Paul Virilio dice che “Internet è a un tempo la peggiore e la migliore delle cose. Vi può essere il progresso di una comunicazione pressochè senza limiti e il disastro, l’incontro, un giorno o l’altro, dell’iceberg per questo Titanic della navigazione virtuale.”
Io da sempre mi facevo bello nell’interpretare il flusso delle timeline e dei contenuti dei blog come forma alta, raffinata e brutale di oblio e (dis)informazione per mezzo della iper comunicazione compulsiva.
Una comunicazione così rapida, copiosa, centrifuga, delocalizzata, atemporale che il suo destino ultimo è e sarà la dimenticanza per eccesso di informazioni.
Come uno stream of consciousness da dormiveglia, in cui il risveglio ci coglie ignari delle informazioni che ci sono scivolate sopra (nulla succede, tutto passa).
Siamo addirittura confusi dai fiocchi di senso impigliati a caso nella nostra memoria.
La velocità assurta a modello, a estremo e performante obiettivo.
L’innaturale delocalizzazione e spersonalizzazione delle fonti provoca la perdita del radicamento, del qui e ora.
Perché in rete non c’è più ne tempo ne luogo.
Il luogo è ovunque (trionfo della atopia), il tempo è un eterno istante (trionfo dell’atemporale) che non diventa mai storia, rimane sempre presente.
Il mondo si è rovesciato come un guanto, il centro è diventato periferia e viceversa.
Connessioni perpetue, visioni con web cam generano un flusso inarrestabile, un giorno innaturale in cui non tramonta mai il sole.
Il voyeurismo è diventata l’anima della comunicazione sul web, ridotta a chiacchiericcio, a sfogo interiore.
Ho poi letto di un altro punto di vista sul web al quale non pensavo, perché esattamente contrario al mio pensiero; ogni bit, ogni nostro intervento, ogni intemperanza, ogni sfogo personale, ogni giudizio pubblicato in rete, a differenza delle liti al bar rimane e le tracce sono recuperabili anche ad anni di distanza e danno uno spaccato della nostra intimità e del nostro carattere che valicano la stretta cerchia della comunità geografica e li proiettano nella sfera del pubblico dominio.
E quindi del pubblico giudizio.
Siamo sicuri di voler rendere tutti partecipi delle nostre patologie comportamentali? A cosa ci porta questa allegra perdita del recondito interiore, gettato in pasto alle masse, che noi non riteniamo tali perché nascoste nella rete atopica e immateriale. Anche noi, come il mondo virtuale che viviamo, abbiamo invertito il centro con la periferia, l’interiorità con l’esteriorità.
Una parziale verifica di questa inversione e dell’uso a scopi intimistico-privati di un mezzo a diffusione globale è la fascinazione del pubblico e il relativo traffico che generano i commenti in rete (sui sn in particolare) su questioni irrilevanti (piccoli torti o soprusi quotidiani di cui ci sentiamo vittime e che riversiamo immediatamente in rete) oppure i post gossip o le provocazioni di blogger perennemente in bilico fra scorrettezza e diffamazione.
L’estrema accessibilità del web e l’afflato democratico che lo pervade, ha portato, con la diffusione dei social network, ad una caduta (se mai c’è stata) della qualità dei contenuti e la sua libertà ha fatto sì che si possano saccheggiare i contenuti, i pensieri, finanche le conversazioni degli altri senza che lo si percepisca come un comportamento di rapina.
Comunicazione senza limiti in una rete senza limiti, ne geografici, ne temporali, ne sociali ha generato un mondo di individui indistinti, atomizzati, spersonalizzati, incapaci di relazioni mediate dall’affettività e dal rispetto verso gli altri.
“L’immaturità è la condizione più efficace per definire i nostri contemporanei (…) Uno stato immaturo suscitato e liberato in noi da una cultura divenuta inorganica.” W.Gombrowicz.
Interessante anche questo post di M.Serra.
C’è troppa velocità, troppo spazio, troppo narcisismo, troppo poco tempo per ragionare, quindi, per fare cultura?