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sabato 31 dicembre 2011

__01_01_2012__

ho sognato di avere un blog.un blog di-vino.



ho sognato di conoscere nuove persone con storie uniche e poco formali.
ho sognato di assaggiare cibi e di vedere luoghi sconosciuti.
ho sognato di bere vini che mi portassero al di la' di me stesso. vini che fossero il risultato delle persone e della terra. senza imbrogli e senza trucchi.
ho sognato di bere vini e mangiare cibi che "non facessero rumore".
e ho sognato di scriverne e di essere letto e di trovare nuove persone con le quali confrontarmi. a volte per affinità ma non esclusivamente per quella.

poi, stordito dalle evanescenti bollicine dell'ultimo bicchiere bevuto in quest'ultimo giorno dell'anno, ho compreso che era gia' successo.

il mio blog di-vino.

e vini che non fanno rumore.
e tutti quelli che mi leggono. che mi stanno leggendo.
e le persone che ho incontrato. Fabrizio Iuli. Ezio Cerutti. Luca Balbiano. Enrico Togni. Andrea Arici. Nicoletta Bocca. Elisa Semino. Nadia Verrua. Gianluigi Bera. Laura Pero Coutandin. Silvana Forte. Nino Barraco. Francesco Guccione. Giuliano Vitton. Andrea Perino. Do’ Zenner. Filippo RizzoIvano Challier. Claudio Vaccaneo. Roberto Panizza. Di Pasquale. i pescatori di Sampieri. Lorenzo Accomasso. Gianluigi Orsolani. Camillo Favaro. Sara Carbone. Elisabetta Musto Carmelitano. Salvo Foti. Salvatore Ferrandes.
e cibi che ho assaggiato. il ragusano dop. il cardo gobbo di nizza. il plaisentif. le patate viola di montagna. il pane appena sfornato. le triglie appena pescate. il vero pesto genovese.
e vini che ho bevuto. forse troppi.
e le persone che ho conosciuto e con le quali mi confronto.Vittorio Rusinà. Dan Lerner. Pietro Vergano. Fabio D’Uffizi. Gabriele Ferrari. Fabrizio Gallino. Davide Marone. Sergio il Gastrofanatico. Lucia Galasso. Roberto Mastropasqua. Alessandro Marra. Massimo Dalma. Maria Grazia Melegari.Giulia Graglia. Marco Monaci. Carolina Luna Gatti. Chiara Martinotti. Christian Bucci. Chiara Giovoni. Slawka G.Scarso. Jacopo Cossater. Simone Morosi. Fiorenzo Sartore. Stefano Caffarri. Vincenzo Pagano. Mauro Fermariello. Sandra Salerno. Lucia Bellini. Giovanni Arcari. Gianluca Morino. Luca Risso. Monica Pisciella.

e allora, a discapito della mia indole contraria a tutto quello che e' forma precostituita, agli auguri forzati e ai bilanci di fine anno, non posso che bere ancora un bicchiere di quelle bollicine evanescenti e brindare a un nuovo anno.

un nuovo anno di-vino.
un nuovo anno di- vino "senza rumore".

martedì 27 dicembre 2011

mataòssu_chi_era_costui?

Vigneto Reinè, Mataossu Colline Savonesi IGT 2010, Punta Crena vitivinicoltori in Varigotti (SV).







Varigotti per me che sto in fondo alla campagna e ho il sole in piazza rare volte e il resto è pioggia che mi bagna, Varigotti, dicevo, fino a ieri, era solo un paesino ligure méta estiva à la page dei fighetti torinesi.

Per questo motivo me ne tenevo a debita distanza.
Ora scopro che in questo luogo a dirupo sul mare ci allignano le vigne e soprattutto un vignaiolo (Paolo Ruffino) che con mano ferma accompagna le uve sino a trasfomarsi in vino.
Mataossu parrebbe potersi tradurre ampelograficamente parlando in Lumassina.
Lumassina chi era costei?
Nessuna memoria neanche lontana di Mataossu e/o Lumassina.
Dicono che sia vitigno tipico seppur raro del Savonese.
Coltivato su cengie strappate alla montagna.
Ne viene fuori un bianco intenso nei profumi.
Mandarino e timo e salvia.
Lieve rusticità.
Incredibilmente fresco per essere un vino di mare.
Con refoli amaricanti di chinotto caramellato.
Sembrerebbe avere in nuce degli idrocarburi renani.
Leggermente maleducato sulle mucose.
Cercatelo e assaggiatelo.
Favoloso nello sgrassare le untuosità del culatello.
Questa era una bottiglia offertaci da Antoine Sollami, sbevazzata in pieno disimpegno nel retro dell’enoteca di Rosario Levatino.
Il quale quando c’è un vino nuovo di difficile catalogazione mi chiama.
Io in cambio di un piattino di salumi degusto e dico un sacco di fregnacce.
Costo poco vero?
Bonne degustation

