di Niccolò Desenzani
"Naturale"’, detto del vino, non è il contrario di "artificiale", come i finger watchers (guardatori del dito, anziché della Luna) si affannano a voler capire, o peggio a non saper non capire. "Naturale" è il contrario di "ideale". È ciò che non ha una forma canonica cui tendere, cui avvicinarsi per via di addizione e sottrazione; è il porsi davanti a quel che sta per nascere con maggiore meraviglia, anche accettando che ci siano cose su cui è culturalmente alto e nobile il non voler intervenire, ma solo controllare. Ci passa la differenza che c’è tra l’antropologia e l’eugenetica. (Armando Castagno sul suo profilo Facebook)
Il pensiero di Armando Castagno ha il pregio di spostare l’attenzione dai discorsi legati all’impiego di certe sostanze e pratiche in vigna e in cantina come elementi per determinare la naturalità del vino. Infatti questo tipo di argomentazioni ha il difetto logico di portare alla contraddizione del totale non intervento umano, senza il quale il vino non esisterebbe.
Quindi, dato che far vino è un’attività umana che comporta l’interazione-manipolazione con la materia tramite “attrezzi” in vigna come in cantina, è corretto che la definizione di vino naturale si rifaccia a concetti astratti, filosofici, che definiscano al meglio la qualità di questa interazione-manipolazione. È allora sensatissimo parlare di canoni estetici, dal momento che il vignaiolo è artefice di un’opera alla quale vorrebbe dare una certa forma-sostanza o, meglio, che egli vorrebbe avesse una certa forma-sostanza. In questa apparentemente sottile piega di senso si annida lo spartiacque fra vino naturale e vino non naturale secondo il suggerimento di Castagno. Estremizzando, vediamo da un lato chi vuole controllare con ogni mezzo il risultato, puntando a un artefatto enoico con determinate e controllabili caratteristiche di forma e sostanza, fissate da un sapere tecnicistico, dall’altra chi cerca di creare le condizioni per dare inizio e poi assecondare un processo che ha un proprio senso e un’estetica naturali; in ultima istanza la cui forma e sostanza esprimono non tanto un’idea precostituita, ma piuttosto siano il segno di un equilibrio raro, ma naturale*.
Resta aperto il dibattito su quale modalità esprima meglio le tipicità di vitigno, territorio, clima, e troveremo sostenitori di entrambe le fazioni.
Cosa si portano dietro questi due atteggiamenti?
Io credo che si possa dire che nel primo caso l’accento sarà sull’utilizzo di pratiche tecnologiche al servizio di un risultato che rispetti ben definiti parametri organolettici e gustativi. Nel secondo l’artefice, per forza, dovrà assumere un atteggiamento di studio e osservazione dei fenomeni naturali per imparare in qualche modo a sfruttarli a proprio vantaggio, a tener lontano il mosto-vino da equilibri indesiderati, puntando a forme più o meno stabili e salubri**.
Ma una differenza irriducibile rimane: l’atteggiamento che potremmo definire enologico tecnicistico si basa su una pratica del tipo: “ se fai questo, ottieni quello”; ma in molte situazioni non saprà rispondere alla domanda “se non fai questo, cosa succede?”. L’atteggiamento naturalistico (e qui il termine calza anche nella sua accezione più comune) sarà più basato sull’osservazione e sul tentativo di spiegazione e per forza di cose porterà a percorrere strade che non si trovano nei manuali pratici.
* La fermentazione dell'uva è un processo naturale, ovvero una trasformazione fisica spontanea; essa può svolgersi "con o senza il controllo dei parametri ambientali e operativi, oppure artificialmente creando le condizioni affinché si indirizzino i fenomeni verso il risultato desiderato" (fonte wikipedia sub voce trasformazione agroalimentare).
** In questo secondo atteggiamento una profonda preparazione tecnico scientifica non può che essere di aiuto.
Bravo Niccolò. Io pratico una distinzione sensoriale tra l'atteggiamento tecnologico e quello naturale. Osservo il comportamento del vignaiolo. Una volta messo il mosto-vino nei tini, il vignaiolo tecnologico non lo vede più e non lo tocca mai più (magari perchè non può, i tini sono troppo grandi). Quello naturale ogni tanto da un'occhiata alle bucce, le annusa e le assaggia, magari immerge il braccio nel cappello e ci dà una girata.
RispondiEliminaGrazie Mike, come qualcuno dice God is in the details!
EliminaNon mi trovi d'accordo, soprattutto sulla parte finale: i due atteggiamenti di cui parli non mi sembrano affatto antitetici né rappresentativi di due diverse idee di vino.
RispondiEliminaI due atteggiamenti di cui parlo sono appositamente estremizzati. Non voglio assolutamente dire che non ci siano infinite sfumature di grigio fra loro. Tuttavia, per quel che è la mia esperienza e le mie letture, molti libri di enologia sono degli elenchi di pratiche da utilizzare per mettersi al riparo da alterazioni e per creare un prodotto che è standard da molti punti di vista (nel post non affermo che questa scelta cancelli uva, clima e territorio). Qualche esempio: leggo "Il vino di qualità deve essere stabile e limpidissimo" "Un vino stabile non solo è limpido ma evolve meglio nel tempo" (tablino.it), quindi spiega cosa fare per chiarificare e stabilizzare. Qui vediamo la strategia del primo tipo all'opera: il vino ideale è così e cosà, quindi tu fai questo e quello e otterrai quelle caratteristiche. Il naturalista prova a laciar riposare il vino più a lungo, oppure magari apre le porte della cantina per abbassare la temperatura, oppure chiama un altro più esperto che ha già sperimentato di non chiarificare né stabilizzare con prodotti esogeni e gli chiede consiglio, oppure magari, se ha la fortuna, chiede a un anziano o legge i diari di cantina del passato per capire cosa potrebbe succedere, o magari torna sui libri di chimica fisica per cercare una risposta... In mezzo ci sono tante possibilità. Però ti assicuro che normalmente il rappresentante del tipo I ti dice che se si può evitare un inconveniente adottando una certa pratica (anche invasiva) è da stupidi non farlo.
EliminaParli del "naturalista" come di uno che faccia sostanzialmente prove, tentativi. Non capisco: gli enologi non ne fanno?
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