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mercoledì 29 giugno 2011

chi_è_l'amicodelle_ossidazioni?_II°parte

Chi è l’amico delle ossidazioni? (seconda parte)


Jura.
Savagnin.
Pierre Overnoy il poeta della botte scolma.
Basterebbe questo per chiudere il post.
E sognare spiagge oceaniche d’inverno.
Ossidazioni su corpo fresco, acidulo, naso da fino manzanilla.
Verticalità assoluta e intensità.
Soffi salini sugli scogli.
Mucose leggermente maltrattate.
Poi lungamente soddisfatte dopo i primi attimi di sconforto.
Chiama a gran voce ostriche e Comtè.
Non male con le acciughe del Cantabrico.
Ancora!
La bottiglia era da 50cl!
Maledizione!


Luigi

Arbois Pupillin, 2003,  12,5% vol, Appelation Arbois Controlée, Maison Pierre Overnoy mis en bouteille par G.a.e.c. Emmanuel, Adeline, Aurelien Houillon a Pupillin, Jura, France

lunedì 27 giugno 2011

pinotmeunier_loira_in_una_serata_da_dimenticare

Prova dirmi cos’è questo?


Alla fine di una cena in cui avevo drammaticamente sbagliato la scelta del vino (un bianco buonino ma un po’ triste come certi temini delle medie o certi articoli di cronaca o certi post).
Arriva l’oste con un Borgogna rosso e mi dice: “tè saggia questo”.
Mia moglie mi dice (ho creato un mostro e adesso devo pure dissetarlo): “te lo avevo detto che un Borgogna rosso fresco andava benissimo sui piatti che avevamo scelto, di sicuro meglio del bianco che hai ordinato” (umiliazione massima e caduta verticale dell’ego).
Non pago e con sottile ghigno satanico, ormai io ero in piena depressione, l’oste mi dice:
“tè che scrivi di vino (tanto tutti lo fanno) e dici di capirne, dimmi cos’è questo?”
Panico, volevo scappare (lasciando mia moglie all’oste, naturalmente).
Però signori si nasce e sono rimasto lì a farmi umiliare, aggrappato al tavolo che ondeggiava come un gozzo nel mar di sicilia, con un sorrisetto ebete tenuto su da un rictus.
Mi versa un liquido scuro e violaceo da una magnum.

l'oste impertinente


Roteo e penso, non potevo stare a casa, stasera c’era CSI New York!
Annuso e penso c’era anche Doctor House!
Pepe nero al naso maturo, frutti ma tanto, tanto pepe e sentori di legni di nobili e un chè di  verde, vegetale, linfatico.
In bocca è pepato e rotondo, caldo e fruttato, un chutney piccante di ciliegie e mirtilli.
Spezie e rudezze e dolci promesse.
Bevibilissimo.
Buonissimo.
Penso, ripenso, scarroccio, tracheggio e gigioneggio (speravo che mia moglie si sbilanciasse e dicesse lei prima di me una sciocchezza) poi, visto che sono afflitto da incontinenza verbale sentenzio:
Francia, borgogna, pinot noir.
Invece è:
Francia (giusto), Loira (sbagliato), pinot meunier (sbagliato).
Mi sa che l’esame non l’ho superato.

Bonne degustation

Luigi

Puzelat-Bonhomme, le rouge est mis, Vin de France, Pinot Meunier 2009 da vigneti dell’Orléanais condotti in biodinamica, 12,5%vol, barrique no filtrazioni.

mercoledì 22 giugno 2011

ezio cerruti sol moscato passito Castiglione tinella

Gli uomini dietro i terroir

Ezio Cerruti.
Il Moscato.
Il  sacrificio di un Terroir *.
Castiglione Tinella (CN), grand cru del moscato.
Un occhio invidioso ai nobili nebbioli dei vicini e le mani sul moscato bianco di Canelli.
Un mare di foglie verde smeraldo, ordinano ossessivamente in righe il territorio come in un disegno di un Le Notre delirante.
Vigneti ovunque anche in aree praticamente pianeggianti.
Paesaggio antropizzato a livelli altissimi.
Rari ciuffi di alberi e canneti.