Luigi

Sempre alla ricerca del ki.
E voi?

venerdì 23 dicembre 2011

andrea_arici_unannodopo_dosaggiozero_red_label

AndreaArici e i suoi Franciacorta,



un possibile argomento per affermare, con la forza del bicchiere, che la Franciacorta di Andrea Arici e i suoi vigneti terrazzati sono territorio per il metodo classico.
Fors’anche in procinto di divenire terroir.
Di questo Dosaggio Zero di Colline della Stella ne avevo parlato già una volta.
Poi finita la sbornia erano rimaste due bottiglie in cantina.
E avevo cercato altri luoghi di Franciacorta e di Champagne viaggiando nel bicchiere.
Sono ritornato col bicchiere a Gussago(BS) in questi giorni.
E devo ammettere che a controprova della validità delle primordiali sensazioni.
Le ha mantenute tutte.
Arricchendosi, allargandosi, ammorbidendosi leggermente.
Questo Franciacorta “scritta rossa” con trentuno mesi di presa di spuma sulle spalle e un anno di post-dergorgement.
E’ perfettamente, incredibilmente, goduriosamente pronto.
Meno lievitoso, meno citrino, meno tagliente.
Il pinot nero, solo un dieci per cento ma di classe cristallina, sotto scalpita.
Pinoteggia alla grande, con maturità e tocco alla “franzosa”.
Equilibro, eleganza, freschezza e una leggera cremosità acidulata.
E quei frutti rossi più rammemorati che trovati.
Veramente buono.
Si chiama fuori con eleganza e forza dalla diatriba Franciacorta vs Champagne.
Da bere senza moderazione.
Bonne degustation.



Luigi 

Sempre alla ricerca del ki
Andrea Arici è aiutato con indiscutibile bravura da Giovanni Arcari e Nico Danesi.

mercoledì 21 dicembre 2011

da dubai a san francisco senza mai uscire di casa

Se aprite il sito del blog francese Le “Pti journal” du Vin Naturel trovate questa dichiarazione:

Foto di Stefania Giardina


 “Les véritables Vins de Terroir permettent de rompre de manière symbolique avec les non-lieux de la mondialisation et de la standardisation.”

Mi ha fatto pensare molto ai non-luoghi in cui oggi, volenti o nolenti, siamo calati tutti.

Degustare un vino tecnico non è che un corollario indispensabile alla nostra integrazione in quello spazio senza luogo che dal mall di Pasadena, all’aeroporto di Dubai, dallo spizzico di Barberino del Mugello, all’Hilton di Mosca, dal Club vacanze di Heraklion, alla metropolitana di Singapore, dal treno a levitazione di Shangai, al Novotel di Dakar, ci riporta alla Rinascente di Piazza Duomo a Milano senza che in noi avvenga alcun shock da viaggio, un unicum addomesticato, comprensibile, tranquillizzante, amniotico e deterritorializzato.

Uno spazio in cui tutto è merce, si può acquistare in sicurezza protetti e accettati in qualità di homus economicus e senza la fatica di comprendere alcunchè degli altri.


lunedì 19 dicembre 2011

cirò 2009 'avita francesco de franco_

Cirò classico superiore 2009, ‘A Vita, di Francesco Maria De Franco, Cirò marina (KR).


