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venerdì 31 maggio 2013

Cui prodest? di Andrea Della Casa



Nel corso degli anni ho accumulato sul groppone una discreta serie di fiere enoiche et similia e purtroppo qualche volta c’è scappato l’assaggio difettato. Non squilibrato o a mio gusto sgradevole, proprio con palesi e oggettivi difetti/problemi. Fino a qui niente di male, le cause potrebbero essere le più disparate, cattiva conservazione, viaggio travagliato, problemi all’imbottigliamento etc..  Errare humanum estchiunque può cadere in errore. Infatti in tali occasioni (comunque e fortunatamente poche in verità) anche io ho sbagliato. Ho sbagliato sapendo di sbagliare.
Un assaggio, chiara evidente sensazione sgradevole in bocca, eventuale consulto con qualche compagno accanto e…..via col calice seguente.
Così come se niente fosse!
Perché mi chiedo? Quali collegamenti sinaptici nel mio cervello si bloccano e mi impediscono di fare ciò che sarebbe normale ovvero confrontarmi con l’artefice di questa bevanda che tanto mi ha deluso? Tra l'altro ce l'ho di fronte, non dovrei fare nemmeno una gran fatica.
Una semplice domanda, un banale dialogo potrebbero spiegare tante cose evitando pure di riproporre in assaggio al successivo avventore un calice sgradevole e rischiare di essere poi erroneamente "etichettato" in modo negativo.
Non so, forse è il non volerlo mettere in imbarazzo o il mio carattere introversamente timido o il timore che se ne abbia a male. Già perché non tutti sono capaci di ammettere l'errore e in quei casi la reazione può risultare alquanto spigolosa.
Non pensiamo di essere lì solo per assaggiare asetticamente e distribuire giudizi ma rendiamoci conto che chi propone il suo prodotto lo fa anche per crescere e il confronto, in tono collaborativo e interlocutorio da parte di entrambi, potrebbe essere una valida soluzione.
Eppure taccio. E poi ne ho il rimorso. E ciò non aiuta nessuno, ne lui produttore né me consumatore.

giovedì 30 maggio 2013

Vinissage di Vittorio Rusinà



Vinissage è il lavoro di Officina Enoica che nonostante il Comune di Asti abbia infilato tutti, espositori e visitatori, negli inferi freddi, umidi di muffe odorose di un palazzo nobiliare del centro città, è riuscito a dare luce a tanti piccoli vignaioli e artigiani del cibo.
Vinissage è iniziare la giornata con pane, pesto, olio evo, pomodorini confit e acciughe al banco di Marco di La Baita, un paradiso di leccornie
Vinissage è Rosa di Agricola Il Farneto e il rifermentato naturale di spergola e sauvignon (da urlo, solo 2000 bottiglie che comprerei tutte!)
Vinissage è il genio umile di Fabrizio Iuli che sa confrontarsi con tutti e che mi fa assaggiare un grande pinot nero made in Monferrato, il Nino 2011
Vinissage è lo chardonnay in stile francese di Cascina Bandiera, un ettaro e mezzo di vigne in biodinamica circondate da boschi in Val Curone
Vinissage è il Bolgheri Rosso, solo acciaio niente legni (miracolo!) di Carla Simonetti, giovane entusiasta di Castagneto Carducci dove la famiglia ha terra dal 1600
Vinissage è Fabrizio Gallino aka Enofaber che promuove alla grande i vini valdostani di Grosjean, in crescita da quando ha svoltato verso il naturale, applausi per la Petite Arvine, il Fumin, il Cornalin
Vinissage è Luigi Fracchia dietro il banchetto di Menti, durante un'assenza di Stefano, a versare bollicine di Durello e a spiegare a tutti quanto è buono l'Omomorto
Vinissage è il formaggio di capra con la canapa di Cascina Aris, da "sballo"
Vinissage è il Vesna Nature dosaggio zero di Milanesi strepitosa bollicina da uve Pinot Nero dell'Oltrepo Pavese
Vinissage è l'entusiasmo di Samuele di Il Calamaio supportato al banco da un Federico Malgarini in gran forma, il suo Antenato da vitigni autoctoni toscani ormai rari in viaggio verso scelte sempre più naturali
Vinissage è il Trebbiano d'Abruzzo in anfora di Cirelli, che buono!
Vinissage è la giapponese Yuuco che acquista due bottiglie di frizzanti da Marco Rizzardi di Crocizia, fra cui la Barbera e di fronte a questo quasi mi innamoro
Vinissage è il PrimoAmore di Patrizia Vanelli una robiola di capra che è fra i migliori formaggi d'Italia
Vinissage è la simpatia delle sorelle Conti che pareggia la grandezza dei loro antichi Boca
Vinissage è l'amico Mauro Rainieri che mi parla della certificazione VeganOk (solo tre vignaioli in Italia fra cui il suo amico vignaiolo Milanesi)
Vinissage è il fuoco e la passione dei biscotti e delle torte di Daniele Marziali, fornaio romagnolo girovago per vocazione
Vinissage è il dolcetto di Alessandra Bera una folgore nel cuore
Vinissage è il cortese di Paolo Carlo di Cascina I Carpini, e la sua declinazione di barbera, senza dimenticare l'ormai famosa bollicina di Timorasso
Vinissage è il grignolino "birichino" di Lajolo-Reginin e le sue buonissime barbere da vigne in Vinchio
Vinissage è il sorriso di Eleonora di Crealto, quel sorriso che ritrovi nei suoi vini
Vinissage è Marilena Barbera e la solarità dei suoi vini siciliani sempre circondata da incalliti corteggiatori
Vinissage sono le bevande alchemiche di Mauro Vergano a base di vini, erbe, chine, radici e passiti
Vinissage è la riconferma della bontà dell'Arneis di Cascina Fornace
Vinissage è Davide di Enocratia, Nadia Verrua, Pietro e Andrea di Il Consorzio, Marco Arturi, Carlo Cantono, le sorelle Brizzi, Danilo Gatti, Leo Rieser, Denny Bini, Carussin, Valli Unite, Mara Bione di I Binari, Enio, Elsa, Massimo Rivetti e Antonello Bera del Bandini, e tutti quelli che hanno partecipato a questa gran bella festa dell'amicizia in nome del vino.

