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mercoledì 18 febbraio 2015

Vita Grama

di Vittorio Rusinà

E' San Valentino, mio figlio mi dice "Papà siamo soli io e te stasera." 
E' vero, sorrido, nel cuore, alla franchezza delle sue parole.
"Che dici ci beviamo una bottiglia di vino a cena?" gli chiedo. "Sì" mi risponde.
Dunque sia un grande vino, un vino antico, con quindici anni di età, con un nome simbolico "Vita Grama".
E' un vino che ho comprato a Milano, da Vinoir e grazie a Vinoir.
E' un momento della vita in cui adoro i locali del vino, dove puoi mangiare qualcosa, bere qualcosa, comprare quache rara bottiglia, chiedere lumi del perché quella bottiglia e non altre. C'è quella calma riflesssiva, quella possibilità di percezione che manca alle sempre più numerose fiere del vino, che sinceramente non frequento più tanto.
I posti del vino non sono le fiere, sono le enoteche, i wine-bar, le trattorie, le cantine, i convivi di amici. Ecco ci tenevo a condividere questa mia impressione.



Mi stupisce di questo vino la freschezza, quasi non avesse gli anni che ha, i profumi intensi che vanno dalla polvere di cioccolato alla liquirizia, radici, sentori ematici, erbe.
Tre uve, merlot, cabernet franc, cabernet sauvignon, in incredibile equilibrio.
Un grande vino rosso dalle mani di Aurelio ed Emilio del Bono, vignaioli famosi più che altro per le loro bollicine naturali.
Un grande vino che non deve mancare nelle cantine dei veri seguaci dell'amore, da bersi non solo a San Valentino.



lunedì 19 maggio 2014

Franciacorta DOCG, Pas Dosé 2007, San Cristoforo

di Daniele Tincati


Ultimamente non mi capita spesso di acquistare e stappare dei Metodo Classico, preferisco i rifermentati tradizionali o metodo ancestrale o rurale che dir si voglia.
Tantomeno poi parlando di Franciacorta.
A parte pochi casi, non trovo vini che mi facciano impazzire.
Torna il discorso fatto qualche tempo fa con l’Alto Adige, ma non vorrei addentrarmi nel discorso più di tanto, perché non conosco a fondo la zona e neanche tanto i produttori.
Spesso si trovano vini molto dosati, che probabilmente raccolgono i consensi della clientela media, ma non è tentando di fare concorrenza al Prosecco in questo modo che si va da qualche parte.
Poi la zona è climaticamente più vocata della Champagne, per cui il dosaggio atto a smorzare eccessive durezze, quando se ne potrebbe fare a meno, è prettamente estemporaneo.
Sta di fatto che quasi sempre preferisco i cosiddetti Pas Dosè, ostici per alcuni, ma la massima espressione del Metodo Classico per altri.
E io sono tra i secondi.
Questa bottiglia è stata dimenticata in cantina per un po’ di tempo ed è evoluta in modo spettacolare.
Anche quando lo comprai mi colpì per pulizia e personalità, ma ora è davvero molto buono.
Mi era già capitato in precedenza con una bottiglia di Pas Dosè 2004 di Haderburg che aveva stazionato in cantina fino al 2011, credo, che fu memorabile.
Il solito problema è lo spazio dove stoccare le bottiglie.
Già con i rossi è una guerra, molti vini hanno bisogno di lungo invecchiamento, se devo dimenticare anche gli spumanti, buonanotte !
Comunque, questo Pas Dosè 2007 di S.Cristoforo mi ha convinto in tutto e per tutto.
Bel ventaglio di profumi, dall’agrume alla pasticceria secca, intenso e complesso.
Fenomenale nel bicchiere, con effervescenza finissima che crea una corona di spuma fitta e persistente, che si attacca al vetro per minuti.
In bocca è cremoso, morbido, ma ancora bello fresco, con ritorni perfettamente corrispondenti ai profumi appena prima percepiti.
Una bella armonia.
Molto lungo il finale, veramente gustoso.
Come sempre, peccato fosse stata l’ultima bottiglia.
E’ che ci vorrebbe una disponibilità infinita di spazio e soldi per poter comprare e stoccare quantità maggiori di questi vini, cose di cui purtroppo non dispongo.
Ahimè…

lunedì 21 gennaio 2013

Op Barbera Doc, Antica Vigna, 2003, az agr Collina del Sole di Vittorio Rusinà



“Pronto Azienda Agricola Collina del Sole?”… “Sì”  risponde con voce soffusa una persona molto anziana…”Telefono da Torino, ho bevuto una vostra barbera, la Antica Vigna”…”Ah sì”…”Ecco volevo sapere se fate ancora la barbera?”…”Ma certo che sì”…”Ma io ho visto sul vostro sito web che non c’è più”…”Per quelle cose lì deve parlare con Paolo che torna alle 14”.