Gaglioppo in rigorosa purezza.
E per mantenerla questa purezza Francesco ha provato a combattere contro i vitigni “migliorativi”.
Inseriti nella docg nell’ultimo anno.
Il suo concetto, che ho fatto mio da tempo è:
perché non lavorare con le cultivar presenti sul territorio, facendo ricerca e selezioni massali da vecchie vigne, preservando la naturale diversità genetica intraspecifica delle piante?
Perché, perché?
Perché affidarci a piante con storie di evoluzione in territori lontani e climi incomparabili a quelli in cui vengono calate?
Per fare vini scuri, densi, morbidi, adatti a tecniche enologiche a la page?
Ebbene il Cirò di Francesco, persona di onestà intellettuale e gentilezza ormai rare, non è così.
Dalle sue vigne a cinquanta metri di quota, affacciate sullo Ionio.
Produce con mano leggera sia in campo sia in cantina un solo vino il Cirò.
In cui c’è freschezza da vendere con acidità inizialmente impetuosa e scontrosa esaltata da sensazioni vegetali e tannini un po’ ruvidi.
E’ vino di colore chiaro e brillante quasi emaciato considerando che proviene da vigne con le radici nel mare.
E il calore abbacinante che non  scende neanche la notte.
Però come spesso succede la coevoluzione, il legame intenso con il territorio fa si che i vini non siano caricaturali, gonfi di anabolizzanti.
Eterea eleganza mista a rusticità ben condotta ne fanno un vino che frutteggia ma ha già in nuce sentori complessi.
Si sentono davvero i frutti di bosco, le fragoline.
E poi un po’ alla francese del fieno e leggero vegetale rinfrescante.
Legno di liquirizia, amabili dolcezze di incensi e macchia ci fanno intuire lontane terre di quasi oriente.
Da cui amiamo pensare provenga il Gaglioppo.
Francesco De Franco.
Segnatelo sulla Moleskin ne sentirete parlare ancora.
La Calabria ha bisogno di gente come lui gentile, onesto ma tenace, un guardiano della terra.
Fa anche un ottimo rosato d’antan per palati robusti e non massificati
Bonne degustation.

Luigi


venerdì 16 dicembre 2011

vinicolki rosso di cerasa 2009 guccione

Rosso di Cerasa 2009, Az. Agr. Guccione, Monreale (PA).



Nerello Mascalese e Perricone.
Il rosso di punta di Francesco Guccione.
Etichetta vergata a mano da cui evinco di aver scolato la centottantesima bottiglia di duemilacinquecentosei prodotte nel duemila e nove a.d..
Forse dovrei consultare un esperto di Qabbalàh.
Nell’eremo di C.da Cerasa il lavoro di amanuense aiuta Francesco a rilassarsi e perdersi nella natura e nel buio della notte.
Delicato di colori, intenso di profumi.
Mi ha ricordato certi vini dell’etna.
Sarà il nerello con quel profilo aromatico caratteristico.
Così profumato di pesche, di melone, vegetale.
Magro e affilato.
Educato e bevibile.
Saporito e sapido.
Figlio delle notti fredde di Contrada Cerasa a più di seicento metri di quota.
Io godo nel bere vini come questi che sradicano e invertono i luoghi comuni.
Un vino siciliano con colori chiari, alcolicità vellutata, acidità nervosa, profumi freschi.
Da dipendenza e io, sospettoso, ne avevo presa una sola bottiglia.
Sono già in scimmia.
Glu glu è andato giù.
Bonne degustation.


Luigi


Ho scritto questo post con una certa ritrosia, perchè è il terzo che pubblico sui vini di Francesco in meno di un anno.
Però mi è piaciuto così tanto.
La memoria della pace che mi aveva instillato non scemava.
Ho poi letto cose turpi (del tutto ingiustificate e diffamanti) su lui e i suoi vini e ho deciso.
Di scriverne a parziale ammenda.

Se volete leggere del Girgis Extra.
Se volete leggere del Lolik.

mercoledì 14 dicembre 2011

_bio!_bio_chè?_pensieri_sparsi

foto di Stefania Giardina

Per la colonna sonora.
Sono sempre un po’ perplesso quando voglio scrivere di bio-qualcosa.
Per tutte quelle implicazioni emozionali che si porta dietro travestite da scienza vs stregoneria.
Oggi bazzicando fra pagine vere e pagine immateriali ho provato a ragionare sull’argomento entrando da una porta laterale.
Ho provato a capire perché c’è gente, molto agguerrita a dire il vero, che è contraria o quanto meno dubbiosa del bio-qualcosa e con grandi semplificazioni mi è sembrato di scorgere questi motivi.
Mi pare che i detrattori siano un variegato popolo che ha fiducia nel progresso infinito, nelle tecno-scienze, nella modernità al di là di ogni ragionevole dubbio.
Mi pare che abbiano un presupposto, un credo, un mito fondante direbbero gli antropologi, che li giustifichi nel perseguire a tutti costi l’innovazione, per loro è fondamentale un’accumulazione continua di tecniche e  saperi, capaci di rendere per forza il futuro migliore del passato; sempre positivo e necessario il superamento del presente.
Di conseguenza il passato o è museificato o considerato con distacco come comportamento naif, stregonesco, buono tutt’al più di essere investigato da storici e antropologi ma di fatto deposto dal nuovo.
Per costoro la vita appare ridotta ad una sottile linea del presente perennemente in perdita di attualità e senso, sostituito dal futuro, una assenza di profondità temporale che dà, a mio avviso, una grossa instabilità alle capacità interpretative.