post scriptum: caro Comune d'Asti è necessario trovare una locazione più adatta al grande successo che Vinissage ha da tanti anni fra le fila di chi apprezza il vino naturale e che ha seguaci in tutto il mondo grazie al web, è tempo di svoltare.

mercoledì 29 maggio 2013

Naked wine alias Vino (al ) naturale di Alice Feiring

Alice Feiring, Alessandro Mecca e Gil Grigliatti
Qualche giorno fa mi sono preso del tempo per andare a sentire la presentazione del libro “Vino (al) naturale” di Alice Feiring edito da Slow Food.
Evidentemente il mio concetto di tempo non era in linea con quello ufficiale e sono arrivato giusto in tempo per unirmi all’applauso finale e per salutare gli amici presenti.
Poco importava, tanto dopo saremmo andati a cena con l’autrice e già mi pregustavo la mia copia dedicata e autografata dall’autrice.
Tornato a casa ho letto d’un fiato il libro e devo dire che non è proprio un libro indimenticabile.
Però, e qui sta il potenziale evocativo della parola e della stampa, malgrado i contenuti siano tutt’altro che densi alcune cose e persone citate qua e la nel libro hanno intessuto connessioni molto stimolanti con i miei pensieri.

1) E’ tanto tempo che Enrico Togni si oppone alla viticultura degli industriali vista come una seconda attività, come investimento di denari altrove guadagnati, ecco, io mi univo al coro, forse per conformismo ma non capivo fino in fondo le problematiche legate alla riduzione della viticultura a processi normalizzati e affidati a dipendenti (bravi anche bravissimi ma che non sono coinvolti emotivamente) sino a che nei primi capitoli del libro la Feiring non parla per sommi capi della viticoltura Californiana e a quel punto ho capito, almeno penso.
La separazione fra viticoltura e produzione del vino in California è la norma e entrambe le fasi sono strettamente organizzate come imprese industriali a sé stanti, senza cedimenti emozionali o culturali.
C’è chi coltiva l’uva e lo fa con i minori sprechi possibili, c’è chi la vinifica minimizzando gli sprechi e le variabili cercando di ottenere un prodotto commerciabile.
Nessuna paranoia sul terroir, nessuna paranoia sul rapporto fra allevamento dell’uva e sua vinificazione, le eventuali mancanze o eccessi dei mosti sono risolte per via chimico enologica e non agronomica.
La distanza fra produttore e terra è abissale, tutto si risolve con protocolli comportamentali ottimizzati e standardizzati, ecco ora ho capito ciò che Enrico intende!
Lui aborre la specializzazione e la industrializzazione  dell’atto agricolo che porta esclusivamente alla banalizzazione commerciale della terra e dei suoi prodotti.

2) Giaceva da alcuni giorni una intervista della Revue du Vin su Pacalet omaggiatami da Giorgio Grigliatti.
Ho cominciato a leggerla mentre, quasi contemporaneamente, leggevo il succitato libro di Alice Feiring.
Scopro nell’articolo della Revue che Pacalet è nipote di Marcel Lapierre (Beaujolais) e ha conosciuto tutti i personaggi che negli anni ottanta hanno innescato il movimento del vino naturale da Chauvet a Néuport passando da Overnoy.
In parallelo Alice Feiring raccontava nel suo libro le sue esperienze con le persone e i vini di questi stessi  vigneron amici/parenti di Pacalet affiancati da intellettuali come Guy Debord e Alain Braik che hanno dedicato la loro vita al vino “libero” e “naturale” e ne sono pure morti, ahimè!
Molto interessante l’argomentazione della Feiring tratta dai pensieri di Debord in cui sostiene che il vino industriale è un vino figlio dell’immagine del mondo (in un epoca in cui l’immagine si è fatta mondo) mentre il vino vero è il tentativo di ritornare alla materialità delle cose. C’è molta filosofia in questo ma è ciò che sostengo da tempo e non solo in campo enologico e spesso l’ho fatto su queste pagine dannatamente immateriali.

3) Alice Feiring parla dei vini di Laureano Serres che ho imparato ad amare grazie a Niccolò.
Vini così poco moderni e conformisti che meriterebbero un posto al Moma di New York.
Vini bianchi vinificati in ossidazione controllata, senza solforosa aggiunta, senza controllo delle temperature, ricchi ed opulenti e decadenti, molto poco political correct.

