Ho forse, per il momento, esaurito la carica di idee di decostruzione della teoria della degustazione. In realtà ho tanti abbozzi in mente e ultimamente si è affacciato un collegamento con la mia vita precedente di indagatore di teorie della probabilità, che spero sbocci in qualcosa di articolato. Per ora mi godo quella sensazione che iniziai a provare in tarda adolescenza, quella dell’unità dello spirito: quell’impressione che il nostro intelletto si declini in tutte le sue manifestazioni in coerenza con alcune sue caratteristiche primarie e inevitabili.
Jimmie Savage e Bruno de Finetti, Bressanone 1961
Ma quel che mi sta stupendo maggiormente in questo periodo è il riaffacciarsi di un interesse per la politica, in senso ampio, ché la mia ignoranza sull’attualità è abissale, e i grandi temi dell’ecologia e dell’economia.
Questi due temi trovano nel vino una radice da cui svilupparsi e uno specchio, che stupisce per quanto ne possa suggerire una chiave interpretativa.
Il vino è un laboratorio di idee.
Ne sono testimonianza tanti blog, che sconfinano volentieri verso argomenti i più disparati, ma in particolare questo, dove Luigi Fracchia sta gestando un pensiero molto interessante sulla realtà in cui viviamo, e vivremo.
E’ di qualche settimana fa la pubblicazione di una lettera firmata da un po’ di enoteche milanesi, in cui viene richiesto ai produttori di non vendere il vino a un prezzo dissimile da quello che si realizza in enoteca.
La discussione si è accesa parecchio quando Filippo Ronco ha deciso di pubblicare un post in cui con forza diceva che l’iniziativa era quanto meno anacronistica. La disintermediazione è un fatto dell’oggi e resistere in modo reazionario è un errore. Posizione abbastanza simile a quella espressa da Giampiero Nadali sul suo blog, che lucidamente metteva in evidenza che il cliente reale oggi ha a disposizione un ventaglio di modalità di acquisto del prodotto e un tentativo di uno fra tanti attori del mercato, l’enoteca, di alterare unilateralmente le condizioni di libera concorrenza e di formazione del prezzo, arriva tardivo. Il dibattito si è sviluppato e fra i favorevoli alla richiesta della lettera si sono schierati anche dei produttori, sostenendo, in buona sostanza, che per loro è molto importante che il prezzo del proprio vino sia ben determinato in funzione della principale filiera attraverso la quale arriva al consumatore finale. Creare delle forti asimmetrie di prezzo su filiere differenti non può che indebolire quella di riferimento, creare un’ambiguità sul valore del vino e confondere il cliente finale.
I consumatori appassionati vorrebbero premiato il loro tempo impiegato per recarsi dai produttori con prezzi quantomeno favorevoli rispetto a quelli sotto casa.
Da notare che esistono enotecari con opinioni diametralmente opposte a quelle espresse nella missiva. Comunque recapitare una lettera in carta bollata al Cavalier Lino Maga di Broni (all’attivo oltre 50 vendemmie e un passato di battaglie) in cui gli si chiede si vendere in bottega, praticamente a casa sua, al prezzo imposto dalle enoteche milanesi ha quanto meno il sapore del cattivo gusto (vedi questo post).
Non voglio più che tanto addentrarmi nei termini di questa discussione, ma ricordare (anche a me stesso) che intorno al “prezzo sorgente” si giocano, oltre a contrastanti idee sul commercio, questioni più profonde che riguardano il recupero del rapporto con la terra, la valorizzazione del vino, la “fiducia tra produttori e consumatori”, “l’etica della responsabilità e della cooperazione” (il virgolettato è perché cito testualmente le parole di Luigi Veronelli) e non ultimi due aspetti molto attuali: la trasparenza dell’informazione e le vie di uscita dalla crisi.
Ogni volta che si parla di prezzo sorgente c’è qualcuno che se ne esce con cose del tipo “la definizione di PS è problematica”, “dobbiamo capire cosa si intende” etc etc.
Luigi Veronelli (da artestampaweb.it)
Veronelli nella sua proposta programmatica lo definiva in questo modo: ”E’ il costo al quale il produttore vende la sua pasta, il riso, il vino, l’olio, qualsiasi alimento, sia naturale, sia manufatto, con l’indicazione, sulla confezione, del prezzo al quale è disponibile a venderli al consumo diretto.”
Quindi il PS di Veronelli era sia un valore monetario attribuito a un prodotto venduto direttamente al cliente finale sia la scelta di apporlo sulla confezione. Una definizione dunque, la sua, che conteneva già un’azione. Potremmo definirla sovversiva, e il senno di poi ce lo confermerebbe. Perché da quel lontano 2004 qualcuno ha provato a seguire il programma veronelliano, ma infine ha desistito, forzato evidentemente dagli altri attori della filiera.