Per costoro, le tecno scienze sono sempre artefici, apriori e senza possibilità di confutarle, di un miglioramento.
In questo vedo una deriva riduzionista, una estraneità alla vita concreta, una fiducia illuministica nella capacità umana di perseguire un progresso infinito.
La perdita di valore del passato e del patrimonio di esperienze organolettiche ha spianato la strada alla modificazione del gusto e della percezione del gusto, campo di alta sperimentazione dell’industria alimentare che coniuga tutte le istanze tecniche con quelle di marketing.
Fondamentale per l’industria alimentare è il controllo e la standardizzazione dei processi produttivi e l’omogeneità dei prodotti.
Per riuscire nell’intento di fidelizzare il consumatore si è operata una profonda opera di “educazione al gusto” rimuovendo tutte le devianze organolettiche e le soluzioni di continuità nell’approvvigionamento dei beni.
Per cui lo scopo a cui l’agricoltura e la viticoltura si sono dovute inchinare non è la qualità ma la costanza produttiva, la quantità e la riduzione dei costi.
Si è operata a tal scopo una “sterilizzazione dei gusti”, una “normalizzazione” che sono strumenti imprescindibili per le produzioni industriali e i loro protocolli standardizzati.
“…siamo entrati in un’epoca in cui il gusto di ciò che resta dei vini (cibi ndr) autentici contrasta ogni giorno di più con i semplicismi estetici della sensorialità alienata.”*
Da ciò è derivata una concezione economica per cui terra e lavoro sono dei semplici fattori di produzione che aspettano di essere combinati in maniera naturale senza tenere conto di strutture economiche “embedded”, cioè incorporate nelle strutture sociali, politiche e religiose.


Per cui i detrattori del bio-qualcosa percepiscono, rovesciando il naturale senso delle cose, come giusto il processo tecnico di trasformazione e del tutto marginale se non negativo il processo agricolo, le sue leggi biologiche e i suoi prodotti ridotti a mera matrice neutra da elaborare in fase produttiva.
Per cui è ragionevole ogni intervento anche pesante che porti all’ottenimento di un risultato certo e costante nel tempo.
Sembra mancare il tentativo, a mio avviso necessario, di ricondurre gli oggettivi successi tecno-scientifici verso una visione onnicomprensiva del sapere, alla continua ricerca del significato originario.
Ossia verificare continuamente se la tecno-scienza e l’economia siano orientate verso l’uomo o abbiano preso una direzione aliena alle necessità e aspirazioni della società.
Un successo scientifico non è necessariamente “buono” in sé.
La bomba nucleare fu uno strepitoso successo scientifico.
Inoltre l’industria è diventata ormai l’unico universo di senso accettato dalla gente che preferisce credere nella “etica industriale” più che nella assunzione di responsabilità del singolo coltivatore.
Invece, non bisogna dimenticare, che la finalità ultima dell’industria non è di tipo etico volto all’ottenimento di un benessere diffuso ma all’accumulo capitalistico di beni e risorse a proprio favore.
La perdita di valore di sistemi di produzione e l’eliminazione di alimenti, sapori, antichi e consolidati ha messo la gente nelle mani del tecnico e del manager, attuali sacerdoti del gusto contemporaneo.
E le stesse cavie (i consumatori per usare un termine meno brutale) del sistema sono diventate, per effetto del lavaggio del cervello mediatico, i principali e strenui difensori di un sistema ormai avulso dalla realtà materiale e finalizzato esclusivamente alla propria perpetuazione e accrescimento parossistico.




