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mercoledì 28 maggio 2014

PUNCH-DRUNK LOVE

di Eugenio Bucci

Punch-Drunk Love (Ubriaco d'amore) è un film del 2002 diretto da Paul Thomas Anderson (quello che prima aveva fatto Boogie Nights e poi fece Il Petroliere e tutti e due. all'incirca, parlano di trivellazioni). Ha vinto a Cannes il premio per la miglior regia ed anche a me piace un sacco, ma questo non c'entra. La trama è poppeggiante e succosa e tanto metaforica come solo (?) questa nouvelle vague di giovani americani sa fare. In breve succede che Adam Sandler (si, lui, l'equivalente americano di Christian De Sica che fa un sacco di vanzinate e, ogni tanto, qualcosa d'autore e spesso non si nota la differenza) ha una ditta di scopetti da cesso (metafora) ed è molto represso perché è cresciuto con 7 sorelle (metafora) e ha delle crisi di incazzo in cui, non so, spacca uno specchio in bagno quando nessuno lo vede. Poi incontra una tipa che è Emily Watson (si, lei, quella de Le Onde Del Destino di Von Trier con gli occhioni sempre spalancati e lucciconi tipo cerbiatto sulla statale) e si innamora ed è pure ricambiato. Nel frattempo Sandler, che continua coi suoi comportamenti, come dire, bipolari (nel film e nella carriera), sta comprando una marea, davvero una marea di budini XY (metafora) perché ha scoperto una falla nel regolamento di un concorso e, insomma, punta ad ottenere una serie infinita di miglia aeree e viaggiare gratis fino alla fine dei suoi giorni. Nel frattempo sempre Sandler ha combinato un casino prima di conoscere la Watson, cioè, una sera ha telefonato ad una hot line e ora è tampinato e ricattato da Philip Seymour Hoffman (si, quello bravo che poi fece The Master che è sempre di Paul Thomas Anderson e parla sempre di trivellazioni ma a livello più cerebrale e/o spirituale) che è il gestore della hot line e ha anche un negozio di materassi (metafora). Però Sandler ha ora tutto un atteggiamento diverso derivato dalla forza dell'ammmore per la Watson ed è meno represso e ancora incazzoso però nel modo giusto, così va da Seymour Hoffman e sistema la faccenda e poi torna a limonare con la Watson e ad accumulare miglia per il loro viaggio infinito (metafora).


Il senso di un'etichetta.
Due uomini che tracannano vino. Io sono quello smilzo.
Entro breve colpirò quello panzuto per fregarmi la sua bottiglia


Ed è con la forza dell'ammmore che scrivo oggi ed è una forza potente e primigenia. Che può stordire e cartavetrarti l'intelletto. Che per fortuna (?) ti colpisce poche volte nella vita. Epperò mentre ti asfalta, ti esalta. Ti rende più lucido e centrato. Focused. Elimina le sovrastrutture per indirizzarti verso l'essenziale. Ti denuda (se ti va bene). E così che mi sono sentito al primo incontro con Litrozzo Bianco. L'annata era la 2009. I vin de soif erano ancora una nebulosa, un concetto timido che ogni tanto saltava fuori ma mica chiaro cosa fosse. Cioè, era chiaro ma mancavano ancora gli esempi, mancava una pratica di assaggi che solo in questi anni si sta completando. Ed invece ci ero capitato esattamente al centro. Ero nel punto esatto in cui vin de soif diventava vino da sete. E così scrissi una lettera d'amore (Nota 1). E li andai a trovare a Gradoli. Gian Marco Antonuzi e Clémentine Bouveron. E passeggiai per le loro vigne e camminai tra le muffe e i tufi della loro cantina e assaggiai ogni contenitore e mangiai con loro e ascoltai un torrente di racconti e idee e fatiche e sticazzi ogni 3X2. E l'innamoramento, la cotta adolescenziale divenne un amore solido e maturo. 
Ma ricapitoliamo. Era il 2008 e Vini Veri era in epoca pre-Cerea. Si andava in un villone vicino Verona. Come si dice. La splendida cornice di Villa Boschi a Isola della Scala. E accanto alla splendida cornice etc etc era un tendone, una tensostruttura che accoglieva una sfilata di produttori rimasti fuori dai saloni e salette settecentesche. Il tendone era ampio e arieggiato e, in caso di pioggia e/o vento, bagnato e freddo. Tutto molto Festa Dell'Unità. A metà pomeriggio inizia quello che definivo il Tirare A Caso. Andare dai produttori che non conoscevo, magari di zone meno famose. Era eccitante. L'esploratore in lande sconosciute. Certo, si beccavano spesso delle sòle. Ma la vita è una sola. Vabbè.
Lessi Lazio. Lessi Le Coste di Gradoli. Bevvi un paio di vini. Sticazzi. Quello lo diceva spesso Antonuzi. E quello lo pensai anch'io. Sticazzi, sono buoni. E poi bevvi un coup de coeur. Un 4 stelle Mereghetti. Carbò 2007. Un Greghetto in macerazione carbonica. Che costruiva un ponte immaginario col Rodano, quello sensuale e tuttotondo dei Gramenon e Dard & Ribo. E ancora non c'erano i Litrozzi. Non c'erano o non li aveva portati, non ricordo.
Le Coste era diventata un nuovo must-have. In ogni fiera/occasione dovevo passare a trovarli. Ma, come dicevo, quella era ancora un'infatuazione. L'amore con la A scoppiò col Litrozzo Bianco 2009.
Da allora ogni anno scatta la corsa all'accaparramento. Gli altri loro vini possono essere buoni, discreti, scorbutici, espansivi. Ma Litrozzo è il vino di Gian Marco e Clementine. Quello che li rappresenta, quello che preclude le masturbazioni mentali (in antonuziano, le seghe) e punta diretto all'ipotalamo, all'homo brutus che è in noi e vuole solo bere e godere.
E Litrozzo Bianco che nell'annata 2013 si fa, come sempre, bere e godere. Ma è (ovviamente) diverso. Vediamo come.
Intanto ecco la descrizione dell'annata nella loro puntuale newsletter:

