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lunedì 14 ottobre 2013

senza titolo


…“... il capitale è il potere di trasformare le foreste pluviali in legno per mobili e i mari in acque morte; di brevettare il genoma di esseri viventi evolutisi nel corso di miliardi di anni e dichiarato proprietà privata; di decidere quali debbano essere i mezzi di trasporto usati dalla grande maggioranza della popolazione e con essi quale debba essere la forma della città, l’uso del territorio, la qualità dell’aria.”…1

Rileggo Luciano Gallino in quei momenti in cui, sbagliando, mi sento bene e guardo con indulgenza al mondo, alle persone; lo faccio per autolesionismo e per svegliarmi dal torpore.
Il risveglio brusco mi permettere di vedere che piano piano ma inesorabilmente il finanzcapitalismo ha abbracciato le parole: biologico, sostenibile, naturale, libero, insomma tutto il repertorio di terminologie del movimento Bio (che mai è stato movimento, mai ha cercato coesione, mai ha fatto massa critica).
Quindi un “non movimento”, quello bio, sconnesso e senza identità, un po’ naif, trasversale che è ormai accerchiato legalmente (vedi Bulzoni, le ispezioni in cantina e al ViVit e tutta la assurda querelle sul vino naturale coronata dall’intervento del vice presidente Massimo Fiorio della commissione Agricoltura a Montecitorio) e mediaticamente da potenti lobby (non saprei definirle meglio) che hanno affrontato la montante onda di richiesta del consumatore di prodotti “puliti” con i mezzi loro consueti.

1)normativi (si sono dati norme interne e hanno spinto a legiferare i governi a riguardo);
2)politici (di pressione sulle politiche Comunitarie e globali);
3)economici;
4)scientifici;
5)mediatici.

L’operazione è complessa e articolata e mi pare siano già molto avanti con le operazioni di colonizzazione dei “territori verdi”.
Come sempre si tratta principalmente di mettere in atto e rendere “verità” delle retoriche strumentali ai loro bisogni (che sono sempre e solo il fatturato, i dividendi).

Hanno fondato dei “Think Tank” dedicati all’alimentazione spesso con un allure “bio” o quantomeno mirati, dicono nelle presentazioni, al benessere alimentare e sanitario delle persone; con queste casse di risonanza (infarcite e imbellettate di ricercatori scientifici e dirigenti di multinazionali alimentari e chimiche) hanno cominciato a veicolare le loro verità (retoriche) appoggiati dalla ricerca e avvalorate dall’ufficialità politica, un processo di indottrinamento che mira a rendere “umane”, “pulite”, “sostenibili” pratiche tecnologiche/agronomiche poco apprezzate o del tutto invise dal pubblico e talora dagli stessi addetti ai lavori. Un processo di convergenza del capitale, della scienza, dell’industria, della politica, della distribuzione che si vede raramente e che è foriero di grandi cambiamenti.

Contemporaneamente c’è stato un attacco ai peones del naturale con mezzi legali, chiudendo Corsi di Laurea Universitari in Scienze Agrarie ad indirizzo biologico, isolando i pochi ricercatori che hanno teorie contrarie a quelle agro/chimiche, gettando una aura di discredito su chi affronta l’agricoltura con tecniche e modelli non conformi ai quelli massificati.

La genialità di tutto ciò è che spesso, tradendo la storia e le metodiche produttive originali, essi cavalcano con sicurezza la produzione delle eccellenze alimentari Italiane, distruggendo le basi ma preservandone il vacuo valore formale, mediatico, riducendo tutto a Brand a inconsistente e vuota parola da spendere per spiccare prezzi più elevati, esempi eclatanti sono i mangimi Ogm permessi nell’alimentazione delle vacche sia da carne sia da latte e derivati, la riduzione delle Dop territoriali al mero confezionamento del prodotto sganciandole dall’allevamento degli animali necessari alla produzione che è delocalizzata e demandata a terzi.
Un esempio di “normalizzazione produttiva” di “protocollarizzazione” del processo che da artigianale e locale diventa industriale (travestito da artigianale) e delocalizzato.