Per la redazione di questo delirio mi sono liberamente ispirato a:
M.Aime, prefazione a Serge Latouche e Didier Harpagès “il tempo della decrescita”, Eleuthéra, Milano, 2011
*M.Le Gris, “Dioniso crocifisso. Saggio sul vino nell’era della sua produzione industriale”, DeriveApprodi, Roma, 2010
P.Virilio, “L’università del disastro”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008
A.Franceschini,”La crisi delle scienze e il bisogno di significato”, su Porthos 36, editrice Porthos, Roma 2011

lunedì 12 dicembre 2011

arbois pupillin 2003 overnoy chardonnay

Arbois Pupillin 2003, Domaine Pierre Overnoy, chardonnay.
Vin de resistance.
Jura Francia.

Salina di Arc-et-Senans

Ad Arbois nacque Pasteur il primo studioso moderno del mistero della fermentazione alcolica.
A Salins-les-Bains e ad Arc-et-Senans ci sono antiche saline con vesti illuministe, opera di Claude Nicolas Ledoux il più visionario, utopico e lisergico architetto dei lumi.
Raccontano di un occidente arcaico e di una cultura che segnerà l’intera Europa.
Tutto intorno foreste, dalle quali si traeva combustibile per le attività delle saline.
Pascoli dai quali nasce uno dei Gruyère, formaggio medioevale di origine monastica, più interessanti di Francia il Comtè.
Una macina di sessanta centimetri di diametro che sprigiona profumi e sapori di erbe inebrianti.
Capace di stagionare fino a tre anni e oltre, di una grassezza e untuosità che solo i migliori Vin Jaune riescono a sgrassare.
Vigneti.
Una piccola enclave di vigneron arroccata in questo luogo, con alle spalle il massicio del Jura davanti la Borgogna, resiste alle tentazioni di omologazione del gusto.
E continua a produrre vini ante Pasteur.
Come se l’illustre concittadino e i successivi formidabili successi dell’enologia non li toccassero.
Mi piace pensare che la salinità che esprimono questi vini derivi dalle acque termali del sottosuolo.
Mi piace pensare che le ossidazioni e acidità vertiginose servano a sgrassare la bocca dal Comtè d’etè di ventiquattro mesi.
Mi piace pensare che il folle Claude Nicolas Ledoux bevesse Vin Jaune guardando le maestranze costruire la salina.


E’uno chardonnay vinificato normalmente senza velo di flor.
Senza botti scolme.
In riduzione.
Ha profumi caldi di frutta e lontani refoli ossidativi, salini.
Ha una freschezza incredibile, l’acidità sale impetuosa, raschiante poi si allarga più morbido.
Una burrosità marginale e inaspettata.
Come polpa di pera matura ma asprigna.
Ruvido.
Poi si abbandona su florealità esauste e languide.
Così insolente, sbilanciato e scorretto da essere superlativo.
Lo abbiamo bevuto in accompagnamento alle ostriche.
Il sale di terra ha incontrato l’oceano.
Schiaffi salmastri

L’esatto opposto dell’archetipo di chardonnay.
E’ stato proclamato unanimemente vino col Ki.
Non ci sono solfiti aggiunti.
La bottiglia è finita molto in fretta.
Bonne degustation



Luigi


mercoledì 7 dicembre 2011

_anidride solforosa SO2 biossido di zolfo_

Chi è l’amico della solforosa?