Luigi

Ps
Io avrei preferito il titolo originale “Naked wine” (vino nudo) perché la traduzione in “vino (al) naturale” sembra un cedimento alla pudicizie piccolo borghese e conformista e poi anche perché essere nudi con i propri difetti di fronte a un bicchiere è simbolo di grande onestà intellettuale e coraggio.



lunedì 27 maggio 2013

Rosa dei venti 2010, Podere Cipolla di Denny Bini. Di Niccolò



Conosco i vini di Denny Bini da un po’ di anni.
Perché non è mai mancato a Laterratrema a Milano, che è la manifestazione che frequento da più tempo. All’inizio, si può dire che i Lambrusco non avessero ancora conquistato le luci della ribalta, ma un vignaiolo come Denny si notava, soprattutto, per questa precisione sia nel bicchiere, come nelle etichette, ma ancor più nella parcellizzazione delle vigne, ognuna alla base di un vino, quasi una microvinificazione, con l’indicazione del numero di ceppi, dei filari, del peso dell’uva e del numero di bottiglie ottenuto.
Poi i nomi.
A partire da Denny, che i primi anni immancabilmente usciva con la “a”, al “Podere Cipolla” nome simpatico e poi i nomi dei vini presi dalla nomenclatura nautica.
Vini dritti a volte quasi troppo.
Di grande freschezza. Ma anche molto intensi, a causa di quelle uve e forse dei terreni che si sa colorano il vino come inchiostro e hanno spesso densità non da poco. Ricordo la prima bevuta del Malbo Gentile in purezza Maestrale 315, che di gentile non aveva poi tanto… E il nome proprio forse un indizio lo dà.

Cosa mi spinge verso i rifermentati in bottiglia, oltre che la ovvia freschezza, il disimpegno, la dissetanza, e il mio amore per il torbido?

La vitalità.
Sotto il turbine di carbonica, fra il torbido dei lieviti più o meno sospesi si annida il segreto della vita nella bottiglia. L’arte di lasciare che le fermentazioni si svolgano nel vetro che porterà il liquido sulla tavola è arte sublime. Che sia una vera rifermentazione come in questi casi, o soltanto una coda di trasformazioni come la malolattica, se il vino è fatto ad arte, rimarrà uno spunto, uno slancio nel vino, che farà percepire vivente la materia al momento di berlo. Vita in equilibrio con sé stessa, ma a giudicare dalla digeribilità che contraddistingue i rifermentati buoni, anche con la flora batterica nostra. Se poi ci mettete alcolicità spesso moderate, ecco che ci avviciniamo a un ottimo nel rapporto benefici/alcool della bevanda bacchica.

Ma c’è un altro aspetto ammirabile del vino fermentato in bottiglia.
Esso sembra conservarsi meglio.
Più vivo e più conservabile sembra quasi un ossimoro, parlando di alimentazione.
E invece no, il rifermentato sfida gli anni senza il trucco della morte in bottiglia.
Si agita, sente le lune e le stagioni. Scalcia,esplode, si calma e si ritrae. Finché un giorno lo apri. E come un gatto di Schrödinger solo allora saprai in che stato si trova.
Quel che accade spesso è che invecchiano bene. Migliorano costantemente nei primi anni. E peccato che spesso, quasi sempre, vengano bevuti da neonati.

Per fortuna ho ritrovato questo rosato da uve Grasparossa, dimenticato su uno scaffale, con già quei due anni e mezzo sulle spalle. Un breve affinamento. Non certo un invecchiamento.
Ma il liquido ritrovato all’apertura era vivo e in movimento. Più maturo di quasi tutti gli assaggi che ricordavo di questa tipologia. La frutta croccante si accompagnava già a qualche refolo più etereo e la spigolosità della giovinezza era smussata. Così gli strati appena più complessi dell’uva cominciavano a emergere con un piccolo indizio tipico dei rosati, un leggero sbuffo di torrefazione e un cenno fine di caramello.
Avrei dovuto aspettare ancora, dice il suo creatore, ma anche così la bevuta è stata appagante e ho conosciuto un’altra sfumatura del miracolo dei rifermentati.

PS Ho poi bevuto una Malvasia dello stesso anno, anch’essa in stato di grazia. E infine una riflessione ancor più personale (come se le precedenti non bastassero): la dedica in etichetta e il fatto che proprio il rosato di casa Bini prenda il nome che racchiude in qualche modo il resto della produzione mi pare un bell’onore reso alla tipologia.
Evviva i rosati!

(e che smetta di piovere) 

domenica 26 maggio 2013

Un vin de terroir



Un vin de terroir est un vin qui relève d'un certain savoir-faire, donc d'une certaine technique. Jamais il n'a été le produit d'un pur empirisme... si ce n'est en sa toute première fois quand l'homme découvrit, sans doute fortuitement, la transformation d'une baie en boisson enivrante ! Un vin de terroir est un vin qui donne au lieu une place essentielle, allant jusqu'à reconnaître en son originalité, en sa singularité, en ses caractéristiques, la clé de son goût et la permanence de celui-ci. Le vigneron est, dans cette perspective, comparable à un accoucheur. Le vin est le fruit d'un accouplement fécond d'une terre choisie minutieusement, parfois depuis plusieurs millénaires, avec un vigneron instruit d'une tradition séculaire !