 "...un’annata, 2013, pronta da subito. Difficile, molto piovosa e fredda nei mesi di aprile e inizio maggio, nonostante una piccola perdita di raccolto, si è rivelata per noi un’annata eccezionale. Tardiva e lenta a maturare, il 2013 ha dato uve molto equilibrate, mature al punto giusto, senza esagerazioni. Le fermentazioni si sono svolte in modo impeccabile, i vini sono freschi e fragranti con gradazioni alcoliche come ci piacciono."

E come presentano il vino:

"Il Litrozzo bianco è fatto con il procanico, insieme ad una piccola percentuale di diverse uve locali, da sempre mischiate nei vigneti tradizionali. Quest’anno abbiamo lasciato per qualche giorno insieme al mosto una piccola percentuale di uva diraspata. Il colore è più dorato ma la scorrevolezza e la beva sono quelle di sempre."

Ci sono un paio di cose da annotare. Uve molto equilibrate,... senza esagerazioni. E Uva diraspata. E molto di queste note si ritrova nel bicchiere. Perché LB 2013 è un vino che vive di un sottile equilibrio perdendo in parte quell'esplosività aromatica di altre annate ed esaltando una componente verde spiccata. Gli odori, che rimbalzavano tra le dolcezze da pera matura e il floreale, tra una trama finemente tannica e terrea, qui si appuntiscono e rimandano a certi trebbiani new-age, a quel verde rasposo e linfatico. Epperò nel contatto con l'aria, nello scambio virtuoso (direbbe qualcuno) con l'ossigeno sentiamo piccoli sommovimenti ed aperture, col passare dei minuti e delle ore (lode a me, con incredibile sforzo di volontà ne ho pure lasciato un po' da assaggiare il giorno dopo) si intra-vede e intra-sente una evoluzione, un andare verso una speziatura in filigrana a scalfire quella monodirezionalità iniziale. Una promessa, una suggestione, un riverbero.
Quindi. Quindi un LB più dritto, meno ampio ma sempre campione di beva. Beva costruita su un equilibrio più teso, dove l'acidità allunga e rinfresca. Si perde qualcosa rispetto ai 2009 o 2010, si perde quel plus di semplicità miracolosamente legata alla complessità. 
LB 2013 è un'edizione semplificata ma non semplicistica. Diretto e sfacciato, primario e poche-seghe. E' e rimane un vino la cui etichetta pare un Istruzioni Per l'Uso: da bere a gargarozzo attaccati alla bottiglia. E qui, ora, nella primavera 2014 come nelle primavere precedenti, finalmente sono seduto e lo guardo negli occhi e so che viaggeremo ancora tanto insieme e non ci lasceremo mai. Sono ancora ubriaco d'amore. 








Nota 1: “Vino torbido e coloratissimo, è frutto di un progetto quasi di preservazione del territorio. Gianmarco Antonuzi prende le uve di vecchi vigneti coltivate dai contadini della zona (vigneti nei quali non c’è alcun intervento ma che vengono lasciati produrre naturalmente in una sorta di auto-controllo naturale dato solo dall’età della vigna) e le vinifica. E’ un vino anti-intellettuale, per dirla con le sue parole, un dialogo diretto con la storia del suo territorio e con quelle viti che, grazie all’età e solo a quella, sono arrivate a produrre in equilibrio. Un progetto che riporta all’idea di vino contadino dove questo sta a significare bevibilità quotidiana e digeribilità (ancora) e un rapporto con la terra. Un’idea per la quale vale la pena di spendere la parola veronelliana. E tutto questo non basterebbe ancora se, in effetti, il vino non fosse così buono. Il concetto olfattivo è spremuta d’uva: sensazioni dolci, buccia di pera, fiori d’acacia, quello che volete, tutto disteso ma non ruffiano, ruvido il giusto, e con naturalezza porto al naso. La bocca è tonda, un cerchio perfetto d’equilibrio acido-tannico-dolce. Consistenza non spaventosa ma, davvero, qui non importa. Qui si torna ai primordi del bere, quando il bere era nutrimento e il nutrimento era piacere puro, sano e quotidiano. Si, quotidiano. Allora datemi 100, 1000 Litrozzi e lasciatemi godere di quello che la terra in sinergia con l’uomo può dare. Rispetto”.

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