Non mi importa che faccia o no male.
Gli effetti che ha sul mio corpo li scopriranno molto dopo la mia dipartita.
Mi chiedo solo perché la si usi, da quanto e con quali risultati organolettici?
In realtà se lo è chiesto molto prima di me Michel Le Gris ed è dal suo libro che ho rubato a mano bassa questi pensierini che ho il piacere di sottoporvi.
Da quando si usa?
Con certezza dal settecento o giù di lì e si usavano micce di zolfo con cui si fumigavano le botti prima dei travasi.
Non si aggiungeva direttamente nel mosto o nel vino.
Si è cominciato ad aggiungere acido solforoso ai mosti ai primi del novecento.
Subito i vignaioli cominciarono ad accusare problemi nel far partire la malolattica.
Nei vini rossi penserete.
No! Nei bianchi,  Alsaziani per giunta.
Quelli che ora sono vinificati con generosi zuccheri residui e profumi fruttati, senza malolattica, imbottiti di solforosa.
Quindi prima dell’uso dell’acido solforoso i bianchi Alsaziani venivano stabilizzati con la malolattica e il frutto era preservato facendo affinamenti corti in botti grandi e poi subito bottiglia.
E comunque si aprivano Riesling del 1843 in ottime condizioni.
Ops.
Allora spiegatemi e convincetemi perché oggi, per bere un bianco devo anche ingurgitare 100/120 mg/l di solforosa.
E’ una tassa sulla modernità sensoriale?
Siamo sicuri che i bianchi debbano essere fruttati e floreali e freschi.
Oppure, visto che sono tutti così, non abbiamo possibilità di scelta?
Antisettica e antiossidante l’anidride solforosa ha modificato il profilo organolettico dei vini negli ultimi ottanta anni.
Eppure anche prima si facevano grandi vini.
Siamo figli della solforosa e dell’errore concettuale che sottende all’intervento sanitario preventivo.
Il suo effetto sui vini è di amplificare certi profumi primari semplificando molto il corredo olfattivo, esclude le ossidazioni, brillanta e vivifica i colori.
L’uso preventivo è stato esteso a molte tappe del processo produttivo.
Ammostatura in primis e qui viene usata per una pratica che io non riesco ad accettare concettualmente.
La sanificazione del mosto che poi deve essere inoculato con i lieviti selezionati per fermentare.
Insomma neutralizzo i microorganismi  già presenti nel mosto per poi metterne altri provenienti da selezione genetica (per maggiore chiarezza, i microrganismi nel mosto all'inizio sono non saccaromices provenienti dalle bucce, i saccaromices, principali responsabili della fermentazione, sono pochissimi numericamente e l'inoculo avviene attraverso le attrezzature e gli ambienti di cantina, quindi i saccaromices sono lieviti di cantina.)
I lieviti selezionati sono resistenti alla solforosa, alcool alto produttori, glicerina alto produttori, composti aromatici alto produttori, acido acetico basso produttori, composti solforati basso produttori etc. tutto tabellato nelle schede tecniche delle ditte produttrici.
Territorio, entità tanto invocata dove sei finita?
(Mi è stato detto più volte da illustri produttori: ”per me i lieviti non sono territorio, perché sono in  cantina e non in campo!” Si vede che hanno i vigneti a Treviso e le cantine in Svezia).
Svinatura.
Travasi.
Imbottigliamento.
Nei vini bianchi inibisce la malolattica e sbianca il colore.
Nei rossi favorisce l’estrazione dei coloranti dalle bucce, però magari, poi non parte la malolattica e allora bisogna inoculare i vini con i batteri lattici selezionati (e questi sono carogne inaffidabili, perché la solforosa proprio non la sopportano, neanche i ceppi selezionati).

Non farà male, non sono certo io a dirlo, non ne ho titolo, però:
E proprio questo ciò che vogliamo?
Un vino costruito pezzo a pezzo come un prodotto industriale secondo i gusti del marketing?


Libro consigliatomi da Lucia Galasso alla quale devo anche molti spunti di riflessione e furtarelli intellettuali.
M.Le Gris, “Dioniso crocifisso. Saggio sul vino nell’era della sua produzione industriale”, DeriveApprodi, Roma, 2010

martedì 6 dicembre 2011

#VINICOLKI_

Pubblico con piacere questo post di Vittorio Rusinà alias Tirebouchon che in pieno fuori gioco, anticipa una ricerca iniziata da poco e ancora in fase embrionale, nata dalla sua passione e dal suo grande senso della frase che lo contraddistingue e da mie suggestioni oniriche.



#VINICOLKI

#vinicolki nasce dallo studio degli appunti di uno dei più grandi vignaioli che abbia mai conosciuto: Randall Grahm, un genio (for me) che sa coniugare la capacità di fare business con il suo essere visionario e percettivo, al servizio della sua azienda che si chiama Bonny Doon Vineyard e al servizio di tutta la viticoltura mondiale.
Recentemente invitato insieme ad alcuni grandi nomi del mondo del vino a Hong Kong per Wine Future, Randall ha parlato di un prossimo futuro con vini che possiedono “a life force, a sense of ch’i” che potrebbero trascendere l’attuale metodologia con cui il vino è analizzato e discusso.
A giugno era apparso un post sul LAWeekly in cui era scritto: ” Wines of terroir: they have life force or chi,” says Grahm. Noting that “it’s not just hippie-dippy, it’s demonstrable, and as they resist oxidation, they’re more stable once a bottle is opened.”
E’ da qui che qualcosa ha incominciato a frullarmi nella testa, è da qui che è nato insieme al lavoro pratico “invigna&cantina” di Luigi Fracchia il progetto #vinicolki , un progetto aperto a tutti quelli che sentono affinità con le idee di Randall Grahm, che desiderano andare al di là delle apparenze e condividere una visione, una percezione.
Luigi Fracchia ha iniziato a scrivere sul suo blog http://gliamicidelbar.blogspot.com/ di vini che secondo la sua percezione possono essere visti come #vinicolki e devo dire che condivido le sue valutazioni, #vinicolki è un esperimento, una provocazione a uscire dai soliti binari e percorrere una nuova strada.