Qualche giorno fa trovo in cantina una bottiglia “dimenticata”, è la Op Barbera Doc, 2003 Antica Vigna di Collina del Sole, piccola realtà artigianale dell’Oltrepo’ Pavese, resto di un ordine che avevo fatto qualche anno spinto da alcuni video-appelli del vignaiolo “garibaldino” Paolo Caorsi, primissimo ad usare i video e YouTube (fine 2008) per promuovere il vino, un uomo semplice “senza tanti fronzoli”, diretto e, fatemelo dire, geniale nell’aver intuito la forza dei video sul web, cosa che rimane ancora oggi oscura a molti vignaioli più famosi e “sofisticati”.

Non mi aspettavo grandi cose da questo vino e invece ecco che sorpresa si rivela grande, oserei grandissimo, un campione fra le barbera ultimamente degustate per l’ormai prossimo #barbera3, un perfetto equilibrio fra acidità e dolcezza che conquista il mio cuore, un vino con ancora vita davanti a sè, barbera what else?

“Pronto è il signor Paolo Caorsi?”…”Sì”…“Io sono un suo vecchio cliente da Torino, la fate ancora la barbera, la Antica Vigna ”…”Mmmm sì ne abbiamo ancora, pochina, ma l’abbiamo”…”Ah ecco, avevo dei dubbi perchè sul sito non viene più citata fra i vini prodotti”…”Eh lì abbiamo quelli che vanno di più”…”Ma la barbera c’è ancora lei mi assicura?”…”Sì c’è ancora, l’abbiamo pure in negozio a Pavia, in viale Matteotti, abbiamo anche quella barricata”…”No a me basta quella lì senza legni”

Vittorio




venerdì 16 novembre 2012

Montebuono 2005, IGT Provincia di Pavia Rosso, Az. Agricola Barbacarlo. Di N. Desenzani


Chewy Oltrepo, vin de soif, legno vecchio che cristallizza il frutto in un guscio zuccheroso arcaico.
Saporito e fresco. Leggero e croccante. Di beva superlativa. Di consistenza e tannino fragranti.
Vivo non tanto perché cangiante, ma perché senti una quintessenza dell’acino: niente è perduto tutto permane.
Già lo scrissi: uva e tempo.
Quasi di muschi e muffe di boschi umidi. Cortecce, terra fresca smossa, spore fungine ed erbette fresche.
Antiche cantine.
Zuccheri grezzi.
Aciduli di carcadé e… cannella.
Glu glu glu, bon dégustation (cit.)! 



lunedì 5 novembre 2012

Il Pendio di Michele Loda a Monticelli Brusati (BS). Gli uomini dietro al terroir.

Michele Loda
Prescritto.
Sto cercando disperatamente un altro termine in sostituzione di terroir o territorio da quando ho letto sui libri di Farinelli che la matrice semantica  della parola è comune a “terrore” e probabilmente nacque nel periodo in cui gli Stati Sovrani decisero di misurare lo spazio dei propri possedimenti abbandonando descrizioni qualitative a favore di una concezione cartesiana e quantitativa dei luoghi e delle persone, mirata per lo più al controllo degli stessi (un esempio su tutti: il catasto terreni che penso voi crediate sia sempre esistito nacque nella Francia Napoleonica e venne poi recepito nel resto dell’Europa da metà ottocento e naturalmente è nato per determinare in maniera scientifica i redditi e quindi le imposte).
.
Un termine che sembrerebbe scevro dalle suddette connotazioni è “luoghi” perché come dice Farinelli:

“Luogo, al contrario (di spazio e territorio ndr), è una parte della superficie terrestre che non equivale a nessun altra, che non può essere scambiata con nessun altra senza che tutto cambi. Nello spazio invece ogni parte può essere sostituita da un’altra senza che nulla venga alterato, proprio come quando due cose che hanno lo stesso peso vengono spostate da un piatto all’altro della bilancia senza che l’equilibrio venga compromesso.”

A voi piace?
A me abbastanza, però sono aperto a consigli.
Ricomincio e mi scuso per la digressione fuori tema.


Gli uomini dietro i luoghi.
Michele Loda alias il Pendio in quel di Monticelli Brusati (BS).
La Franciacorta è un insieme di luoghi che per semplicità ragionieristica e agrimensoria e normativa è stata ridotta nel nostro pensiero di consumatori e ahimè anche nel pensiero e nei fatti di alcuni responsabili del Consorzio ad un unicum indistinto, omogeneo, isotropo (problema comune a tutte le normative sulle DOC(G) e a tutti i tentativi maldestramente umani di perimetrare e computare le cose di natura).