Jacky Rigaux

venerdì 24 maggio 2013

Mirco Mariotti e i vini delle sabbie


courtesy Mirco Mariotti

Devo dire che mi avevano sempre attirato questi vigneti di pianura, per lo più franchi di piede con le radici nelle sabbie.
Mi attiravano per la simpatia che ispirano tutti i marginali.
Quindi la mia era partigianeria emotiva e aprioristica.
Ebbene grazie a Vittorio Rusinà ho conosciuto Mirco Mariotti e i suoi vini sabbiosi.
E mi sono piaciuti parecchio perché sono sinceri, nudi, semplici.
Poi dopo gli assaggi, a casa, rivedendo appunti e foto è comparso uno scritto di Rigaux sulla mineralità e sulla sua percezione tattile (egli sostiene che nella eno/viticoltura massificata si è persa la mineralità tipica dei vecchi vini, messa in crisi dalle tecniche agronomiche e di cantina) e quelle parole sembrano agglutinare senso intorno alla degustazione dei vini di Mariotti.

Che sono vini esili di profumi intriganti ma che non sono la loro peculiarità.
L’esplosività di questi vini è la vivacità (acidità nella concezione di Rigaux) e la salinità (mineralità) unite insieme con una tale ridondanza e potenza da rendere la sensazione tattile piena (ma ovviamente non di glicerina o zuccheri complessi di cui ci siamo pasciuti negli anni ottanta e novanta), appagante, saziante, multisensoriale.
Mariotti con la sua agronomia e/o con l’ausilio vegetale del piede franco riesce ad estrarre minerali dal terreno sabbioso, non è un vigneron ma un minatore.

E il sorso si fa compulsivo e di grande soddisfazione e l’olfazione inutile.
“Il vino è fatto per essere bevuto non per essere annusato” diceva Jayer.
E così piccoli vitigni, in piccoli luoghi disegnano arabeschi di piacere semplice ma “profondamente” semplice e conviviale, ctonico e roccioso e saporito.







Le Turnè è il Trebbiano frizzante 2011, non macerato, con terreno alluvionale e sabbioso.










Maléstar è un Montuni 2012 non macerato, proveniente dalla stessa vigna del trebbiano.









Surliè! è un Fortana 2010 non degorgiato con 24 mesi sulle fecce da un vigneto a piede franco











il Fortana rosè stesso discorso del Surliè! è un 2012 sui lieviti, si chiamerà "Sèt e mèz”.






Kempè

Luigi

Ps
La segnalazione dell’articolo di Rigaux è di Rolando Zorzi il quale sostiene che l’autore sia un po’ anarco insurrezionalista e forse ha ragione ma nessuno, neanche la scienza e il conformismo, possono farci smettere di sognare.


mercoledì 22 maggio 2013

Sarà una incomprensione voluta




Sarà una incomprensione voluta o figlia di una comunicazione approssimativa quella che porta il discorso del naturale a considerarne i vini come ruvidi o sauvage come mi diceva Patrick Baudoin al ViVit riferendosi ad alcuni vini naturali sia Francesi sia Italiani un po’ rustici.
Patrick è un produttore bio certificato della Loira che produce vini “precisi” e dritti con metodi a dir poco artigianali.
Vini, i suoi, che escludono, nei bianchi, macerazioni fermentative e/o postfermentative o tecniche ossidative potenzialmente “pericolose”.

Comunque sia, continuo a pensare che non ci sia logica nel sillogismo fra vini “rustici” e vini naturali.
Almeno io credo.
Piuttosto ravvedo una separazione fra vini di pensiero e vini di terra.
Tra l’immagine del vino e il vino stesso.

Nei bianchi poi l’accanimento tecnologico ha portato la produzione media e il gusto del consumatore verso profumi e sapori un po’ lontani da quelli ottenibili in quasi assenza di tecnologia (al punto che De Bartoli produce, quasi su ordinazione, un Grillo e uno Zibibbo Integer differenti da i Grappoli del Grillo e dal Pietranera proprio per la volontà di non utilizzare lieviti secchi, il freddo e le filtrazioni).

Piccole modifiche dei protocolli portano a vini diversi ma non per questo ruvidi.
Cambiano le caratteristiche organolettiche e mediamente, a mio avviso, diventano più masticabili (magari per effetto dell’assenza di chiarifiche e/o filtrazioni spinte e/o un uso estremo del freddo).

Si lega a questo discorso un articolo di Jacky Rigaux che ho letto ultimamente e che riguarda l’attuale preponderanza dell’olfatto sul gusto nella analisi della qualità dei vini, l’analisi olfattiva è invenzione recente ma è diventata prevaricante su quella del sapore, del tatto.
“Il vino è fatto per essere bevuto e non per essere annusato” diceva Henry Jayer.
Forse questo spiega perché molti vini costruiti per essere profumati finiscano la loro corsa nel naso e muoiano in bocca e non aiutino negli abbinamenti col cibo.

Comunque sia, naturale non è sinonimo di rustico ma sicuramente questi nuovi vecchi vini pongono il problema di ripensare le categorie percettive e ci obbligano a masticarli un po’ di più anche in senso fisico intendo.