Di seguito alcuni link con la visione di Randall Grahm (in inglese) e un post di Maria Grazia Melegari sulla visita di Randall Grahm in Italia (febbraio 2011)
http://www.harpers.co.uk/news/news-headlines/11292-randall-grahm-predicts-a-future-with-nutritional-wines.html
http://blogs.laweekly.com/squidink/2011/06/randall_grahm_bonny_doon.php
http://www.soavemente.net/soavemente/2011/02/a-trip-with-le-cigare-volant-randall-grahm-al-ristorante-ratan%C3%A0-di-milano.html
https://www.bonnydoonvineyard.com/

Vittorio Rusinà

lunedì 5 dicembre 2011

_vini_col_KI le trame 2008 chianti classico morganti

Vini col KI
Le Trame 2008, Chianti Classico docg, Podere le Boncie, Castelnuovo Berardenga (SI).


E’ un periodo in cui i vini che maggiormente mi emozionano hanno una mano femminile che ne governa la nascita.
Con un semplice e banale sillogismo potremmo dire che il vino nasce e non viene costruito, per cui chi meglio delle donne può interpretare e condurre una gestazione.
Giovanna Morganti è l’artefice principale del Le Trame.
E’ enologa con propensione alla “epochè”, alla sospensione del giudizio sulle tecniche di cui suo malgrado è portatrice.
E’ alla ricerca dei motori fini della materia, della immaterialità del fare che raramente è incasellabile nelle rigide maglie della tecnica.
Ho bevuto un vigneto ad alberello, unico, credo, nel territorio del Chianti, se non in tutta la Toscana continentale.
Ho bevuto la sua ostinata ricerca di “essere natura”.
Ho bevuto i suoi dubbi e le sue utopie.
Ho bevuto la sua ricerca di attenuare l’opacità del mondo.
Ho bevuto il territorio chiantigiano.
E, come mi succede ultimamente di verificare, i vini di chi dubita e non ha certezze da proporre come verbo, sono quelli più profondi e introversi, al limite incomprensibili ma straordinariamente ricchi e generosi.
Forse sono vini felici di essere liberi.
Questo è profondo e scattante con profumi austeri velati di nobiltà e distacco.
Di minerale, di maturazioni, di erbe.
Ho la sensazione che meno si riesca a trovare dei profumi distinti e più i vini siano interessanti.
E non si atteggiano a campioncino di profumo preconfezionato.
In bocca è morbido ma elettrizzato da un’acidità petulante e giocosa.
Buonissimo, leggero e scorrevole, scivola e ammalia e chiede un nuovo sorso per rammemorare il precedente.
Un inseguimento dei sensi gaio e appagante.
E’ così lieve, così giocato in levare.
Da bere senza moderazione.
Bonne degustation





Luigi


venerdì 2 dicembre 2011

lamie delle vigne 2008 primitivo di Gioia del colle guttarolo

Cantine Cristiano Guttarolo, Lamie delle vigne IGT 2008, Primitivo di Gioia del Colle.


Il Primitivo è vitigno curioso.
Uno dei pochi, se non l’unico che arrivato negli Stati Uniti si è trovato perfettamente a suo agio.
La cultivar è Croata e probabilmente ha risalito le coste sino in Istria e ha attraversato l’Adriatico sino in Puglia.
A Gioia del Colle (BA) è stato introdotto dai Benedettini nel millesettecento e cent’anni dopo a Manduria (TA).
Ho sempre immaginato queste terre arse e caldissime tenute in temperatura dal volano termico del mare.
Invece l’Adriatico è basso e quindi accumula poco calore, i Balcani non hanno montagne che proteggano dalla discesa dei venti polari.
Gioia del Colle è su un altopiano a quattrocento metri.
Insomma un luogo a suo modo fresco.
Con gelate primaverili che il primitivo neutralizza con una fioritura tardiva e una maturazione precoce.
Su terreni calcarei, carsici, sabbiosi.
La versione di Cristiano Guttarolo mi ha spiazzato.
Il Lamie delle Vigne 2008 è composto da parte della massa vinificata in anfora e parte in acciaio.
Zero solforosa aggiunta.
Vegetale e linfatico, pungente e asprigno, pesche e gigliacee.
Profumi in perenne fluttuazione.
Scrocchiante e rasposo in bocca, quasi resinoso.
Buono e sgrassante.
Non adatto agli amanti dei vini glicerici ed edulcorati.
E’ rimasto aperto per giorni (in frigo, non mi fidavo altrimenti) e ha mantenuto se non accresciuto il suo fascino.
Che le ossidazioni della vinificazione proteggano dalle successive e incontrollate ingiurie dell’ossigeno?
L’anfora, forse, non è figlia del terroir delle Murge però...
Bonne degustation



