per innaffiare la cena.
La seconda, dicevo, era più affilata, eterea(nota1), quasi in sordina con accenni più citrici, di clorofilla, di sfalcio erboso fresco sicuramente meno intensa al naso ma comunque molto gradevole.
Le cause di questa diversità?
Bah!

1) bottiglie diverse? E’ possibile, in produzioni così piccole, che imbottigliando si stratifichi il vino in vasca e non sia tutto uguale.
2) ossigenazione forzata causata dalla permanenza in bottiglia scolmata. Io opterei per questa ipotesi, vista anche la leggera ossidazione delle componenti del colore, il vino si era scurito assumendo toni più mielosi e una consistenza più untuosa.

Se la differenza fosse da ricercare nell’ossigenazione allora questo assaggio si unirebbe ai due post, seconda casualità intrisa di senso, precedenti, quello di Niccolò ed il mio in cui abbiamo parlato di questo effetto “positivo” dell’ossigeno su vini “vivi e macerati” quasi che la concentrazione primordiale avesse bisogno dell’espansione post apertura per far prendere la sua dimensione finale al vino. Equilibri da ristabilire che la bottiglia in ambiente riducente, forse, non riesce a dare.

Pochi giorni dopo sono andato al cinema alla prima di “Resistenza Naturale” di Jonathan Nossiter in cui Corrado Dottori è, mia insaputa, un attore principale, ditemi voi se questo non è un altro, il terzo, segno del destino!
La sera della proiezione c’era in sala anche Stefano Bellotti che ci ha fatto assaggiare il Nibiò 2006, vino che non mi piacque un anno fa e…
Alla prossima puntata.
Nel frattempo una rete di eventi casuali si intreccia e la sequenza dei nodi, parrebbe essere la mia vita, del tutto casuale.
Kempè


Luigi

giovedì 22 maggio 2014

La degustazione lenta

di Niccolò Desenzani




Ci concentriamo per lo più nel descrivere le sensazioni percettive che ci danno i vini quando li stiamo bevendo. Cerchiamo di quantificare la qualità, di incasellare il risultato in una tipologia, di stabilire il livello di sviluppo, la definizione aromatica, l’armonia, e persino di predire il futuro di un sorso che per lo più è ineffabile e momentaneo e caduco. Se non avessimo aperto la bottiglia cosa sarebbe stato? Se l’avessimo aperta tra una settimana, un mese, un anno?

Con un’analogia che mi è cara e di cui abuso, la degustazione si riduce spesso a una misurazione di uno stato di una materia complessa e vitale che è in continuo movimento.


C’è poi una degustazione lenta, che può durare nella memoria anche anni. A me è capitato. Assaggi che al momento sono semplicemente piaciuti, come tanti, e che invece hanno iniziato un paziente lavoro di tessitura fra i neuroni, conquistando un po’ alla volta numerose zone del cervello, quelle che conservano memoria delle sensazioni complesse, così come quelle in cui lavora l’archiviazione culturale e poi quelle del ricordo emozionale.


Mi è successo con i vini di Giuseppe Ratti, che ho dovuto attendere più di un anno dal primo assaggio e che poi ho ricercato accanitamente, perché il mio cervello mi spingeva a farlo con urgenza.

A volte questa degustazione lenta lavora sul fronte delle categorie plasmando nuove stanze, nuovi cassetti in cui inaspettatamente si ritrovano vini all’apparenza lontani.

Mi è successo di recente dopo aver bevuto un inatteso bicchiere di rosato Sant'Isidoro 2010 di Maria Pia Castelli e qualche giorno dopo il Sialis Grigio 2009 di Franco Terpin. Li ho ritrovati qualche tempo dopo che si davano la mano in un appuntamento di beva rosso-ambrata, eleganze arcaiche.