Un luogo la Franciacorta che essendo stato inventato cartograficamente è diventato un non-luogo isotropo ed equipollente.
Per cui differenze anche sostanziali fra giaciture, meteorologia locale, pedologia, altitudini sono confluite in un mare magnum di vigneti che partono dalla pianura e abbracciano la Milano-Venezia sino a quelli a trecento metri slm, ripidissimi con impianti a giro poggio o terrazzati di Monticelli Brusati o Gussago (cito questi perché li ho conosciuti de visu e nulla hanno a che fare con le distese di vigneti del fondo valle).



Il Pendio è in una posizione meravigliosa a trecento metri di altezza, un corpo unico di cinque ettari su un fianco della collina con esposizioni che vanno da nord est a sud, attorniata da boschi e perennemente ventilata.
Con suoli differenti al proprio interno, la parte sommitale ha pochi palmi di argille (bianche e grigie a macchie di leopardo) sopra la roccia madre calcarea affiorante, le pendici hanno più spessore di argilla sempre frammista a brecciolino calcareo e maggiore ripidezza.
Luoghi diversi all’interno di un corpo aziendale apparentemente unico e le piante lo interpretano in maniera differente in base a complesse interazioni fra la maggiore umidità e umicità del suolo, differenti consorzi microbici sessili, esposizione, drenaggio.



Per cui da certi vigneti o porzioni o filari si ottengono mosti con caratteristiche differenti di acidità, tenore zuccherino, estratti, componenti aromatiche.
Il tutto sorvegliato e istradato dalle minime pratiche agronomiche messe in atto da Michele Loda che lo portano a dividere così la sua produzione:
nord est, vigneto di chardonnay il Ruc attorniato dal bosco (e saccheggiato dai cinghiali) dà le uve del Cunvai, Cremant, metodo classico;
nord est, vigneto gradonato di chardonnay dà le uve de Il Contestatore Franciacorta Docg, Pas Dosè;
est, vigneto Ruc, dà le uve per il Curtefranca Bianco Doc, chardonnay e il Brusato Franciacorta Docg, Extra Brut;
sud, vigneto dà le uve per La Beccaccia, vino rosso, Cabernet Franc;
sud, vigneto La Valletta da le uve per il Pinot Nero del Sebino Igt e il Brusato Rosè, metodo classico;
sud sud ovest su gradoni dimorano quattrocento Leccino di quarantacinque anni per l’olio aziendale.


Che altro dire se non che l’azienda fondata da Gigi Balestra è condotta in solitudine da quasi dieci anni da Michele Loda che lavora in una cantina microscopica (la presa di spuma è fatta in cataste ancora assemblate con le “latte” striscie di legno frapposte fra fila e fila di bottiglie per evitare il contatto diretto e il collasso della catasta in caso di esplosione di una bottiglia) in cui ogni lavorazione presuppone un incastro perfetto e sequenziale delle operazioni per liberare spazi e vasche e barrique (ormai decennali se non più).



In ordine sparso vi elenco le cose mi ha detto e ho visto:
I cinghiali mettono a dura prova la raccolta dell’uva.
La flavescenza dorata si insinua con discreto successo nei vigneti.
I vigneti sono interamente inerbiti.
Usa lieviti indigeni sia per le fermentazioni alcoliche sia per l’inoculo del tirage (sono arrivato in cantina mentre un piccolo pied de cuvèe, destinato al tirage, stava animandosi e profumando di crosta di pane la cantina).
Attrezzature e vasi vinari ridotti all’osso e abbondantemente obsoleti (e non è necessariamente una cosa negativa, almeno per me).
La stabilizzazione delle basi spumante la fa a freddo con un impianto frigorifero artigianale che impiega due giorni per portare la massa a meno uno e dura una settimana.
I metodi classici affinano in acciaio per un anno sulle fecce fini e poi trascorrono trentasei mesi “sur latte” per la presa di spuma alcuni anche per sessanta mesi.
I vini fermi fermentano in acciaio e poi vanno in barrique usate e non sono filtrati.
Remuage manuale.
Tutti i metodi classici sono millesimati.
Il gelo degli ultimi due inverni ha dato un bel colpo all’oliveto.



