1°tappa
Siamo in tre, seduti ai
tavolini di ferro de La Cuite, una bottiglia di Champagne di Demarne Frison e dei
tacos piccanti, fuori come in un Blade Runner sabaudo piove, una cortina
d’acqua oscura le vetrine, chiacchiericcio assordante.
Siamo a San Salvario il
quartiere dalla movida e delle multietnie torinesi, Alessandro Gualano patron
del locale, si muove come un furetto e mesce birra, vino, cocktail, i ragazzi e
ragazze di sala scivolano agili fra i tavolini.
Si sente pulsare una
vitalità pazzesca, rumori, brandelli di discorsi aleggiano nell’aria, si
percepisce una sensazione di evento tribale officiato da una comunità variegata
e ondeggiante.
Qualcosa a metà fra una
musica tecno e i canti degli sciamani.
Ci si perde, aiutati
dall’alcol, in una espansione sensoriale.
Il locale recente ma non
recentissimo è un luogo cult per l’aperitivo e le chiacchiere.
Impossibile non incrociare
volti noti.
Beviamo e parliamo e
festeggiamo e il vino è il medium della convivialità, un grimaldello che rompe
le corazze che tutti noi indossiamo ogni giorno per proteggerci dall’ambiente
esterno.
Usciamo, abbiamo
appuntamento con il quarto commensale al Gatto Nero, strisciamo lungo i muri
ottocenteschi per evitare il monsone che imperversa sulla città, una persona ci
guarda, da un balcone verandato con teli di plastica e tende verdi, irto di
bandiere e vasi di fiori come dalla cabina di pilotaggio di un esausto
peschereccio alla deriva.
Il nuovo
2°tappa
La storia della ristorazione
torinese, nato nel 1927 (in un'altra sede) si è spostato in un brano di città
figlia del boom economico.
Porta in legno massiccio,
nessuna movida, un tranquillo quartiere residenziale austero e kitch come sanno
essere le città contemporanee, figlie dell’espansione continua, incontrollata e
fiduciosa nei mezzi umani, tecnici e economici.
Ci apre Andrea Vannelli, terza
generazione alla guida del locale, in giacca bianca, immacolata, dall’abbottonatura alta da cui spunta una
cravatta, di un eleganza d’antan, l’ambiente è
silenzioso, emana professionalità e buon gusto.
Andrea e Gil Grigliatti
(prendetevi due minuti per leggere anche il suo post di ieri) ci raccontano
della grande influenza che questo ristorante ha avuto sulla ristorazione
torinese, una storia di altri tempi, tempi lontani ormai (adesso due anni
pesano come ere geologiche) di quando i Vannelli erano venuti al nord da
Altopascio e hanno costruito ed insegnato ai torinesi una cucina fatta di
leggerezza e olio e pesce e carni che ha dato uno scossone alla tavola
tradizionale torinese.
L’insalata calda di mare ne
è un esempio (un piatto copiato da tantissimi ristoranti della città) e noi con
quella abbiamo iniziato il percorso, da commozione! Baccalà mantecato con patate dai sapori
nitidi ed equilibrati, gli spaghettini “alla Peppino Fiorelli” (cantante
napoletano che veniva a Torino per registrare le sue canzoni all’EIAR ora RAI
che nacque proprio a Torino, all’ombra della Mole) e che dire dei paccheri al
ragout di costata lungamente cotto e ridotto alla quintessenza dei sapori carnei,
le patate a fiammifero che mi hanno ricordato quelle di Balthazar a New York.
La cantina di Andrea è una
miniera da cui compaiono un metodo classico sardo di vernaccia e nuragu Marzani
e poi Chateau Musar 91 bianco e un 97 rosso per finire con Vermouth americano "Veiturin" Marenco degli anni ’50, moscato passito Cinzano anch’esso del 50, moscato di Siracusa
di Mansio.
Stupiscono (non dovrebbe
essere così ma spesso all’accoglienza si dedica poca attenzione) la
competenza in sala, il servizio attento ma disinvolto senza affettazione.
Merita un cenno l’arredo
progettato da un giovane Pietro Derossi architetto torinese, mio docente al
Politecnico di Torino a cui devo molto della mia formazione e approccio
all’architettura. Pareti in mattoni a vista, banconi in legno e acciaio inox e
ferro con sedute integrate, schermi, balaustre cesellate su misura per gli
spazi del locale, il soffitto della sala contiene, integrandolo, l’impianto di
condizionamento e le bocchette di aspirazione dell’aria sono su disegno (uno
dei primi casi di progettazione totale degli interni sia architettonici sia
tecnici), sedie danesi di una eleganza incredibile.
Un progetto globale che
andava dalla progettazione architettonica, agli arredi, alle ceramiche, alla
cucina ispirato dalla volontà di questa famiglia di offrire il meglio per i
propri clienti.
La storia
3°tappa
È appena finito di piovere
la città è lucida come l’acciaio e dopo il Gatto Nero ci dirigiamo verso il
cuore romano di Torino.
Del Banco sapete tutto: si
beve, si mangia, si compra per asporto vini e alimenti.
C’erano Fabrizio Iuli e
Paolo Veglio la meglio gioventù del vino piemontese, non è raro incontrare
produttori che tirano tardi da Pietro e Andrea.
C’erano anche altissimi e
biondissimi e anglofoni dee jay reduci dal Kappa FuturFestival.
L’occasione giusta per bere
ancora qualcosa chiacchierando con i “reduci della notte” ed infatti escono
come conigli dal cappello una Vigneron di Cantillon, un Ansonaco 12 di Carfagna
e una Besiosa 13 di Crocizia.
Consumate all’aperto,
appoggiando i bicchieri sulle sedi impilate e pronte per essere rimessate,
malgrado l’ora tarda e la molestia di noi avventori, Irene Carfagna (si avete
letto bene! Lei è la figlia di del produttore dell’Ansonaco) scivola come su
binari oliati di simpatia, cortesia, professionalità, una parola per tutti e
mai un cenno di stanchezza nel volto o un irruvidimento dei gesti, chapeau! Il miglior
acquisto del Banco!
Stare al di là del banco non
è un ripiego, un sublavoro ma è, se lo si fa bene, una professione
complessa che deve nutrirsi di vocazione,
competenza e allegria.
Il contemporaneo
Vittorio/Tirebouchon esce poco, ma quando esce è in grado di mettere a ferro e fuoco la città; io non sono riuscito a seguirvi tutta la notte....sono rimasto indietro!
RispondiElimina:))
Però ti abbiamo tanto pensato ;)
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