Il Moscato (l’uva) è la gallina dalle uova d’oro.
Il Moscato (il vino spumante) è prodotto industriale figlio dei frigoriferi, della chimica/tecnica enologica, della metallurgia e dell’impiantistica.
La vocazione del territorio e l’intimo rapporto fra le piante e il clima e il suolo che determina le caratteristiche dei vini è inifluente.
Importano solo le quotazioni dell’uva e le quantità massime producibili.
Diserbanti e sistemici in vigna per ridurre le ore di lavoro per ettaro.
Chimica in cantina per standardizzare le masse di mosto e produrre uniformemente.
Polivinilpolipirrolidone PVPP per “candeggiare” i mosti ingialliti.
Una reazione a questa distanza fra agricoltura, territorio, uomo, vino ha portato Ezio Cerruti a dissociarsi e a cercare “… un modo di entrare nella realtà, anzichè dalla porta, dal tetto, dal camino, dalla finestra.” G.Rodari**.
Con l’incoscienza di un bambino ha cercato di rifondare la sua figura di agricoltore e vignaiolo guardando indietro ma anche lontano con fughe di senso e oniriche interpretazioni della tradizione.
Come sanno fare in pochi Ezio ha inventato una tradizione.

Colline ripide di argille chiare con sassolini di calcare bianco danno uve con profumi intensissimi.
Moscati potenti ma fini, aromatici fino all’eccesso.
Fino a diventari amarostici e abrasivi.
Il calcare stressa il portainnesto sino alla clorosi ferrica.
Molto pragmatismo e sensibilità e poca chimica in vigna, filari inerbiti, diserbo sottofila meccanico, zolfo, rame, leggera defogliatura per aerare i grappoli serrattissimi e compatti.
Ha inventato (in questo areale ovviamente) il moscato passito e fa solo questo vino con accanimento e applicazione e assoluto rifiuto della tecnologia.
Una catarsi.
Vigneti ripidissimi a est (per preservare freschezza), taglio del tralcio, appassimento in pianta, vendemmia in doposci a fine novembre, pressatura con Vaslin ad asse orizzontale, raccolta del poco mosto, niente solforosa, fermentazione spontanea in barrique esauste, controlli periodici, travasi, quando tutto si ferma (tre o quattro anni), riunisce la massa, aggiunge pochissimo bisolfito (40/50 mg/l), imbottiglia, spesso attacca a mano le etichette.
Dalle mani di questo sognatore nasce un vino anomalo e profondo, nervoso e generoso come l’autore, sfaccettato e sensibile, ricco ma non opulento, dannatamente bevibile, dannatamente mediterraneo, dannatamente Glocal.


A Castiglione Tinella, in casa Cerruti, il sabato della mia visita, sono state stappate molte bottiglie, dal Barolo di Giuseppe Rinaldi (senza etichetta, quello che si scambiano tra di loro, impagabile) al bianco di macerazione che Ezio fa, solo per suo consumo, con un blend di Riesling (suo amore e suo futuro passito), Semillon, Chardonnay che io ho trovato buonissimo e bevibilissimo sino a due annate di Sol 2007 e 2004 che Ezio ama definire didattiche.
Il 2007 è un Botritis da annata calda, il 2004 è una fortuna che esista, vista l’inclemenza dell’annata.


Sol 2007, tropicale è spremuta densa di albicocche essicate e in marmellata (quando è calda e si aspetta di invasarla) e fichi e datteri (qualche rara palma si scorge nei giardini dei notabili di Langa) e carruba, mediterraneo se non insulare dalla beva rinfrescata da un graffio vegetale (marchio di casa Cerrutti).

Sol 2004, nordico quasi secco, agile e fresco, toni erbacei di salvia e albicocche appena mature, mentuccia, sognavo climi continentali e fegati grassi del Périgord (ma non ditelo ad Ezio è vegetariano con derive vegane) oppure del Roquefort fermière.


Ezio Cerruti e Fabrizio Iuli

Con lo sguardo un po’ trasognato e distante sempre alla ricerca di insegnamenti dalla natura e dai vini sia suoi sia quelli degli altri,  mentre il vento (il marino?) spazzava con intensità il cortile della costruenda boutique winery, mi è sembrato il custode di un faro nella notte del moscato.

Ezio Cerruti ama citare questa frase di Claudio Magris in Microcosmi, che vorrebbe far scrivere su un muro della cantina:
“…in questa accademia non si insegna niente, ma si imparano la socievolezza e il disincanto. Si può' chiacchierare, raccontare, ma non è possibile predicare, tenere comizi, far lezione".

Io per non sembrare meno colto, da Microcosmi ho scelto:
“Viaggiare, come raccontare - come vivere - è tralasciare. Un mero caso porta a una riva e perde un’altra.”