Michele Loda è un vigneron rustico e assai poco franciacortino legato com’è alla terra e alla dimensione artigianale del fare il vino (non direi luddista ma a tratti potrebbe sembrarlo).
Come mi capita spesso con persone così terragne, c’è un progressivo processo di accordatura fra il vigneron e il visitatore che si dipana da una iniziale ritrosia e chiusura sino ad una condivisione empatica e generosa.
Come se il fine non fosse solamente la vendita di un prodotto ma anche la comprensione più intima della propria personalità e storia e per fare ciò bisogna che entrambe gli interlocutori scoprano e offrano l’un l’altro le proprie esperienze e in qualche modo i propri sentimenti.
Tutto ciò annaffiato dal vino, che aiuta!

Ho assaggiato
Il Contestatore, Franciacorta Docg 07, non dosato, chardonnay.
Brusato, Franciacorta Docg 07, extra brut, chardonnay.
Cunvai, cremant 07, metodo classico, brut, chardonnay 70%, pinot bianco 30%.
Brusato, rosè 07, metodo classico, non dosato, pinot nero.
Odio le descrizioni sintetiche (anche nel senso di poco naturali e un po’ approssimative) di ogni singolo vino per cui accontentatevi di una lettura trasversale da cui è emerso che sono vini ad alta sapidità e con acidità robuste che non indugiano su profumini floreali o di crosta di pane ma mirano dritto alla mineralità salata, ai terziari con intensità e croccantezza, il rosè ci aggiunge le note inconfondibili del pinot nero, mi sento di poter dire che sono vini di territorio (luogo) e di millesimo.
Dimenticavo di dire che il perlagè è finissimo, presente e molto stuzzicante malgrado la pressione sia inferiore ai 4,5 bar.
Voilà, a me sono piaciuti tutti e quattro.



Curtefranca Bianco 07 Doc, chardonnay.
Molto interessante con memorie di leggere ossidazioni (come alcuni borgogna) e maturazioni, sapido e minerale (quella sensazione di mineralità quasi salmastra), teso e fresco, si è evoluto moltissimo per tutto il tempo della degustazione.
Pinot Nero del Sebino 07 Igt.
Un po’ chiuso subito si è aperto verso sentori terrosi e tabaccosi e di residuali frutti, acidità nervosa.
La Beccaccia 07 vino rosso, cabernet franc.
Impetuoso, etereo con fughe mentolate più che erbacee, rotondo, tannini levigati, minerale e poi frutta.
Anche i vini fermi mi sono parsi di territorio (luogo) per la loro capacità di uscire dal varietale e proporre un panorama, quello che si vede dai vigneti.

Olio extravergine Il Pendio.
Mi sono amaramente pentito di averne comprato troppo poco! (analisi organolettica da professionista, vero?)




mercoledì 24 ottobre 2012

L’alt(r)a Lombardia e il Merlot di Enrico Togni, storie di luoghi e di persone


Vigne vecchie di merlot, in cui sopravvivono anche piante a piede franco, lottano per dimostrare di essere più territoriali delle cultivar tradizionali.

E’ una lotta impari perché ormai autoctono/tradizionale è bello e giusto.
E’ una lotta impari perché non si valuta il fatto che sono lì da almeno sessanta anni e hanno ormai sviluppato un rapporto intimo con il luogo.
E’ una lotta impari perché di Merlot ne è pieno il mondo e il prezzo diventa il discrimine unico.
E’ una lotta impari perché i vigneti di questo Merlot sono su pendenze del cento per cento e più e nemmeno il trattore può salire.
E’ una lotta impari perché i vigneti di questo Merlot sono bisognosi di molte cure e attenzioni.
E’ una lotta impari perché sono in provincia di Brescia e il costo della vita è doppio rispetto a certe zone viticole d’Italia.
E’ una lotta impari perché il luogo di produzione non è nel novero di quei pochi ed eletti territori italiani ad alta vocazione (ad alta mediaticità direi, meglio).
E’ una lotta impari perché il produttore è solo nella ricerca dell’estrema espressione territoriale dei vini.


Per cui Enrico Togni convinto, al di là di ogni ragionevole dubbio, di poggiare i piedi su una terra, la stessa in cui immergono i fittoni le sue viti, vocata abbandonerà un po’ di piante di merlot a favore dell’erbanno.

In fatti per far vivere il suo Merlot, Enrico sta lavorando duramente sull’Erbanno una cultivar “tradizionale” che ha riscoperto e propagato e vinificato.
L’Erbanno ha una triplice attitudine è molto resistente e rustico, dà un ottimo vino ed è un “quasi autoctono”* quindi è “mediaticamente territoriale” e spendibile nel mercato schizofrenico del vino dell’età contemporanea che brucia i propri miti con ritmi incommensurabili  ai tempi della biologia vegetale.

Per cui beviamo tutti l’Erbanno!  

