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venerdì 11 luglio 2014

la cuite, il gatto nero e il banco. il nuovo, la storia e il contemporaneo. a torino sotto un cielo di piombo fuso

1°tappa

La Cuite
Siamo in tre, seduti ai tavolini di ferro de La Cuite, una bottiglia di Champagne di Demarne Frison e dei tacos piccanti, fuori come in un Blade Runner sabaudo piove, una cortina d’acqua oscura le vetrine, chiacchiericcio assordante.
Siamo a San Salvario il quartiere dalla movida e delle multietnie torinesi, Alessandro Gualano patron del locale, si muove come un furetto e mesce birra, vino, cocktail, i ragazzi e ragazze di sala scivolano agili fra i tavolini.
Si sente pulsare una vitalità pazzesca, rumori, brandelli di discorsi aleggiano nell’aria, si percepisce una sensazione di evento tribale officiato da una comunità variegata e ondeggiante.
Qualcosa a metà fra una musica tecno e i canti degli sciamani.
Ci si perde, aiutati dall’alcol, in una espansione sensoriale.
Il locale recente ma non recentissimo è un luogo cult per l’aperitivo e le chiacchiere.
Impossibile non incrociare volti noti.
Beviamo e parliamo e festeggiamo e il vino è il medium della convivialità, un grimaldello che rompe le corazze che tutti noi indossiamo ogni giorno per proteggerci dall’ambiente esterno.
Usciamo, abbiamo appuntamento con il quarto commensale al Gatto Nero, strisciamo lungo i muri ottocenteschi per evitare il monsone che imperversa sulla città, una persona ci guarda, da un balcone verandato con teli di plastica e tende verdi, irto di bandiere e vasi di fiori come dalla cabina di pilotaggio di un esausto peschereccio alla deriva.
Il nuovo

2°tappa

Il Gatto Nero
La storia della ristorazione torinese, nato nel 1927 (in un'altra sede) si è spostato in un brano di città figlia del boom economico.
Porta in legno massiccio, nessuna movida, un tranquillo quartiere residenziale austero e kitch come sanno essere le città contemporanee, figlie dell’espansione continua, incontrollata e fiduciosa nei mezzi umani, tecnici e economici.
Ci apre Andrea Vannelli, terza generazione alla guida del locale, in giacca bianca, immacolata, dall’abbottonatura alta da cui spunta una cravatta, di un eleganza d’antan, l’ambiente è silenzioso, emana professionalità e buon gusto.
Andrea e Gil Grigliatti (prendetevi due minuti per leggere anche il suo post di ieri) ci raccontano della grande influenza che questo ristorante ha avuto sulla ristorazione torinese, una storia di altri tempi, tempi lontani ormai (adesso due anni pesano come ere geologiche) di quando i Vannelli erano venuti al nord da Altopascio e hanno costruito ed insegnato ai torinesi una cucina fatta di leggerezza e olio e pesce e carni che ha dato uno scossone alla tavola tradizionale torinese.
L’insalata calda di mare ne è un esempio (un piatto copiato da tantissimi ristoranti della città) e noi con quella abbiamo iniziato il percorso, da commozione! Baccalà mantecato con patate dai sapori nitidi ed equilibrati, gli spaghettini “alla Peppino Fiorelli” (cantante napoletano che veniva a Torino per registrare le sue canzoni all’EIAR ora RAI che nacque proprio a Torino, all’ombra della Mole) e che dire dei paccheri al ragout di costata lungamente cotto e ridotto alla quintessenza dei sapori carnei, le patate a fiammifero che mi hanno ricordato quelle di Balthazar a New York.
La cantina di Andrea è una miniera da cui compaiono un metodo classico sardo di vernaccia e nuragu Marzani e poi Chateau Musar 91 bianco e un 97 rosso per finire con Vermouth americano "Veiturin" Marenco degli anni ’50, moscato passito Cinzano anch’esso del 50, moscato di Siracusa di Mansio.
Stupiscono (non dovrebbe essere così ma spesso all’accoglienza si dedica poca attenzione) la competenza in sala, il servizio attento ma disinvolto senza affettazione.
Merita un cenno l’arredo progettato da un giovane Pietro Derossi architetto torinese, mio docente al Politecnico di Torino a cui devo molto della mia formazione e approccio all’architettura. Pareti in mattoni a vista, banconi in legno e acciaio inox e ferro con sedute integrate, schermi, balaustre cesellate su misura per gli spazi del locale, il soffitto della sala contiene, integrandolo, l’impianto di condizionamento e le bocchette di aspirazione dell’aria sono su disegno (uno dei primi casi di progettazione totale degli interni sia architettonici sia tecnici), sedie danesi di una eleganza incredibile.
Un progetto globale che andava dalla progettazione architettonica, agli arredi, alle ceramiche, alla cucina ispirato dalla volontà di questa famiglia di offrire il meglio per i propri clienti.
La storia

3°tappa

Il Banco vini e alimenti
È appena finito di piovere la città è lucida come l’acciaio e dopo il Gatto Nero ci dirigiamo verso il cuore romano di Torino.
Del Banco sapete tutto: si beve, si mangia, si compra per asporto vini e alimenti.
C’erano Fabrizio Iuli e Paolo Veglio la meglio gioventù del vino piemontese, non è raro incontrare produttori che tirano tardi da Pietro e Andrea.
C’erano anche altissimi e biondissimi e anglofoni dee jay reduci dal Kappa FuturFestival.
L’occasione giusta per bere ancora qualcosa chiacchierando con i “reduci della notte” ed infatti escono come conigli dal cappello una Vigneron di Cantillon, un Ansonaco 12 di Carfagna e una Besiosa 13 di Crocizia.
Consumate all’aperto, appoggiando i bicchieri sulle sedi impilate e pronte per essere rimessate, malgrado l’ora tarda e la molestia di noi avventori, Irene Carfagna (si avete letto bene! Lei è la figlia di del produttore dell’Ansonaco) scivola come su binari oliati di simpatia, cortesia, professionalità, una parola per tutti e mai un cenno di stanchezza nel volto o un irruvidimento dei gesti, chapeau! Il miglior acquisto del Banco!
Stare al di là del banco non è un ripiego, un sublavoro ma è, se lo si fa bene, una professione complessa  che deve nutrirsi di vocazione, competenza e allegria.
Il contemporaneo


2 commenti:

  1. Vittorio/Tirebouchon esce poco, ma quando esce è in grado di mettere a ferro e fuoco la città; io non sono riuscito a seguirvi tutta la notte....sono rimasto indietro!
    :))

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