Verso un’estate adulta di rosantico struggente*.



credits to Vinoir
* Mi rendo conto solo dopo che questo post ha più di un'affinità con quello di Luigi.

mercoledì 21 maggio 2014

L'ALBICOCCA

di Rossana Brancato


Arrossisce baciata dal sole, seducentemente vellutata, armonica nel gusto, sospeso tra il dolce e l’acidulo, avvolgente e succosa, non bisogna però aver fretta di raccoglierla, solo la maturazione sull’albero ne permette lo sviluppo dei caratteri organolettici.
L’albicocca è una drupa, dall’epicarpo, la buccia, sottile e delicato, il mesocarpo polposo ed endocarpo legnoso che cela il seme, l’armellina.
Come la mandorla amara, la ciliegia, la susina e la pesca, il seme contiene piccole percentuali di acido cianidrico, molto apprezzato per l’eleganza aromatica, si utilizza per estratti, liquori e in pasticceria, la dose letale di glicosidi come l’amigdalina, è dell’ordine dei centesimi di grammo. Preferibile evitare di assumere i semi, anche di mela e pera.



Il Prunus Armeniaca si diffuse dalle regioni cinesi, caucasiche, iraniane, oggi è coltivato nei territori del bacino del Mediterraneo, Alpi francesi, Giappone, Cina e USA.
Precoce nella fioritura, l’impollinazione è entomofila, all’inizio di maggio i frutti disponibili sul mercato sono spesso d’importazione spagnola, alla fine del mese maturano già le varietà Aurora, Banzai, Tsunami e Spring Blush.
Le cultivar si selezionano per aromaticità, dolcezza, dimensione, colorazione che va dal giallo all’arancio saturo, le più diffuse in Italia sono San Castrese, Portici, Baracca, Reale di Imola e Val Venosta.
Nutraceutica
Ipocalorica, l’albicocca apporta acqua, fibre e sorbitolo che le conferiscono blanda azione lassativa e diuretica.
Ricca di potassio, calcio, fosforo e modeste la percentuale di ferro poco assimilabile. Preziosa per il contenuto di carotenoidi e antiossidanti, vitamina C, B3, B5 e acido folico.
Ad eccezione della vitamina C che è estremamente labile, gli elementi minerali, le vitamine, gli zuccheri e le fibre si concentrano nel frutto essiccato. L’apporto energetico per 100 g, così aumenta da 28 a 270 kcal.
Gli acidi organici e i loro sali presenti, ne limitano il consumo se si soffre di patologie renali e gastriche.


Acquisto e conservazione
I frutti devono apparire turgidi, senza ammaccature e parti annerite. Preferibile acquistare solo la quantità da consumare nell’immediato perché deperiscono in fretta. 
Vanno conservate in frigo per non più di cinque giorni, riparate dall’umidità con carta assorbente.
In pasticceria l'albicocca lega col cioccolato, la mandorla, cardamomo, anice, lavanda, zenzero, pepe lungo di Giava, rosmarino e vaniglia indiana.
Ideale con le carni bianche, il maiale, l’agnello, i formaggi di capra, gli erborinati, il pesce azzurro, ricciola, tonno e crostacei.



Per arrivare a consumare le sette porzioni di frutta e verdura quotidiane bisogna utilizzare i vegetali in tutte le preparazioni.
Granite e sorbetti sono la colazione estiva in Sicilia, ideali anche come dessert light, a basso impatto glicemico grazie all'utilizzo del miele, il mio preferito è quello di Jean Louis Lautard.



Sherbet di albicocca al miele di lavanda



Ingredienti

300 g di albicocche mature e profumate
50 ml di succo di limone
200 ml di acqua
fiori di lavanda blu di Provenza

Procedimento

Portare a bollore l'acqua e il miele mescolando spesso, aggiungere le albicocche lavate, denocciolate e tagliate a pezzi, il succo di limone e frullare con un mixer ad immersione.
Eliminare la schiuma che si sarà formata in superficie e raffreddare in frigo.
Mantecare in gelatiera, con la mia MINI Musso bastano appena 15 minuti.
Decorare con i fiori di lavanda.