Bonne degustation

Luigi

*questo titolo è mutuato da quello di S.Cogliati “Champagne. Il sacrificio di un terroir”, edizioni Porthos, Roma, fatte le dovute proporzioni la situazione è molto simile.

**citazione brutalmente prelevata dal blog del mio amico e mentore Vittorio Rusinà alias Tirebouchon alias cavaturaccioli sabaudo.

lunedì 20 giugno 2011

verdebiancorosso_panizzamussobressan


Un pesto artigianale di Roberto Panizza (Rossi).
Una pasta artigianale di Mauro Musso.
Un Pinot Grigio 2006 di Fulvio Bressan.


La cena era pronta, il godimento assicurato.
Non ricordo soddisfazioni maggiori di quelle provate ieri sera.
Tre persone diversissime che danno vita a tre prodotti intensi e sublimi.
Hanno un insano attaccamento alla qualità e alla naturalità e alla digeribilità degli alimenti.
Il verde smeraldo sul pallore dei tajarin, il ramato del vino ed eravamo in odore di Unità d’Italia.

Roberto Panizza mi ha svezzato con i suoi pesto che scendono in terra da marte per il nostro sollazzo.

Mauro Musso è uno di quei personaggi “orizzontali” abbiamo conoscenze comuni ma non ci siamo mai incontrati, la sua pasta mi è stata consigliata e regalata da Ezio Cerrutti (altra anomalia genetica langarolo/piemontese) se la trovate non fatevela scappare.


Fulvio Bressan l’ho conosciuto a Terroirvino, i suoi vini mi hanno schiaffeggiato le narici e la memoria olfattiva del pepe dei suoi rossi non è ancora svanita.
Anche il pinot grigio inanellava in mezzo a idrocarburi e fruttato e vegetale e linfa, del pepe verde intenso e rinfrescante.



Grazie.

Luigi



Casa dei Tajarin di Mauro Musso, Viale Chierasca, 94, Alba (CN)
Tel. 0173/363575

giovedì 16 giugno 2011

cascina iuli Montaldo val cerrina al barabba malidea nino

Chi sono gli uomini dietro i terroir?

L'accanita perseveranza nel ritenere la barbera un vitigno nobile, l'utopia del nebbiolo del monferrato, un po' di borgogna il tutto in salsa rock.
Mi ripetevo queste parole come un mantra, cullato dall’ipnotica musica di Smog nel tragitto fra Torino e Montaldo, Val Cerrina (AL).
Arrivando da Torino le colline alla destra mi accompagnavano come bianche scogliere sul mare color mercurio delle risaie.


da sin Ezio Cerrutti e Fabrizio Iuli

Terre bianche snudate dagli aratri, boschi.
Un territorio di confine fra la pianura del Po e le colline del monferrato che da qui dilagano verso sud sino all'appennino ligure.
Antico, selvaggio, fascinoso, senza orridi capannoni nei fondi valle.
Fabrizio Iuli mi aspettava in cima alla salita che dal fondo valle porta a Montaldo.
Quaranta case, su una sella fra due colline, con in mezzo la Chiesa.
Intorno boschi di acacie e macchie di biancospini in fiore.
Sono rimasti pochissimi vigneti, ultimi custodi di un territorio, radicati su una terra di argille chiare con blocchi di marne grigie affioranti.
Orme di cinghiali.



Sguardo trasognato, aria stropicciata, parlata lenta e voce graffiata come se provenisse da lontano.
E’ un giovane vigneron della nouvelle vague che guarda indietro con occhi disincantati e senza troppi condizionamenti né famigliari né ambientali.
Chè qui di terroir non si può parlare, solo di territorio.
Le pratiche umane consolidate sia agronomiche sia enologiche sono ormai estinte.
Fabrizio ha l’accanimento di chi si sente i piedi come radici e l’illusione di essere nel centro del mondo per cui, malgrado sia uno dei pochi superstiti, non abbandona questi luoghi.
E li vuole mettere nel bicchiere.