Che quando saremo pronti il Merlot sarà lì che ci aspetta per svelare tutte le corrugazioni degli spalti calcarei, delle argille, il leggero pizzicore dei refoli di tramontana che cadono a valle dalla cresta delle montagne  infilandosi nei dirupi scoscesi e il calore algido del brillio del sole riflesso dalle nevi della Valcamonica.


Nelle mani giuste con l’impegno giusto, con le cultivar giuste, Enrico ha dimostrato, che la viticoltura camuna può ottenere prodotti di alta qualità perché il luogo ha la forza, la vitalità necessaria per lasciare un imprinting nel dna delle piante e nei vini se questi sono trattati con quella giusta distanza e laisser faire che permette loro di deviare, contaminarsi, arricchirsi, custoditi più che condotti per mano, più che costruiti.

Cura maniacale del vigneto, rispetto della propria ricchezza fenotipica aziendale perpetuata con la riproduzione massale, attenzione alle forme di allevamento.
Enrico è un esempio di come i luoghi senza l’uomo che li interpretino possano essere neutri, apparentemente “sine nobilitate” e allo stesso tempo come l’uomo sia interpretato e condizionato dai luoghi in un processo di appartenenza e dipendenza l’uno dall’altro.
Noi pensiamo la Terra.
La Terra pensa noi.


*Enrico e l’agronomo preferiscono definirlo “tradizionale” non avendo prove scientifiche sulla reale autoctonia della cultivar.

Poscritto
In occasione delle degustazioni dei vini camuni a Darfo Boario, a parte la produzione di Enrico, si è palesata immediatamente una scarsa aderenza fra i vini e il territorio forse causata dalla scelta di cultivar incapaci di produrre qualità o di adattarsi ai luoghi (incrocio Manzoni) oppure lasciate produrre un po’ troppo e mortificate da vinificazioni standard un po’ troppo tecniche (riesling e merlot).
Sicuramente bisogna puntare su cultivar “nobili” che sappiano fotografare la Valcamonica senza dimenticare quelle tradizionali (barbera, nebbiolo, schiava, marzemino ed ora l’erbanno) che hanno dato esempio di grande qualità, nelle mani giuste.


mercoledì 22 febbraio 2012

barbacarlo o dell'oblio

Barbacarlo 05, Az. Agr. Barbacarlo, Comm. Lino Maga, Broni (PV).




Il Barbacarlo*, probabilmente, oltre che un vino (e questo non si discute) è anche una categoria.
Forse, meglio, come dice Niccolò Desenzani è un particolare che ha in sé un universale.
Questo concetto universale o categoria è quella dei  vini antichi.
Archetipici.
Ancestrali.
Vino d’un tempo che rammemora come la madeleine di Proust la nostra infanzia e,
quando si schiarisce la nebbia, si vedono, sul fondo del calice, il campanile e le case del paese, si sente l’odore della terra umida e il rasposo latrare dei cani.
Si percepisce indistintamente una quasi comprensione, un’intuizione della nostra evoluzione.
Dal caucaso, alla mesopotamia, dal bacino mediterraneo al cristianesimo.
Vino cibo, vino memoria.
In questa categoria non esiste il concetto di piacevolezza, di buono.
Perché è una categoria trans-storica e trans-etnica, ogni periodo storico, ogni etnia ha il proprio concetto di gusto e piacevolezza.
Se prima non conosciamo la sua storia e lo beviamo alla cieca perdiamo il novanta per cento del suo significato.
Non possiamo scinderlo dal suo essere nel mondo e per il mondo.
Non chiedetemi se mi è piaciuto.
Non chiedetemi nulla, è nell’oblio, nel tortuoso fluire delle ere da ricercare il suo senso.
Bonne degustation




Luigi


*Uvaggio di Croatina, Uva Rara e Vespolina
Per una degustazione seria leggete Jacopo Cossater.


lunedì 13 febbraio 2012

rairon 2006 uva rara podere il santo

Rairon 2006, Rosso Provincia di Pavia Igt, Podere il Santo di Eugenio Barbieri, Rivanazzano (PV).