Rossana

martedì 20 maggio 2014

Bianco Trebez 2009, Dario Princic e Lama Bianca 2012, Feudo D’Ugni, Cristiana Galasso



Dario Princic ci disse un anno  fa che in Friuli con la macerazione cercano di fare il “Vino”.
A suo dire, sono alla ricerca, nelle bucce dell’uva bianca, dell’archetipo, dell’essenza del vino che fondi un territorio che non ha tradizioni enologiche alte.
Citava la Borgogna ma su questo punto mi spunta un dubbio sulla liceità del parallelo.
La Borgogna è l’espressione di un luogo a mezzo di un unico, singolo vitigno usato come una cartina tornasole (nota1).
La macerazione è qualcosa di differente è un espediente alchemico di estrazione/distillazione dell’essenza del luogo intrappolata nella buccia. Forse è l’esaltazione di un processo che come fine ultimo ha la smaterializzazione, la concettualizzazione, l’astrazione.
In realtà il risultato organolettico, a dispetto della concezione quasi “metafisica”, è estremamente ruvido, materico, quasi bruciante (come i distillati alchemici).
Insomma mi viene in mente la definizione di Design che dava un grande Architetto e che potremmo parafrasare così: “ i macerati sono come dei pipistrelli mezzo topi e mezzo uccelli”.
Volano in alto ma sono terrignamente tirati in giù dal loro essere terrestri.
Vini di “testa” più che di “territorio”.
Anche se raccontano storie ancestrali e di ruvidità fisica.
Non ne vengo a capo!
Affascinano e repelleno.
Spesso mi deludono ogni tanto mi commuovono.
In questo caso il Trebez 2009 di Dario Princic mi ha colpito per due cose, appena acquistato un anno fa mi era parso “molle”, intenso ma senza spigoli che lo ravvivassero ora è venuta fuori una vivacità granulosa, vegetale e piccante (come di crescione) che lo ha reso trascinante.
Linfatico, pepato, con rimandi di infusi e spezie e pizzicori tannico/aciduli.
Potente e “scorretto”.
Il Lama Bianca mi ha ricordato in “levare” il Trebez, un poco più gentile, meno caustico, più etereo (nota2).
I profumi erano lievi ma pervasivi come quando si entra, ore dopo, in una camera in cui qualcuno si è spruzzato del profumo e ci immaginiamo i movimenti, i gesti, il suono della voce della persona che lo ha fatto.
Incredibile la capacità di tenuta del vino nei giorni successivi è il secondo giorno era più espressivo del primo.
Mi spaventa fare questo parallelo vista la distanza siderale che divide i vigneti, sia fisica sia ampelografica (nota3).
Kempè

Luigi


(nota 1)
Leggo oggi per la prima volta che il tornasole è prodotto con dei licheni che hanno la capacità di tingersi di colore differente in base all’acidità del liquido con cui vengono in contatto


(nota2) 
Nel senso di puro, limpido, incorporeo

(nota3)
Trebez è a base chardonnay, sauvignon, pinot grigio
Lama Bianca è a base trebbiano

lunedì 19 maggio 2014

Franciacorta DOCG, Pas Dosé 2007, San Cristoforo

di Daniele Tincati


Ultimamente non mi capita spesso di acquistare e stappare dei Metodo Classico, preferisco i rifermentati tradizionali o metodo ancestrale o rurale che dir si voglia.
Tantomeno poi parlando di Franciacorta.
A parte pochi casi, non trovo vini che mi facciano impazzire.
Torna il discorso fatto qualche tempo fa con l’Alto Adige, ma non vorrei addentrarmi nel discorso più di tanto, perché non conosco a fondo la zona e neanche tanto i produttori.
Spesso si trovano vini molto dosati, che probabilmente raccolgono i consensi della clientela media, ma non è tentando di fare concorrenza al Prosecco in questo modo che si va da qualche parte.
Poi la zona è climaticamente più vocata della Champagne, per cui il dosaggio atto a smorzare eccessive durezze, quando se ne potrebbe fare a meno, è prettamente estemporaneo.
Sta di fatto che quasi sempre preferisco i cosiddetti Pas Dosè, ostici per alcuni, ma la massima espressione del Metodo Classico per altri.
E io sono tra i secondi.
Questa bottiglia è stata dimenticata in cantina per un po’ di tempo ed è evoluta in modo spettacolare.
Anche quando lo comprai mi colpì per pulizia e personalità, ma ora è davvero molto buono.
Mi era già capitato in precedenza con una bottiglia di Pas Dosè 2004 di Haderburg che aveva stazionato in cantina fino al 2011, credo, che fu memorabile.
Il solito problema è lo spazio dove stoccare le bottiglie.
Già con i rossi è una guerra, molti vini hanno bisogno di lungo invecchiamento, se devo dimenticare anche gli spumanti, buonanotte !
Comunque, questo Pas Dosè 2007 di S.Cristoforo mi ha convinto in tutto e per tutto.
Bel ventaglio di profumi, dall’agrume alla pasticceria secca, intenso e complesso.
Fenomenale nel bicchiere, con effervescenza finissima che crea una corona di spuma fitta e persistente, che si attacca al vetro per minuti.
In bocca è cremoso, morbido, ma ancora bello fresco, con ritorni perfettamente corrispondenti ai profumi appena prima percepiti.
Una bella armonia.
Molto lungo il finale, veramente gustoso.
Come sempre, peccato fosse stata l’ultima bottiglia.
E’ che ci vorrebbe una disponibilità infinita di spazio e soldi per poter comprare e stoccare quantità maggiori di questi vini, cose di cui purtroppo non dispongo.
Ahimè…