Ha piantato Nebbiolo e Pinot nero, una sfida contro se stessi e i miti dell’enologia.
Ha provato, all’inizio, l’ebbrezza dell’enologo consulente e della eno-scienza.
Poi ci ha ripensato.
Oggi prova l’ebbrezza di fare sciocchezze in perfetta solitudine ma con la coscienza a posto.
Pressa, ammosta e poi aspetta che i lieviti di “casa Iuli” vivifichino le masse e compiano la transustanziazione del succo in vino.
In qualche barrique usata, affina le cuvée di maggior pregio.
Sia in cantina sia nel vigneto è custode e non tiranno.
Con gesti lenti mi ha fatto assaggiare dalle botti e dalle vasche i vini, tutti buoni, tutti giovanissimi, alcuni scorbutici (pinot noir), alcuni sublimi (nebbiolo in purezza), alcuni archetipici (barbera Rossore), altri già “smaltati”(Barabba e Malidea).


Siamo saliti su in casa a mangiare agnolotti quadrati (monferrini) fatti dalle mani gentili ma decise di sua madre (che è stata cuoca eccellente nel ristorante di famiglia ormai chiuso) con appresso una caraffaccia di plastica bianca graduata piena di Nino (pinot noir).
Non è rimasta una goccia.
Abbiamo parlato e assaggiato vini suoi e di altri fino a tarda notte.
Nella mia esperienza ho notato che se un produttore ti apre vini di altri, in fondo all’animo di quella persona c’è la timidezza, la generosità, il dubbio, la curiosità che mai diventano l’arroganza e la spocchia del credersi i migliori se non gli unici.
Se vi consiglia un produttore andateci subito, non ho avuto delusioni dal discernimento di Fabrizio.
Io amo la Barabba (Barbera del Monferrato superiore docg) che proviene da una vecchia vigna ripidissima di fronte alla cantina, per ora nessun millesimo mi ha deluso anche quelli ancora in legno.

Poi il Malidea (Monferrato rosso doc) che è un taglio di Nebbiolo e Barbera (Barabba) in cui la potenza olfattiva degli smalti terziari della barbera di Fabrizio cedono, con il tempo, campo alle raffinatezze violaceo/liquiriziate/nobili del nebbiolo, che qui a mio avviso sembra venire molto bene, aspetto ansioso l’uscita del nebbiolo in purezza.
Poi il Nino (Monferrato rosso) da uve pinot noir, esposte a nord e come dice Dan Lerner : “La vigna al tramonto vede il Monte Rosa tingersi del suo stesso nome e saluta i cugini d’oltralpe”, vino raffinatissimo e francesizzante.
Uve prodotte in regime Bio.
Bonne degustation

Luigi



martedì 14 giugno 2011

la merla bianca 2004 monferrato bianco cascina degli ulivi

Oggi al mercato (Porta Palazzo un simbolo per noi sabaudi) ho comprato finferli (garitule) che le abili mani di mia moglie hanno trasformato in intingolo sopraffino per i tajarin.


Da bere e per curare la depressione che ultimamente mi affligge ho scelto:
La Merla Bianca, Monferrato Bianco, 2004, 14%vol, Cascina degli Ulivi, Novi Ligure (AL).
Da uve marchiate Demeter (biodinamiche certificate).
Ero un po’ in ansia per la scelta enoica.
Poi apro.
Vivido e vivace, colorato e denso.
Intenso di profumi in continua mutazione.
Dal vegetale al caffè, dalla frutta al salmastro.
Dalla salvia al rosmarino alla pietra al mandarino cinese.
Si allarga caldo e meditteraneo, morbido e importante, leggero pizzicore rinfrescante e amarostico.

Mi è piaciuto parecchio.
Forse perché dai profumi si intuiva una nobiltà che però trasfigurava in territorio e non in varietà.
(questo per dire che è un taglio paritario di Sauvignon e Traminer ma io non l’ho capito).
La Cascina degli Ulivi la conoscono tutti e i loro vini naturali a “ossidazione controllata” con l’uso moderato di anidride solforosa dividono i bevitori.


Io sono stato per lungo tempo dal lato “oscuro” della forza.
Ho buttato parecchie bottiglie.
Oggi che ho bevuto l’ultima.
Sento già i morsi dell’astinenza.
Il ripensamento è frutto della gentile ma indisponente insistenza di Pietro Vergano.
Che ringrazio.
Avvicinatevi a questi vini con calma e fatevi accompagnare nel viaggio da uno sciamano.
Se mi leggete da un po’, siete già pronti per iniziare.
Ma non pensiate che non costi fatica.
Bonne degustation

Luigi

Ps
Anche i finferli (garitule) erano ottimi.