La definizione del prezzo “come quello a cui è disponibile a vendere al consumo diretto” lascia la libertà al produttore, e quindi potrà di volta in volta coincidere con un prezzo più affettivo che razionale se si tratta di un vignaiolo artigianale con una distribuzione ridotta. Il prezzo che nel suo intimo, con la sua esperienza, con i suoi valori il contadino vuole ricevere per la sua opera di alto artigianato. Un produttore di grandi dimensioni difficilmente potrà esprimere un prezzo in modo così soggettivo e libero come invece può permettersi un artigiano. Semplicemente perché oltre certe dimensioni prevale la logica del bene dell’azienda sopra ogni altra. E se il prodotto nasce in modo industriale, allora il prezzo seguirà delle logiche di mercato. Analogamente se il prodotto nasce già in vista del mercato.
Un’ambiguità di questa definizione è che dà per scontato che il produttore abbia un unico prezzo di vendita. Ciò non è sempre vero ed è qui che il discorso si riallaccia con quello del prezzo da applicare nella vendita diretta ai privati.
Sull’opportunità di renderlo pubblico forse oggi basterebbe che lo sia sul web. Dal momento che il prezzo può variare in funzione di tantissimi parametri, metterlo in etichetta comporterebbe dei problemi pratici non indifferenti (vedi questo “storico” intervento di Gian Paolo Paglia).
Quindi infine mi concentro su due questioni, che appaiono legate fra loro: se rendere pubblico un prezzo sorgente, inteso come primo prezzo, unico e ben definito, se applicarlo nella vendita diretta in cantina, rendendolo verificabile da chiunque.
La lettera degli enotecari, oltre ad avere un intento di autoprotezione, vorrebbe da una parte consolidare un prezzo di riferimento (quale? Visto che fra le enoteche ci sono spesso grosse differenze), dall’altra nascondere l’informazione e nello stesso tempo negare una dignità alla vendita diretta a prezzo scevro dei costi vivi aggiunti dalla filiera a valle.
Nascondere l’informazione sui prezzi delle cose è vantaggioso solo per chi quei prezzi li conosce.
Una delle argomentazioni contro l’introduzione del prezzo sorgente alla Veronelli, che all’inizio sembra quasi convincente, ma poi se uno ci pensa su si accorge che è terrificante, è quella che poi il cliente finale confrontando il prezzo pagato con quello sorgente giudicherebbe l’onestà del venditore sulla base di opinioni soggettive, cioè se per lui il ricarico è troppo esoso. E allora ognuno avrebbe il proprio criterio e quindi verrebbe ingiustamente messa in discussione la reputazione del venditore. Analogamente farebbe arrabbiare tutti gli intermediari i cui ricarichi trasparirebbero.
Questo è un ragionamento che fa comodo solo a chi vuole arricchirsi indebitamente, perché a ben vedere se fossimo abituati a una trasparenza dei prezzi, avremmo la capacità di capire il peso e l’importanza dei vari passaggi della filiera e daremmo per scontato che imballare e sballare, trasportare, cercare, scegliere, promuovere, raccontare, immagazzinare, mescere, vendere un vino sono tutte cose che hanno un costo.
Se fossimo abituati alla trasparenza, volendo fare un’analogia con l’attualità, saremmo in grado di capire che far politica ha dei costi che in realtà sono pubblici e si possono consultare. E non ridurremmo la questione del finanziamento a un confronto ideologico ignorante i costi che ci sono, ci devono essere e in altri paesi, dove la classe politica gode di buona reputazione, sono anche molto più elevati dei nostri. Vedi questo post di Sergio Boccadutri.
Una filiera del vino senza vendita diretta a prezzo sorgente dovrebbe rafforzare le filiere indirette, ma in realtà non aiuta a rendere apprezzabile il lavoro di intermediazione e indebolisce il legame fra produttore e consumatore.
Si può obiettare che il produttore attraverso il web ha la possibilità comunque di mantenere un rapporto diretto con il consumatore. Questo è innegabile. Tuttavia poter comprare, quando ne abbiamo il tempo e la possibilità, direttamente all’origine, a un prezzo sorgente vantaggioso rispetto alle altre filiere, è un’opportunità da un lato per rafforzare la fiducia e il legame con i produttori, per conoscere la nostra terra, le persone che se ne prendono cura, e tornare a un senso più originario del commercio, dall’altro per dare consapevolmente il nostro apprezzamento (economico e non) a chi, col suo spirito imprenditoriale, la sua esperienza e la sua capacità di selezionare, permette che i buoni prodotti siano reperibili a un palmo di naso.
In generale quindi il commercio diretto è uno strumento per un’economia più partecipata.
E se riscoprissimo che in ultima istanza è dalla terra che traiamo il nostro sostentamento ricominceremmo a capire che è da un rapporto diretto con essa che forse si deve ripartire per superare questa crisi che ci affligge.
Niccolò
Giuseppe Ratti (da italiastraordinaria.it)