venerdì 16 maggio 2014

Chi ha tempo....aspetti tempo!


di Andrea Della Casa
Bottiglia bevuta al ristorante dove per una serie fortuita e fortunosa di coincidenze, che non vi sto a raccontare perché esulano totalmente dal significato di questo post, il nostro pranzo è durato circa 3 ore.
Tempo che è poi risultato essere fondamentale.

La curiosità di provare questo Nobile era proporzionale alla sua fama. Ne ho una bottiglia in cantina ma ancora tappata e di annata diversa, 2007, che pare aver visto legno nuovo che è un po’ la mia kriptonite.
Per cui prima di “bruciarmi” volevo provare un’annata differente.
Questa 2006, appena sveglia, non mi da grande soddisfazione, anzi. Il naso è chiuso, appena vanigliato, ma è nel sorso che incappo nella delusione più profonda. Il vino si offre rotondo, smerigliato, seduto, e con un tono legnoso non invasivo ma ben percettibile e, al mio palato, fastidioso e quasi omologante.
Frustrante risultato per un vino su cui nutrivo alte aspettative.
Roteo il bicchiere più volte ma nulla, il vino rimane sopito.
Poi dopo più di un’ora di pranzo e una decina di minuti che non mi approcciavo al calice accade l’impensabile.
Tuffo il naso nell’apertura e resto esterrefatto per la sorpresa: note di caffè come all’ìnterno di una torrefazione, e poi frutta matura, spezie, tabacco....
Wow!
Il vino si era svegliato davvero stavolta ed era uscito dalla sua tana di rovere che ora era totalmente scomparsa.
Anche in bocca quella sensazione fastidiosa era svanita, scacciata da un sorso teso e vibrante, tannicamente tollerabile, scalpitante, vivo, come se qualcuno di nascosto avesse cambiato la bottiglia. Sorprendente.

Questo fatto mi ha così riportato alla mente tanti assaggi (forzosamente) frugali e deludenti: chissà come sarebbero stati se avessi dato loro il giusto tempo?