Mi affascina l’estremismo produttivo di Eugenio Barbieri e il concetto olistico che lo permea.
Ha voluto ricostruire una cascina preindustriale a ciclo chiuso.
In cui il vigneto è uno dei componenti della gestione agricola a cui affianca l’allevamento di bovini e suini, i seminativi, le piante da frutta, l’orticoltura.
Per lo più per autoconsumo.
Il suo obiettivo è il mantenimento della fertilità del terreno con processi legati ai cicli naturali senza dipendere, per quanto possibile, da fonti esterne.
Il pensiero di Eugenio Barbieri è estremamente attuale, semplificando molto si può parlare di comportamento agroecologico.
Ossia un tentativo di spezzare il circolo vizioso che lega il contadino ai fornitori esterni di energie, servizi,materiali, credito ricercando metodi naturali, interni alla propria azienda per ovviare a questa dipendenza.
Non è un discorso naif.
Parrebbe essere il futuro dell’agricoltura.
Se vogliamo che esista ancora qualcuno da sfamare e dissetare.
Non credo che Eugenio Barbieri risolva i problemi del mondo.
Però alla base del suo pensiero c’è molto di più della sterile divisione fra bio e non bio.
Ma tra il sostenibile a lungo termine e l’insostenibile.
Un atto politico prima che un comportamento di tendenza o mera strategia di marketing.
Dei due vini ho provato il Rairon 2006 un blend di Uva rara al 90% e Croatina, Barbera al 10%.
Cupo nei colori, intenso di profumi di frutta matura e polposa.
Etereo, quasi smaltato.
Dolcezze di maturazioni spinte e virate tanniche.
Alterna suadenze a rasposità.
Concentrato.
Masticabile.
Mi è piaciuto ma è da riassaggiare.
Bonne degustation.




Luigi


mercoledì 25 gennaio 2012

scaccialupo 2006 barbera igt PV sacrafamilia #vinicolki

Scaccialupo 2006, Barbera Oltre Po’ Pavese, Sacrafamilia



Ho voluto, volontariamente, ignorare il complesso incipit di Mercandelli sui vini biotici.
Volevo che fossero le sensazioni, le percezioni a parlare.
Non quel fascinoso mondo alchemico, spirituale, magico che traspare dagli scritti sul sito e dall’articolo comparso su Porthos 35.
So che esiste tutto ciò ed è stato il motore primo che mi ha spinto alla ricerca del vino.
Però poi la bottiglia era lì sola sul tavolo.
Con la sua grafica molto cool e intrigante.
Ma non c’era un corpus teolologico che l’introducesse.
Solo il vociare degli avventori e il parlare esotico di tre ragazze giapponesi.
Il vino nei bicchieri.
La mano sullo stelo.
I profumi che uscivano.
Impetuosi direi e fascinosi e mutevoli.
Forse anomali e mi tornavano in mente le parole di Mercandelli.
“Le mie vigne fotografano terra e cielo (vado a memoria)”.
Immaginavo me stesso sdraiato tra i filari e gli occhi puntati verso il cielo.
Calore e sapido di terra e radici di genziana o rabarbaro o china (decidete voi).
Si intrecciano in un costrutto solido, masticabile.
L’amarognolo mitigato da dolcezze di acino fresco con la sua buccia linfatica.
Una corsa parallela.
L’officinale e le spinte eteree quasi da bottega di erborista.
Lunghissimo e goloso.
Elegante.
Impossibile fermarsi nella bevuta.
Vittorio Rusinà lo ha proclamato vino col KI.
Unico residuale dubbio il prezzo non proprio economico.
Però abbiamo speso di più e per vini peggiori.
E poi io di posizionamento e marketing ne capisco poco e quel poco che intuisco, bevo per dimenticarlo.
Ringrazio il ristorante Consorzio per averci ospitato, sfamato concedendoci chicche casearie delle terre d’Albione e anteprime culinarie e per averci sopportato sino a mezzo pomeriggio.
Bonne degustation

Luigi

Vino acquistato sul sito Palatifini a 69,00 euro, sito dal quale mi rifornisco, da anni oramai immemori, di un pesto da campionato del mondo.
Adesso vado a rileggermi i “vini biotici” e l’articolo portosiano.




lunedì 26 settembre 2011

pinotspumanteca'delgè2005metodoclassico_millesimato

Ca’del Gè, brut 2005, metodo classico millesimato.
Az. Agr. Ca’ del Gè, Montalto Pavese (PV).



Ultima bottiglia.

Cento per cento pinot nero dell’oltrepo’ pavese.
Colore intenso.
Profumi intensi.
Lievitoso di lievito madre e farina di segale.
Caldo di pinot nero robusto e mediterraneo.
Suadente come notti d’estate e cicale.
Profumi di boschi bagnati dopo i temporali estivi.
Bollicine impertinenti e tonificanti.