Queste riflessioni un po’ stantie, lo ammetto, mi son scaturite dopo l’annuncio della creazione di un padiglione bio al prossimo Vinitaly.
Il padiglione bio, oltre ad aumentare la confusione fra sedicenti naturali e pubblico, mi pare, approfondirò, un escamotage molto scaltro per traghettare l’industria verso i verdi lidi del para naturale, d’altronde il protocollo di produzione del vino bio è una emanazione enotecnica con sbuffi new age for dummies che non ha nulla a che fare con i veri vini artigiani.
Kampai

Luigi

martedì 21 maggio 2013

Côte de Champagnole 2008, Didier Gerbelle


L'origine del Gewürztraminer o Traminer aromatico è spesso stata identificata nel paese di Termeno (Tramin) nel Tirolo, anche se in realtà pare che il suo principio sia da ricercare nelle zone dell'Alsazia e del Palatinato (Renania tedesca), o anche nello Jura dove si presume ci sia una stretta somiglianza tra questo vitigno aromatico (a bacca rosa) e un Traminer a bacca bianca dal sapore neutro, il Savagnin (bacca bianca).
Il Gewürztraminer attuale è con ogni probabilità una mutazione del vitigno originario di cui si ignora però il colore della buccia.
La traduzione letterale tedesca della parola tedesca Gewürz è "speziato" ma in questo contesto significherebbe "profumato". Infatti Traminer Parfumé, Traminer Aromatique e Traminer Musqué sono sinonimi usati in passato per identificare questo vitigno.



Il Côte de Champagnole 2008 di Didier Gerbelle (gewürztraminer in purezza) è un vino secco anche se la bottiglia da 50 cl. potrebbe trarre in inganno, e grazie alle sempre preziose informazioni di Enofaber scopro che è anche un vino ormai fuori produzione. Un passaggio col naso sul calice e mi torna in mente all'istante il periodo natalizio, note agrumate e di frutta secca mi riportano un folgorante ricordo di giorni dicembrini. E poi ancora pera e soffi di silice.
Si dice che il gewürztraminer e l'aroma di litchi vivano in simbiosi. Io ho assaggiato una volta sola il litchi e mi ricorda il limone ma con una pungenza molto meno penetrante. Nelle evidenti note agrumate che emana, seppur in modo non palese può ricordare anche questo frutto tropicale.
Netta la sensazione nocciolata in bocca, non troppo morbidosa, cinta da un'acidità tagliente e una mineralità rocciosa, dritta, entrambe appena smussate dalla chiara aromaticità. Teso, con buona verticalità e slancio, la vendemmia tardiva gli dona anche una giusta polposità materica.
Bottiglia che conferma le ottime capacità di questo giovane vignaiolo.


lunedì 20 maggio 2013

Domenica pomeriggio di fine enodissidenze


All'ennesimo giro incontro degli amici con in mano un bicchiere di Merlot 2003 di Dario Princic.
la voglia di giocare, un intuizione e così al volo mi viene da dire: "qui oggi ci sono, secondo me, tre tra i migliori Merlot italiani" (forse è meglio che sotto effetto combinato di stanchezza e alcol stia zitto).

Comunque sia, trascino i tre ignari e incolpevoli da Enrico Togni e gli dico:"arrivo subito".
Mi precipito da Silvana Forte de Le Due Terre, non c'è, è già in autostrada con la prua puntata verso Prepotto, vabbè ha lasciato una bottiglia di Merlot 2010 sul banchetto, l'afferro e la porto da Enrico Togni.
I tre amici mi guardano un po' allibiti arrivare con la bottiglia, dopo di che inizia una veloce quanto aleatoria degustazione volante dei merlot.

Millesimi diversi, due Friulani e un Valcamonica, versati in bicchieri da rosolio (unica pecca delle Enodissidenze).
E cominciano le danze.
Si sente come una assonanza fra i conterranei, una vivacità (freschezza) cangiante che traspare già al naso, una anticipazione delle sferzate acidulate ma golose.

Princic 2003, per via del millesimo agè, spinge come un gregario in fuga con una acetica alla francese e una freschezza in corpo ruvido quasi animalesco e terroso, minerale e ventoso.
Le Due Terre 2010, il più saintemilionesco dei tre, ci fa piombare in una torrefazione, caffeoso, elegante con ventate di vivacità e mineralità e echi lontani di mirtilli acerbi.
Il Merlot Cav. Rebaioli 2009 di EnricoTogni al cospetto di tanta nobiltà appare il più morbido e qualcuno diceva di sentire del vegetale (connotandolo come negativo) e questo a me faceva un po' girare i cabasisi, perchè il vegetale nel merlot di Togni, pota! Non l'avevo mai sentito nè troppo presente nè negativo
Comunque, era quello meno terziarizzato, ancora giovane di profumi fruttosi e indulgenti rotondità.