mercoledì 14 maggio 2014

Le Verre des Poètes 2009, Vin de France, Domaine de Montrieux

di Daniele Tincati

Il Pineau D’Aunis, e chi lo conosceva ?
Prima dell’edizione 2013 di Villa Favorita per me era sconosciuto.
In Loira si parla sempre di Chenin Blanc e di Cabernet Franc, ma ci sono un sacco di altri vitigni autoctoni tipici, che si trovano quasi esclusivamente li.
Non ne fa cenno nessuno, neanche ai vari corsi per sommelier/assaggiatori e non ce n’è traccia nei rispettivi testi.
Per quel poco che ho potuto assaggiare è un vitigno molto interessante, anche perché ci sono ancora in vita dei vigneti secolari, alcuni addirittura a piede franco.
La combinazione poi con chi lavora in modo poco o nulla invasivo in cantina provoca una miscela esplosiva di colore rosso rubino con riflessi violacei, e dal profumo di pepe verde, frutta rossa croccante e pietra focaia.
In questo caso le componenti ci sono tutte.
Non è ben chiaro, anzi è un mistero, come si faccia a risalire all’annata, perché l’etichetta pare che cambi anche all’interno dello stesso lotto.
Anche la vinificazione varia da un’anno all’altro, alcune volte è senza uso di solforosa.
Questo mi pare uno di quei casi.
Purtroppo la bottiglia, esemplare unico a casa mia, è finita veramente in fretta, per cui non posso cercare conferme in un secondo assaggio.
E, non avendo neanche particolare esperienza col vitigno, non ho tanti mezzi di confronto.
Ma a me è piaciuto assai.
Fa parte di quella famiglia di vitigni che danno vini croccanti e speziati.
Mi ricorda tanto alcuni Rossese e anche lo Schioppettino, ma ci trovo anche qualcosa in comune col Malvasier sudtirolese.
Piccola nota di degustazione: ad un'ora dall'apertura, oltre la metà della bottiglia, si presenta il famigerato topocotica, con una leggera presenza in bocca in chiusura.
Vista la tipologia ci può stare tranquillamente, data la gradevolezza e la qualità elevata del prodotto.
La mia curiosità verso il vitigno aumenta in modo inversamente proporzionale alla reperibilità di vini di questo tipo sul nostro mercato.
E io resto in cerca…

martedì 13 maggio 2014

Dieci cose da non chiedere a Patrick Ricci. Una piccola guida per districarsi nel mondo delle gastropizze di Pomodoro & Basilico



Una volta seduti ai tavoli di Pomodoro & Basilico ecco cosa NON dovete chiedere a Patrick Ricci:

1) Potrei avere dell’olio piccante/peperoncino in polvere?
2) Potrebbe aggiungermi…?/potrebbe togliere…?
3) Fate l’asporto?
4) Siamo in nove/dieci o più.
5) Avete la pizza con wurstel e patatine?
6) Birra “industriale” c'è l'avete?
7) I pomodori sono italiani?
8) La lievitazione è fatta con pasta madre?
9) Vero che è facile fare la Margherita, insomma le pizze più semplici?
10) Mi fa un caffè macchiato?

Di seguito tento di spiegare in modo non lineare perché non si debbano chiedere queste cose:

Patrick ha affrontato il mondo della lievitazione e della pizza con il piglio e la sperimentazione del cuoco e con l’ostinazione tenace del cercatore di materie prime di altissima qualità, nessun abbinamento è casuale, potrà non piacere al singolo ma è frutto di lunghe sperimentazioni e prove.

Studia da anni con accanimento la storia della pizza (è sempre molto educativo sentirlo fare piccole “lectio magistralis” sull’argomento) e dal passato mutua il futuro di questo prodotto, a torto considerato come la cenerentola della ristorazione e lo traghetta a livelli di altissima piacevolezza organolettica.
Modifiche anche piccole possono sconvolgere i suoi arditi equilibrismi o i suoi altrettanto arditi costrutti minimali dei sapori.


Foto di Patrick Ricci


Ormai da tempo i prodotti più convenzionali o industriali sono stati eliminati a favore di produzioni artigianali di qualità, anche etica.

Il suo impasto di solo Farro è un piccolo capolavoro di arte bianca (il Farro non si presta, tecnologicamente parlando, a lievitazioni semplici e standard ma necessita di sensibilità e conoscenza e attenzioni continue) e non sempre la pasta madre da i risultati necessari ad ottenere la qualità e le quantità di prodotto necessarie a soddisfare le esigenze del “servizio”.

Se volete un po' di pizzico vi portano al tavolo
il peperoncino fresco
E’ un cercatore di prodotti, un paio di volte all’anno gira l’Italia per toccare con mano le materie prime che poi userà in pizzeria (questo è un atteggiamento di alto rispetto verso i clienti), per conoscere i produttori e i territori da cui provengono. Pomodoro e Basilico è un opificio in perenne sobbollimento che si nutre di storia, tradizione, innovazione, tecnica, provocazione, il tutto votato alla massima qualità di ogni prodotto e fase produttiva. Produce anche un ottimo olio evo da un suo oliveto nel Lazio e per questo “atto agricolo” ha tutta la mia stima.