Rotondo e vinoso.
Orrizontale e argilloso e fruttoso e godurioso.
Mette a tacere salamini affumicati e Gruyere d’alpage.
Mi piace.
Per la sua lieve rusticità.
Per la sua semplice, onesta perfezione.
All’incredibile costo di 7,50 euro i.i. la bottiglia.
E rimane per trentasei mesi in presa di spuma.
Un miracolo.
E non hai rimorsi a berlo sulla pizza, solo godimento celestiale.
Glu glu.
Va giù.
Bonne degustation


Luigi

domenica 26 dicembre 2010

anteopinotnero100%natureecruoltrepopavesemillesimato

Anteo Nature Ecrù Millesimo 2001.
Antefatto:
non so per quale oscuro motivo da sempre l’Oltrepo’ Pavese mi ha attratto, forse per le mie estati passate nel monferrato che è parte di un sistema collinare preapenninico che ingloba il basso monferrato, il tortonese, il gavese, la liguria, l’oltrepo’ e l’emilia.


Questa continuità percettiva delle colline e le struggenti canzoni di Paolo Conte (le fisarmoniche di Stradella) mi hanno sempre legato ad un mondo così vicino e così lontano.
La parlata dell’oltrepo’ è piemontese, la cantina è la crota e il crutin (luogo più defilato destinato all’affinamento e la conservazione dei vini).
In realtà io d’estate andavo a Viarigi  lì la cantina è la canva (dal frances cave) e fare in fretta si dice fuma d’sgagià (credo da degage francese) un mondo quello del monferrato, dell’oltrepo, dei colli piacentini costituito da piccole enclave embricate tra loro, con il territorio, con le tradizioni, storicamente lontane e dimenticate dal potere e dall’economia.
Stessa maledetta storia di cantine sociali elefantiache che poco pagavano e poco stimolavano un territorio fortemente vocato, producendo una involuzione tecnica e la fuga dei giovani dalle campagne
Si coltivano più o meno le stesse uve, barbera su tutte con un distinguo importante l’oltrepo’ nel tempo ha sviluppato una specializzazione verso alcune varietà internazionali anche a bacca bianca che si sono ben ambientate.
Pinot nero e riesling sono i vitigni simbolo dell’attuale oltrepo’.
Una particolare interpretazione italiana dei due vitigni, inutile cercare la francia e la germania, qui c’è più calore più morbidezze forse più sensualità, quella che ricorda certi pomeriggi d’estate con l’aria immota un caldo umido amniotico e il frinire ossesivo dei grilli.
Per anni i vignaioli vendevano il loro pinot agli spumantieri d’italia forti del fatto che il suolo patrio è molto ostico per il pinot.
Se non fosse per l’oltrepo’ saremo terra di Blanc de Blanc.
Dopo anni di iniezioni di struttura agli chardonnay forestieri si è iniziato a imbottigliare e spumantizzare in loco e hanno richiesto ed ottenuto la DOCG sui vini spumanti a rifermentazione naturale in bottiglia.


L’oltrepo’ è terra di Blanc de Noir.
E’ l’alter ego della Franciacorta anche dal punto di vista socio-economico una è figlia del miracolo economico l’altra è frutto della atavica resistenza alla miseria e sopraffazione con puntate di genialità tipiche della civiltà contadina.
Io in maniera del tutto “simpatethic” preferisco la seconda.
I vini sono tutti buoni ma una storia di sofferenza e fatica li rende più sapidi.
Io non amo i vini figli di piazza affari è un mio limite.
In realtà l’oltrepo’ è il figlio minore della spumantistica lombarda.
Questo per noi consumatori è una opportunità infatti meno fama più qualità a minor costo.
Cambiate l’olio alla macchina, fate il pieno e prua verso Casteggio.
Per deliziarmi ho bevuto dell’ Az. Agr. Anteo  il Nature Ecrù Millesimo 2001 in magnum.
Un Blanc de Noir 100% Pinot nero.
Spuma, perlage tutto bene (mi annoio un po’ a scrivere banalità).
Colore intenso con riflessi ramati e vivaci.
Bello a vedersi.
Profumi da Blanc de Noir intensi, di pane nero, di pasta madre acida, di scatola di sigari con gocce di distillato e scorzette di arance.
In bocca morbido e avvolgente malgrado i soli 2,5 gr/l di zuccheri riduttori e una acidità fissa importante.
Il corpo (un residuo secco notevole) bilancia e sostiene le durezze e ci regala uno dei vini che più mi piacciono.
Un Blanc de Noir che viene dal caldo, dalla maturazione zuccherina delle uve au point che lascia intatta l’acidità ma ne lima la verticalità.
Senza spocchia lo definirei un vino di terroir.
Che terroir.
Lo berrei su tutto, ottimo sul pollo al latte di cocco e spezie del sud est asiatico.
Un’altra di quelle bottiglie che finiscono troppo in fretta.
Aridità dalla cantina
100% Pinot Noir allevato a guyot e cordone speronato densità d’impianti 3.000/5.000 ceppi ha.
Fermentazione in acciaio.
2/3 gr/l di zuccheri riduttori (Brut Nature).
Presa di spuma minimo 30 mesi.
Malolattica non pervenuta.
Buona degustazione