Luigi

mercoledì 30 novembre 2011

donne dell'aglianico del vulture_sotto la mole_torino

Il vulcano tira fuori le unghie.
Unghie smaltate Chanel Particulière.
Il lato femminile del Vulture.

Sara Carbone

Due espressioni di un territorio affascinante, anomalo, remoto, arcaico, magico.
Memorie di faglie e affioramenti magmatici, esplosioni e colate laviche che hanno modellato il monte Vulture.
Sotto pochi palmi di terra tufi scuri, pozzolane, brecce di esplosione a spigoli vivi, lapilli, blocchi lavici.
Un sud montano, sferzato dai venti gelidi dei balcani per nulla mitigati da un mare, l’Adriatico, con poca inerzia termica.

Elisabetta Musto Carmelitano

L’Aglianico si è acclimatato in questo territorio e ha mantenuto una variabilità genotipica ancestrale, figlia dei brandelli di dna delle uve Egee che ci sono al suo interno.
Nel suo farsi vino è stato accompagnato da due giovani donne, oramai di diritto nel novero delle vignaiole di razza cristallina che hanno preso per mano il mondo del vino italiano e gli hanno impresso una rapida e innovativa mutazione.
Mani gentili ma decise, idee chiare, gran capacità di ascolto.
Hanno generato vini difficilmente dimenticabili che confermano quanto l’opera umana e la sensibilità siano necessarie nel definire il concetto di terroir.
Vini così vicini (geograficamente) così lontani (stilisticamente).
Quasi lo specchio delle due Genitrici.
Eleganti, sottotraccia, bilanciati quelli di Sara Carbone.
Potenti e caustici al limite dell’insolenza ma introversi quelli di Elisabetta Musto Carmelitano.
Due facce del territorio, quella addomesticata e antropizzata del vulcano ormai spento e quella sulfurea e magmatica delle ere preistoriche.
Il 400 some 2007 dell’ Az. Agr. Carbone è vino in equilibrio, precario ma sicuro, come i funamboli.
Il frutto anticipa e si lega con i terziari, con la mineralità, con la balsamicità, con il leggero agrumato.
Tannini graffianti ma educati dalla morbidezza glicerica a sua volta smussata dall’acidità.
Una fusione degli ossimori.
Che inspiegabilmente crea armonia.
Elegante e levigato come una lava a cuscino.
Il Serra del Prete 2009 dell’Az. Agr. Musto Carmelitano per usare un’altro paragone circense è un trapezista in perenne squilibrio e in movimento apparentemente discordante, in cui solo la proiezione retinica è in grado di ricostruire un’armonia.
Giovane vino che profuma di graspo d’uva e linfa.
Scontroso, dai tannini quasi acerbi inseguiti e amplificati dall’acidità, cauterizzati dal floreale, dalla dolcezza dell’uva scrocchiante che esplode in bocca dopo ogni assaggio.
Bevibilità profonda con memoria di vini d’antan, nato per accompagnare cibo e chiacchiere.
Tagliente come una ossidiana nero pece.



Ho apprezzato molto anche il Fiano 2010 dell’ Az. Agr. Carbone giovane ma educato quasi opulento, tonificato da una acidità vivificante e il Maschitano rosato 2010 dell’Az. Agr. Musto Carmelitano, aglianico vinificato in bianco di grande impatto e spessore, ribelle e scontroso come le versioni in rosso.
Bonne degustation




Luigi



La degustazione dei vini è stata possibile grazie all’impegno ideativo e organizzativo di Davide Marone che sabato 26 novembre ha portato vini e produttori a Torino.