Ultimamente ho letto che malgrado il periodo confuso nel quale viviamo è ormai passata la concezione enologica filo-Borgognona.
Vini più magri, affilati, meno concentrati, meno colorati, più eleganti che muscolosi.
In realtà il redattore non espandeva all’eleganza dei vini (italiani) il nuovo concetto di levità, anzi sosteneva che si usi come canone qualitativo una certa rusticità.
Un’alternanza, leggero pesante, che il recensore definiva come un evento modaiolo, figlio degli eccessi precedenti e destinato come tale a vedersi superato a breve dall’avvento, per noia, di una nuova moda o al ritorno delle concentrazioni.
Io non sono certo che:
1) sia finita la moda dei vini concentrati, tuttalpiù bisognerebbe chiarire cosa si intende per concentrazione.
2) i vini più giocati sulla leggerezza e bevibilità siano una moda transitoria.Direi che c’è spazio per tutti e ci sono campi di piacevolezza ritagliati dalla gastronomia per gli uni e per gli altri.
Mi annoiano, ormai, le esasperazioni, mi si perdoni lo sconfinamento tecnico, di certe vinificazioni e affinamenti che annullano un po’ l’espressione del territorio.
Vini più esili e senza trucco, nella loro fragilità strutturale, sono più bevibili.
Da sempre si fanno e qualcuno ha, imperterrito, continuato a farli anche in queste epoche di eccessi, accompagnando le uve sino a farsi vino, senza l’ossessione del risultato predefinito.
E’ il puntare ad un canone e fare di tutto per raggiungerlo, magari tradendo territorio e vitigno e tradizioni, l’errore degli anni passati.
Ricercare profumi, descrivibili e intellegibili, come dei profumieri o sapori, anch’essi riconoscibili, come tecnici alimentari, pensare con ostinazione e falso scientismo che si possa progettare un vino come fosse un processo industriale è la grande arroganza contemporanea, un delirio di onnipotenza.
Questo pensavo durante la scrittura del post su un Pinot Noir francese “fuori zona” della regione del Rhone-Alpes, vicino al Rodano, sui primi contrafforti prealpini, un vino montano.
Almeno questa “nuova moda” della leggerezza ci permette di scoprire altri territori altrimenti marginalizzati.Les Etapes 2010, la vigne du Perron, Villebois, Francia.
L’innesco ai miei ragionamenti me lo ha dato un vino così, magro e affilato, senza pretese (ma forse l’umiltà e l’understatement sono condizioni da rivalutare in un mondo strillato, mediatico e polemico) che scivola veloce in bocca e accompagna le chiacchiere e il cibo.
Che non fa parlare di sé ma ci fa parlare e interagire con il commensale e l’oste insolente.
Pinot consigliato dall’oste più insolente del nord ovest: Pietro Vergano del Consorzio.
Ho letto che il domaine du Perron produce anche una Mondeuse (vitigno della Savoia) in purezza con 11° 11,5° vol alcool io non sto più nella pelle dalla curiosità di assaggiarlo e voi?
Bonne degustation
Luigi
Mi inserisco pur non essendo esperto di vino, ma solo un fortunato partecipante ad alcuni incontri. Alcune tue parole e più in generale questo pensiero fa eco ad altri pensieri che accompagnano diversi luoghi e pratiche professionali. Ma direi di più, sostanziano anche comportamenti e approcci di vita. Penso al mio lavoro, costruire la comunicazione, e al peso di una operatività dove "le esasperazioni...di certi...affinamenti che annullano un po’ l’espressione dell'identità", fanno perdere quei tratti specifici e distintivi che invece si vorrebbe comunicare. Serve un pensiero, serve una visione per poter restituire al vino un senso che vada oltre lo scaffale e lo faccia convivere anche con i tratti instabili, ma preziosi, della vita. E mi sembra che le tue parole indichino una direzione. Se non ho capito male.
RispondiEliminaDirei che hai capito bene e la strada è li davanti ma come in un sentiero nel bosco in primavera, bisogna leggere con attenzione le tracce labili del calpestio soffocato dal rigoglio della vegetazione.
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