Nessuna graduatoria di merito dei vini, inutile quanto aleatoria, tutti primi al traguardo a testimoniare la passione infinita e la capacità dei tre vigneron che in una classifica di umanità veleggiano alti e i loro discorsi e i loro atteggiamenti mi convincono ogni giorno, che gente “vera” oltre che vini “veri” ne esiste ancora e sono contento di averli conosciuti.
Kampai

Luigi


Ps
Compagni di avventura Sara Roccutto e Vittorio Rusinà

domenica 19 maggio 2013

La vera sorpresa delle Enodissidenze? Il vino perfetto? No! I quasi imperfettibili sottoli di La Baita



Davanti al loro stand ci siamo passati davanti decine di volte ignorando la cornucopia di zucchine, cavolifiore, carote, peperoni turgidi e colorati come appena colti e messi lì crudi con un filo d’olio.
Fino a che l’istinto carnivoro ci ha portato da Valli Unite e i loro ottimi salami e teste in cassetta che erano vicini di postazione (in parte a Valli Unite in camuno, cit.) dei La Baita ed io con la coda dell’occhio li ho notati.
A quel punto col tatto che mi è proprio ho cominciato, senza chiedere se potevo o no, a piluccare dai vassoietti, le verdurine sottolio.
Mi aveva colpito l’aspetto turgido, il colore vivo e croccante, che emanavano freschezza prima ancora di averle mordicchiate.
Poi le ho assaggiate e in bocca è stato una esplosione di sapori nitidi, di scrocchiantezza di verdura appena colta.

E poi il liquido di conservazione!
Era delicatamente sweet and sour, in fondo un po’ di aceto come una lontana reminescenza, un po’ di pigato che fusi col blando zucchero e l’olio evo facevano uscire la testure organolettica di verdure che neanche nel mio orto, con fatica immensa, riesco ad ottenere.
A quel punto un capannello, che Ezio Cerutti ha definito meritevole di essere considerato come “adunata sediziosa”, si è formato di fronte agli ignari e leggermente attoniti espositori.
Al terzo assaggio, ideona di Vittorio Rusinà e chiama a raccolta Lucia Bellini (che era  in parte al ghiaccio al banchetto di Arcari e Danesi, Camossi e Arici cit.) la quale accorre con un Franciacorta Saten Arcari e Danesi.

E si sbicchiera e si assaggiano le trombetta (zucchine liguri, raccolte mignon e deliziosamente croccanti), i carciofini superlativi e poi le varie verdure della Giardiniera “monumentale”: cavolifiore come appena colti, carote che resuscitavano anche i reduci della serata “Lambruschi dissidenti”, peperoni che a Carmagnola se li sognano, sedani da viaggio lisergico, il cipollotto orgasmatico.
E si beve Saten e loro i La Baita preparano delicatessen con i pomodorini (non più di un centimetro di diametro!) su letto di patè di olive e spruzzata di pesto.
Ormai il corridoio era invaso e bloccato da riottosi e anarchici mangiatori/bevitori rumorosi e infervorati e unti di olio.

Nel bailame il Sig Marco Ferrari che manteneva un aplomb molto Britannico mi spiegava che sono in una valle parallela alla costa a circa settecento metri slm, mi raccontava anche, sempre tartinando e concedendosi qualche sorso di vino, dei loro quattromila ulivi di Taggiasca molti dei quali secolari e dei due ettari di terrazzamenti dedicati agli ortaggi.


Della fatica nel mettere a punto i tempi cottura delle verdure.
Del fatto che colgono e trasformano senza mettere le verdure in frigo.
Del fatto che il liquido di conservazione deve avere un PH minimo e lo ottengono, affinchè sia più delicato, sostituendo l’aceto con il vino.
Del fatto che mettono il loro ottimo olio evo di Taggiasche nelle confezioni.
Del fatto che tutto quello che invasettano lo producono loro con metodo biologici.
Del fatto che refrigerano le macchine per produrre il patè di olive per evitare ossidazioni eccessive.

Del fatto che non si percepisce neanche un vago sentore di rancido e non ci sono ossidazioni incontrollate ne imbrunimenti nei colori.




Alla fine abbiamo fatto un secondo giro con Sara Roccutto, questa volta con il Franciacorta rosè di Andrea Arici 0dosaggio con identiche se non accresciute soddisfazioni.
Io ho poi fatto la spesa e ho cenato in famiglia con le trombetta e la giardiniera e lo S’cett 2011 di Crocizia.
Enodissidenze! perché non c’è ogni settimana?
Kempè

Luigi


Ps
Chi dice che è un mestieraccio fare il vigneron non ha mai provato a fare l’ortolano.

























Marco Ferrari e Gianni Camocardi

venerdì 17 maggio 2013

VIRUS di Eugenio Bucci

E poi mi è capitato di bere questa cosa qui 
e mi si è bruciato l'hardware del cervello perché il software Frizzante Dei Colli Trevigiani 280 slm di Costadilà si presenta
come un innocuo Prosecco+Bianchetta+Verdiso rifermentato in bottiglia con 15 giorni di macerazione sulle bucce, mentre in realtà è una specie di Baco Del Millennio che blocca tutto e sullo schermo appare solo la scritta:  


 IO SONO 280 SLM E TU DEVI
BERE BERE BERE BERE BERE BERE BERE BERE BERE...

e premo disperatamente ESC e tento un riavvio e niente, sono stato resettato, rimasticato, sputato, ripulito, candeggiato, riprogrammato e rilasciato a galleggiare in un vuoto pneumatico che assomiglia tanto alla pace dei sensi e non è oblio ma stupore continuo.
E così, pacificamente, mi stupisco quando è così difficile stupirsi, bevo (è questo virus nel corpo che me lo ordina) una cosa frizzante macerata sulle bucce (nota 1) che sembra incrociare magicamente tensione acida, potenza di frutto e ampiezza olfattiva. Un Prosecco (?) che è meglio lasciar scaldare nel bicchiere, che più ti avvicini al fondo della bottiglia e più la consistenza pare aumentare. Una Prosecco Cosa Frizzante dalla schiena drittissima, dal carattere terrigno che entra in bocca e mixa CO2 e tannini e acidità e controlla il tutto col velo della dolcezza del frutto, che lascia percepire ogni singola componente e la lega, che unisce gli opposti e li fa lavorare insieme.
Questo Fizzy-Orange è una bibita. Nel senso che io Bibito e Bibito e Bibito e non mi fermo più.
Attenti al contagio: 92/100.