Nel processo di crescita del suo lavoro ha visto che le grandi tavolate, oltre gli otto commensali, non permettono di compiere un percorso di degustazione cosciente e variato, il così detto “giro pizza” nel quale si assaggiano più pizze che sono porzionate in fette pari al numero dei commensali, questo approccio permette di assaggiare almeno un numero di varianti pari al numero delle persone e otto è il limite oltre il quale le porzioni sono troppo piccole.

E’ encomiabile, il suo processo di avvicinamento, faticoso ma a suo dire necessario al mondo del vino (bevanda storicamente abbinata alla pizza e soprattutto più digeribile in associazione ai lievitati), ha assaggiato e ha ascoltato per ore, con professionalità, i discorsi sul vino di Gil Grigliatti, di Vittorio Rusinà e miei senza mai cedere al peso della noia, senza mai farsi attirare dalle scorciatoie.

Affascinato dal lavoro di ricerca di Vittorio Rusinà sul caffè, malgrado le basse quantità di tazzine che serve ogni giorno, ha cominciato ad approfondire questo tema. Lui ci tiene molto a fornire un servizio di alta qualità ma non chiedetegli il latte, non lo usa per la cucina e quindi sarebbe destinato ad essere buttato, indi per cui non lo tiene.

E’ doveroso segnalare Patricia Rea moglie e “angelo” della sala, affabulatrice e grande mediatrice fra le istanze del cliente e le linee guida “eretiche” e un filino massimaliste di Patrick.

“Patrick, anche se non ama questa parola, è incredibilmente “umile” nel senso più alto che si possa intendere. Quella umiltà che può essere vista come la capacità di riconoscere ed indagare la verità su di sé. È la virtù che porta alla consapevolezza della propria identità, dei propri limiti e della propria forza, che permette di entrare in una vera relazione con gli altri. Sa ascoltare e sa farsi ascoltare.” 

Luigi

Via Martiri della Libertà, 103, San Mauro Torinese (TO)
Tel.+39 011 8973883


lunedì 12 maggio 2014

Dubbi amletici enoici ovvero la Petit Robe blanche 2011 di Jean-Yves Peron

di Andrea Della Casa
 
CAPITOLO UNICO
Cosa cerchiamo in un vino? 
Immaginate un Robert Zimmerman un po' alticcio durante un concerto che, come un novello De Andrè, storpia involontariamente il testo di una sua canzone e lascia uscire dal microfono un "like a Cantillon".
Ecco, queste poche parole descriverebbero perfettamente questo vino della Savoia da uve jacquere.
Vino che farebbe drizzare i capelli e torcere le budella ai fedelissimi dell'enologia accademica.

In controluce la bottiglia rivela una torbidità tale che per un istante ho temuto che dal collo ne uscisse Nessie.
Naso delicato di camomilla e miele, e una punta acetica.
L’alta acidità è corroborata da una volatile forse vicino ai limiti di guardia, che si palesa maggiormente in bocca predominando quasi univocamente la sensazione gustativa e ricordando proprio quelle birre acide a cui accennavo prima, le lambic.
L'alcol è camaleontico, gioca a nascondino. E vince. Io ce l'ho messa tutta ma quei 10.5° dichiarati dall'etichetta proprio non sono riuscito a trovarli.
Il bicchiere della staffa, quello in cui converge e si accumula concentrazione di estratto e la torbidità più fitta, porta con sé note di arancia amara e menta, e una maggior carnosità in bocca

Ed ecco sul finale il dilemma, quelle fatidiche domande che tutti noi enoappassionati inconsciamente ci facciamo e che ci creano sempre aspettative mentali prima dell'assaggio.
Cosa ci aspettiamo da un vino? Cosa vogliamo trovare nel calice?
Credo che un vino debba essere espressione del territorio, dell'annata, del vitigno e in questa fattispecie, seppur non conosco bene né il jacquere né il territorio della Savoia, qualche dubbio mi nasce.
Però la prova del 9 in bocca l'ha superata: dissetante come pochi, al mio palato la soddisfazione è arrivata.
Per cui, seppur non collimi esattamente con la mia idea di vino, sarei bugiardo a dire che non lo riberrei.