Certi giorni, malgrado il cielo ti scivoli addosso e il buio sia definitivo,
una timida opalescenza con la forza di un faro segna la via.

lunedì 6 giugno 2011

chi_è_l'amicodelle_ossidazioni?_

Chi ha paura dell’ossidazione?
Una sera a cena al Consorzio mi hanno travolto con l’ancestrale novità dei vini ossidati.
Il mio cervello ha avuto bisogno di una notte per riallineare i neuroni e dare senso all’accaduto.
Già nel dormiveglia tormentato, alcune domande balenavano enigmatiche ed io che non so rispondere ve le giro come in un gioco di specchi.


Le ossidazioni, spesso unite a macerazioni prolungate, sono territorio o no?
“Aperitivo con un bicchiere di zibibbo secco un vino che non si può non assaggiare almeno una volta nella propria vita.
Questo zibibbo è vinificato in anfore interrate vicino alle vigne.
Chiuse con lastre di marmo, temperature decisamente incontrollate e a Dioniso l’onere onore di entrare nel mosto e vivificarlo.
Sommo disinteresse per malolattiche eseguite o meno.”
Le ossidazioni sono una spasmodica ricerca di un profilo organolettico antico che si ritiene mitico e migliore del presente, sono una fuga verso l’isola di utopia?
Oppure sono una fuga dal pressing asfissiante dei tecnici ossessionati dalla chimica, dai controlli, dalle analisi e infilano i loro nasi nei bicchieri solo per trovare difetti (o presunti tali)?
Una fuga dalla eno-industria che non può permettersi il rischio di produrre in assenza di protocolli?
“Poi Pietro mi porta un calice di bianco che sbevazzo e apprezzo in abbinamento a dei caprini.
Altro bianco in modalità ossidativa, ruvido e dissetante, un vin de soif.”

Le ossidazioni però danno dei profili organolettici a cui bisogna abituarsi, profumi intensi, floreali di gigliacee e sapori salmastri, di cera d’api, di frutta stramatura, spesso un po’ verdi e urticanti ma sempre leggeri e rinfrescanti.
Io trovo che siano vini preindustriali, vini alimento, bevibili a temperatura  ambiente.
C’è chi sostiene che non sappiano di vino (cioè di quell’idea stereotipata che del vino ci siamo fatti negli ultimi venti anni).
C’è chi sostiene che omologhino i sapori al pari del legno.
“Poi Andrea porta un altro bianco da abbinare al Comté d’alpage di 36 mesi, il vino sembra uno Jerez Manzanilla fino, esaltante, fresco come un’onda che frange sugli scogli sferzarti dal vento, il trionfo dell’ossidazione in botti scolme e coltre di flor.
Memorie di galere e navi fenice si incrostano sui bordi del bicchiere.”
L’ossidazione non è un processo di stabilizzazione fisico chimica del vino?
Che la tecnica enologica contemporanea sopporta a stento e solo se relegata in nicchie produttive, meglio se naif.
Oggi si parla di riduzione, ossidazione controllata con candele in ceramica porosa, di temperature controllate per preservare il frutto, la freschezza, la mineralità.
Ma il frutto è figlio del territorio o è il sottoprodotto fermentativo dei lieviti selezionati in compartecipazione con il vitigno e i suoi precursori aromatici?
Quindi lontanissimo dal concetto di terroir e dalla sua irriproducibilità tecnica?

Durante  quella serata mi hanno coccolato con innumeri chicche enologiche prelevate con generosità dalla loro cantina, in particolare il post di oggi è scaturito dai bagliori di senso emanati da:
Serragghia 2006 zibibbo vino secco, Gabrio Bini, Pantelleria (TP);
Filagnotti, Gavi docg, annata non pervenuta, Cascina degli Ulivi, Novi Ligure (AL);
Cotes du Jura aoc, Cuvée Prestige, Savagnin 2005, Domaine Ganevat, “La Combe” Rotalier, Jura.

Poi ragionando e pensando (pratica difficoltosa e stentata per le mie povere sinapsi) mi sono venuti in mente:
Sol passito  di Ezio Cerruti, Castiglione Tinella (CN);
Vigna del Volta, de az. agr. La Stoppa, Rivergaro (PC).

E altri pensieri sparsi:
La flor non è un consorzio microbico irriproducibile al di fuori del suo contesto territoriale?
Le ossidazioni non avvengono con modalità uniche, dettate dal complesso embricarsi di condizioni climatiche locali e mosto-vino?
Le tecniche ossidative sono spesso dei modus operandi inscindibili dal territorio e dal milieu eno-agricolo che le ha inventate e affinate.

Bonne degustation 


Luigi