P.S.: in una casella vicina nello scaffale degli assaggi, etichettabile, diciamo, come semplicemente ultraorange-Fizzy-Folk-Alternative, è da mettere l'ultima sana/follia di Alberto Carretti/Podere Pradarolo, quel Vej Metodo Classico che ha rotto ulteriormente i confini della mia fragile volontà tassonomica.
Ma questa è un'altra storia.

Nota 1: è da notare come le categorie nel vino nella loro rassicurante litania Frizzante/Bianco/Rosato/Rosso/Dolce assomiglino sempre più a delle bolle di sapone, a una serie di insiemi A-B-C-D-E che collidono, combuttano, si mischiano, si meticciano. E' come guardare un mappamondo e vedere i confini liquefarsi, le particolarità di ogni staterello che per osmosi passano in quello accanto. Metodologicamente un tentativo di catalogazione odierno dei vini assomiglia al melting-pot lessicale della sezione Recensioni di una qualsiasi rivista di musica contemporanea dove l'incasellamento di un buon numero di dischi scivola dall'iperdescrittivismo al puro neologismo alla resa totale (cito a caso: psycho-shoegaze; folktronica; industrial techno ambient pop; doom ambient-dub; qualche volta, tristemente, rock). 
Poi, certo, al ristorante capita ancora che qualcuno ti chieda: "Bianco o rosso?

Sono qui ad annunciare con rullio di tamburi l’ingresso al Bar di Eugenio Bucci


Sono qui ad annunciare con rullio di tamburi l’ingresso al Bar di Eugenio Bucci.
Lo faccio con gioia mista ad un certo timore reverenziale perché il blog di Eugenio, antecedente per nascita a questo, è uno di quelli a cui io guardavo con invidia e ammirazione e su cui leggevo avido e attingevo stimoli e referenze.
Poi con l’arroganza tipica degli sventati Niccolò ed io gli abbiamo chiesto di collaborare a gli amici del bar.
Incredibilmente Eugenio ha risposto in maniera positiva e lo ha fatto di persona quando ci ha incontrato per la prima volta, casualmente, a Torino durante le Enodissidenze.
Non possiamo che essere lusingati dalla sua frizzante presenza e siamo sicuri che gioverà a tutti noi, scalcinati e indisciplinati redattori di questo foglio immateriale, la sua grande cultura enoica e la sua caustica penna (tastiera).
Tanto siamo così arroganti e sconsiderati che non temiamo alcun confronto!
E che il vento soffi sempre al nostro giardinetto e si increspino spume vinose.
Fra una mezzoretta verrà pubblicato VIRUS di Eugenio Bucci
Stei tiuned
Kampai

giovedì 16 maggio 2013

Enodissidenze di Vittorio Rusinà

courtesy Simona Gallo
Enodissidenze è le decine di giovani di Officine Corsare in maglietta rossa che fanno sì che questa manifestazione dedicata al vino naturale sia possibile, sono per me insieme alla loro guida enoica Marco Arturi il simbolo di un'Italia che è diversa dalla pochezza di politici, banchieri e cortigiani che la circonda, che vuole cambiare, che vuole essere libera e vera.

Enodissidenze è la signora Silvana di Le Due Terre che mi dice essere qui non tanto per fare business ma quanto per testimoniare con la qualità dei loro vini l'appoggio al progetto di questa gioventù, pronta a dare una mano l'anno prossimo a cercare uno sponsor tecnico per calici più ampi.
Enodissidenze è Luigi di Crealto, poeta e derviscio nei tratti seri e orientali, pronto a condividere con entusiasmo quasi trattenuto nell'apparenza ma percettibile nel cuore, la grandezza della semplicità del suo grignolino e delle sue barbere fra cui spicca il volo quella affinata in giara.
Enodissidenze è Dario Princic che spiega che cento anni fa il Collio era un deserto, la prima guerra mondiale aveva lasciato solo distruzione, poi ci fu la lenta ricostruzione di vigne, frutteti e campi, poi ancora ci fu una terribile gelata, e poi ancora ricostruzione faticosa quindi vennero i signori istruiti dalle città a vendere la chimica e il diserbo ai contadini, a far leva sui soldi, sull'avidità e portando un inquinamento dei suoli e delle acque che fa impressione...Dario Princic lo storyteller del Pinot Grigio e della Ribolla (segnatevi 2011).

Enodissidenze è i ragazzi di Fornace in grado di produrre finalmente un Arneis naturale da lode, da Santo Stefano Roero presto everywhere.
Enodissidenze è i tatuaggi camuni di Lucia Bellini.
Enodissidenze è la birra Clandestino di Carussin che è finita.
Enodissidenze è la signora di Valli Unite che parla una delle molte lingue del Mali e ha un dolcetto da lode.
Enodissidenze è il ristoro "corsaro" in grado di soddisfare la mia fame atavica con zuppa di cicerchie e fave, piadine vegetariane e non, risotto asparagi e gorgonzola...tutto buono, tutto condiviso con gli amici seduto sui tavoli all'aperto contro il muro all'ombra del Sermig, fra tutti Giovanni Canonica e famiglia, gente semplice, gente contadina nonostante le preziose vigne in Barolo.