 

venerdì 9 maggio 2014

Côte Rôtie 2004 - Jean-Michel Stephan

di Andrea Della Casa

Mai generalizzare. 
No global.
Arrivo tardi sul Rodano, dove il/la Syrah regna indiscusso/a e che con il mio palato ha avuto più scontri che incontri. Non tanti assaggi in realtà (principalmente cisalpini) ma quasi tutti con fatica mi stimolavano un secondo sorso. Pesanti, con un finale amaro spigoloso, cupo, incorruttibile. La beva era agile e spedita come un'auto con ruote quadrate.
Mmm...ripensandoci forse il paragone non è così appropriato visto che là sotto Lione il Serine (nome locale del Syrah) si sposa spesso ad altre uve per raggiungere un migliore equilibrio.
Comunque sia...nel giro di poco tempo arrivano una serie di assaggi che mi lasciano esterrefatto e mettono in discussione le mie idee frettolose.
La Meme di Gramenon e Les Champs Libre (Dard&RIbo + Souhaut) grazie al nostro Eugenio (di cui sospetto fortemente antenati avignonesi, non di Montepulciano però...) alle cene goliardiche e impareggiabili degli amici del bar, un Saint-Joseph di Hervé Souhaut a una degustazione di Les Caves de Pyrenes e, in ultimo,  un Cornas vinificato sui raspi di Domaine du Coulet (guarda caso sotto consiglio di tale Stefano Amerighi, uno che c'ha il manico per il Syrah) a Cerea.
Tutti da taggare tutti sotto le voci slancio, bevibilità, dinamicità.

Jean-Michel Stephan  (palatepress.com)
E allora scatta la ricerca compulsiva di vini rodanesi perché vuoi, devi tornare e veleggiare su quel liquido. E capita casualmente poi di trovarne qualcuno a un prezzo decisamente conveniente.
Come questo Côte-Rôtie 2004 (che se non erro dovrebbe essere quasi in toto Syrah, forse con poca aggiunta di Viognier) di Jean-Michel Stephan, vignaiolo della scuola di Thierry Allemand, Jules Chauvet e Dard et Ribo.
Circa 6 ettari a Tupin et Semons che lavora senza l'utilizzo di prodotti di sintesi. Macerazioni carboniche in cantina, nessuna aggiunta di solforosa né di altre sostanze chimiche.
 
All'apertura è decisamente contratto, con una leggera riduzione che riporta agli odori di chiuso, di cantina.
Poi comincia a svegliarsi, si distende e si esprime in tutta la sua grandezza esternando in primis quell' odore pungente e speziato tipico del vitigno.


Col passare dei minuti continua ad ampliarsi lasciando campo libero a delicati profumi floreali, di viole, e un turbinio di note ferrose, terra umida, castagne sotto spirito, aromaticità erbacee.
Grandissima dinamicità in bocca, evolve e muta ad ogni sorso.
Subito domina l’alcol che tiene sotto scacco il vino mandando sbuffi penetranti, poi cede alla distanza riprendendo il posto che gli spetta nell’equilibrio del bicchiere.
Rispetto agli assaggi di cui sopra questo ha più corpo, più sostanza, e pare un filo meno leggiadro (ma proprio un filino) forse anche per i due lustri sulle spalle.
Non pervenuto quel fastidioso amaro finale ritrovato troppo spesso nei cugini cisalpini.
La decisa pungente acidità supporta valorosamente questa materia ancora comunque giovane e assolutamente succosa, corroborandone quella bevibilità superba a cui accennavo prima. Allora tiro le somme, spannometricamente, senza sviscerare l'argomento più di tanto, e mi sovviene che...chissà...tutto questo slancio, questo nerbo, potrebbero anche essere favoreggiati da vinificazioni coi raspi (ove le condizioni lo permettano) e macerazioni (semi e) carboniche...