luigi



PS
Non pago ho aperto anche un Anteo Brut Riserva del Poeta Pinot Nero 2001.
Ancora più fresco del primo, asciutto, sapido e affilato anche in bocca pronto a sfidare gli anni.
85% Pinot Noir allevato a guyot e cordone speronato densità d’impianti 3.000/5.000 ceppi ha.
15% Chardonnay allevato a guyot e cordone speronato densità d’impianti 3.000/5.000 ceppi ha.
Fermentazione in acciaio. Parziale affinamento in barrique delle basi.
Degorgément 10/08.
8 gr/l di zuccheri riduttori (Brut).
Presa di spuma minimo 30 mesi.
Malolattica non pervenuta.

domenica 12 dicembre 2010

franciacortaextrabrutdocgfaccolinondosècoccagliobrescia

Ho preso una deriva conformista.
Di quella sciovinista vi avevo già detto.



Sono l’unico che parla di ostriche e sciampagn a Natale.
Quindi vi parlerò ancora di Metodo Classico (perché la gente beve con le bolle solo dal 24 dicembre al primo gennaio? e poi perché diavolo solo secco e solo sul dolce? Pensavo di rispolverare la pena di morte).
Bresciano questa volta, un Franciacorta DOCG Extra Brut elaborato dai Fratelli Faccoli a Coccaglio (BS).
Cuvèe di Chardonnay 65%, Pinot Bianco 25% e Pinot Nero 5%.
Degorgément (dire sboccatura mi fa impressione) 1° sem 10.
Giovanissimo.
21 mesi di presa di spuma.
Dosaggio minimo come nella tradizione di famiglia intorno ai 2,5 gr/l di zuccheri riduttori.
Secco da paura.


Per non dire caustico (questo blog è vietato a chi non ha il sense of humor).
Spuma intensa e perlage fino e fitto naso pizzicante e nervoso quasi aspro e citrino con una mandorla amara molto presente anche in bocca, tagliente come promette al naso e forse di più con lieve amarognolo finale, vino difficile, per me of course.
Forse bisognava aspettare un  po’ prima di berlo che le asperità si mitigassero e l’ammandorlato (che io non amo molto) del Pinot Bianco si stemperasse.
Comunque insisterò a berne perché bisogna dare fiducia a chi vinifica in controcorrente e in aree difficili.
Le sorprese arrivano dagli artigiani appassionati che si dannano e non sono mai contenti dei loro prodotti.
I Fratelli Faccoli hanno una azienda piccola in quel della Franciacorta che ormai è in mano al capitale o all’industria (non è un male ma il marketing, il brain storming raramente fanno rima con sogno).
Il territorio stesso, sub pianeggiante, forse era bello cent’anni fa, ora è pesantemente antropizzato e pure malamente (capannoni, discoteche, ipermercati, rottamazioni, capannoni industriali).
I Faccoli hanno solo 7 ha alle pendici di una vera zona collinare il Monte Orfano che raggiunge i 450 m slm con pendenze anche molto forti (40-80%) e ha la forma di chiglia rovesciata nel mezzo della pianura al confine  sud est della Franciacorta.



Il versante sud mediamente ripido è zona classica per la vite.
Calcareo (ghiaie cementate da sabbie quarzifere) con rocce affioranti, suolo povero con profondità variabile con presenza di scheletro (terreno molto drenato).
Insomma un postaccio per le viti.
Ma la vite si esalta e tira fuori tutto il minerale che incontra facendo affiorare le ruvidità più che le morbidezze.
I Faccoli poi non guardano il consumatore come un riferimento semidivino da lusingare anzi lo frustano esaltando le freschezze dosando molto poco ed evitando con cura il legno.
Nessuna morbidezza e lunghe prese di spuma.
Il risultato sono il Brut per la massa l’unico ammicamento al gusto imperante, l’ Extrabrut (21 mesi di presa di spuma e 2,5 gr/l di zuccheri), il Dosage zero (48 mesi di presa di spuma e 1,8 gr/l di zuccheri) e il 10 anni (106 mesi di presa di spuma e 2,5 gr/l di zuccheri) per chi vuole farsi male..
Anche i costi sono molto poco Franciacorta (che ormai mediamente costano assai più dello Champagne di piccoli/medi produttori, con lo stesso valore ?).
Mettetene una cassetta da sei in fondo alla cantina, quando fra due o tre anni la ritroverete, mi sà che saranno perfette e vi pentirete di non averne comprate dodici.

Costo in enoteca 18,00 euro
A Torino all’Enoteca Bordo’

Luigi