Enodissidenze è il succo di mele offerto da Elisabetta Dalzocchio, buonissimo.
Enodissidenze è il Barolo di Beppe Rinaldi così buono che...
Enodissidenze è i frizzanti emiliani di Marco Rizzardi (Crocizia) e di Denny Bini, due vignaioli che stimo per l'alta qualità naturale e per i prezzi equi dei loro vini, vini che dovrebbero stare in ogni cantina degna di questo nome.
Enodissidenze è il Rosato di Enrico Togni.
Enodissidenze è Patrizia Vanelli e i suoi formaggi di capra
Enodissidenze è un bicchiere di Gavi Filagnotti Cascina degli Ulivi bevuto a fine giornata con l'amica Sara Rocutto da Pordenone.
Enodissidenze è la capacità degustativa di Luigi Fracchia che comprende subito l'alta qualità dei carciofini, della giardiniera e degli zucchini trombetta degli amici liguri di La Baita, grande scoperta gastronomica.
Enodissidenze è Gianni di Officina Enoica e il suo entusiasmo, un partigiano del secondo millennio
Enodissidenze è scoprire che il moscato passito di Ezio Cerruti è perfetto come aperitivo magari con una cappasanta o un'ostrica.
Enodissidenze è i nebbioli nordisti delle sorelle Conti
Enodisisdenze è anche Niccolò Desenzani, Eugenio Bucci, Gil Grigliatti, Mauro Cecchi, Marilena Barbera, Mariachiara Montera, Fabrizio Roych, Carlo Cantono, Marco Benna, Gigi di Scannabue, Matteo del Contesto, Celeste delle Scodelle, Daniele Marziali, Bruno Boveri, Stefano Cavallito, Fabio di Zucca e Melone, Davide di Enocratia, Matteo di Casa Slurp, Giorgio Grigliatti e tutti gli amici che c'erano.


mercoledì 15 maggio 2013

Garganega e vulcanismi



Il Funambolo
splendeva tutto camminando sulla sua fune, sotto la luna,
con una superba destrezza che dissimulava il rischio e la
fatica, e perfino il travaglio dell’arte.
E i suoi movimenti, quasi oscillasse su due lievissime
ali,
e quel timore in noi: ”cade, non cade”, ”cade, non cade”,
diventava un canto immenso, invulnerabile, profondo
che colmava di fiducia la notte intera, e il tempo tutto fino
al futuro più remoto.
Che colmava di gioia perfino il sonno di quanti già dormivano
sotto le verande di legno, sui balconi, sulle terrazze o distesi sull’erba.

Ghianni Ritsos


Appunti sparsi fra Villa Favorita, ViVit e Sorgente del Vino.
In queste tre occasioni ho assaggiato Garganega di Gambellara e di Soave e le sensazioni organolettiche che ho percepito mi hanno posto delle domande alle quali ho risposto empaticamente così.
Gambellara figlia di una doc minore, come spesso accade (in Francia nel Beaujolais, nella Loira, nello Jura), a causa della sua posizione ancillare ha stimolato i produttori verso la sperimentazione e la ricerca e i vini mi sono parsi molto coerenti tra loro e molto distanti dai vicini di Soave (sensazioni, percezioni e non assaggi sistematici, sia chiaro).
Più materia; territorio trascinato dalle bucce nel liquido, intensità e mineralità di sale, mista a maturazioni calde quasi ossidanti, timbri eterei e affumicati nei vini dei ragazzacci di Gambellara.
Un gioco affascinante fra eleganza e trasandatezza.
Un’enologia Wabi Sabi.
Un gioco iconoclasta.
Un gioco in levare (solforosa e interventi enologici) per avere di più.
Come il funambolo di Ghianni Ritsos in perenne alternanza fra l’equilibrio e la caduta rovinosa.
Mi sono piaciuti molto i vini di Gambellara di Stefano Menti e Davide Spillare, il primo più timido nelle sue azioni dettate dalla responsabilità di una azienda storica di famiglia, il secondo mosso dall’incoscienza della gioventù.
Il territorio spremuto dalle mani dei vigneron.
Mi sono piaciuti anche i Soave di Filippi, molto francesi nel loro nitore delle vinificazione in parcelle, pulizia ed eleganza sono il loro obiettivo.
La sensazione è stata, però, che l’eccesso di precisione alla fine svuoti di senso perché ci si ostina a ricercare la forma e non il contenuto, l’involucro è visto come fine ultimo.
Ma sicuramente sbaglio e forse a me in questo momento della mia vita piacciono un po’ di più i vini leggermente imperfetti e ruvidi che meglio si confanno alla mia umana imperfezione.

Ho assaggiato a più riprese:







Giovanni Menti
Monte del Cuca 2010 (macerazione di 40gg)
Riva Arsiglia  2011 (vigne di 60 anni)
Paiele 2011


















Davide Spillare
Rugoli vecchie vigne 2011 e 2012





















Filippi
Castelcerino 2011
“Vigne della Bra” 2010
Monteseroni 2008






Kampai

Luigi