Il fine ultimo è l’estrazione di valore, il massimo possibile con il  minimo costo possibile e nell’estrazione di valore sono coinvolti i territori, i prodotti storici che vengono sfruttati per la loro immagine e non per il know how, perché tanto la produzione è “migliorata”, rinnovata, resa più efficiente dal pool di agrotecnici al soldo delle società.

Si assiste al solito balletto di persone dedite alle revolving door che scambiano posti di dirigente di società agro/chimiche con quello di direttore di agenzie per il benessere alimentare, politici, banchieri, ricercatori che li seguono in questo giro di danza.
Non cambiano nulla ma tutto cambia e diventa più popolare, amicale, condiviso, accettato, buono, giusto, libero e i peones del bio sempre più antistorici, luddisti, retrogradi, reazionari.

C’è da rimarcare che si parla di un mercato, quello bio, molto piccolo del comparto agroalimentare intorno al 5% o giù di lì, ecco! Il fatto è proprio questo, la ridotta dimensione è una occasione ghiotta perché è un comparto che non può che  crescere e quindi piccole crescite daranno incrementi percentuali alti e ricavi molto significativi in regimi di quasi monopolio e senza affollamento di prodotti equipollenti.
E’ un comparto che fa sicuramente gola ma che ha troppe complessità intrinseche, opacità ed è troppo invischiato con cultura ed etica per essere agevolmente sfruttato dall’industria.
Le operazioni che ho accennato sopra mirano a ripulire il campo dagli aspetti ritenuti “inutili” e la tecnoscienza in questo è una manna perché negli ultimi decenni si è opposta (spesso in maniera strumentale e cieca) alle visioni olistiche con molta forza e con grande trasporto emozionale.
Il processo è in atto ed è riduzionistico e semplificatorio e altamente astratto e delocalizzante, questo serve a sradicare un prodotto dal suo territorio originale per renderlo processo industriale e ripulirlo dalle viscosità antropologiche e empiriche.
Attendo l’invasione di vini bio(tecno)logici senza solfiti nei discount.
Luigi


1) Luciano Gallino, “Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi” Torino, 2011 pg5 e sgg.


8 commenti:

  1. Il bio industriale esiste da oltre un decennio e domina il mercato fin dall'inizio. Basta andare in un qualsiasi negozio bio (ormai sono quasi tutti franchising - è così qui in Francia, forse da voi non è così...), e troppo spesso l'offerta fa veramente tristezza.

    Le verdure "fresche" hanno colori smunti e aspetto affaticato, effetto delle migliaia di chilometri percorsi e della settimana intera passata sugli scaffali ad aspettare di essere adottate, quasi per pietà - il commesso spiegherà che anche un po' usate, quelle verdure fanno bene e bisogna comprarle anche se sanno di cartone.

    Ma il reparto fresco è diminutivo rispetto alla marea di scaffali di prodotti imballati in cellophane o imbottigliati in plastica, per la maggioranza importati dalla Germania.

    Perfino il pane è imballato in cellophane, e presenta una data best before che dà a qul pane una vita utile di vari mesi. Il pane bio nei negozi bio è un perfetto esempio di truffa industriale. Grazie a una normativa lassista, basta che il pane venga fatto con farina biologica, poi si può usare fino al 5% di ingredienti e additivi (la lista è lunga!) non biologici. Infatti se si legge bene l'etichetta, non è pane bio, è pane di farina di grano bio o pane "issu de l'agriculture biologique". Ricorda il vino bio vero fino a un anno fa, vero?

    Solo che per tenere due mesi sotto plastica ce ne vogliono di additivi! Avete mai provato a mettere pane fresco in un sacchetto per un mese? Potreste venderlo all'esercito siriano per fare la guerra... biologica! ;-)

    Ecco purtroppo come dicevi tu Luigi, è un settore che non può che crescere, anche perchè i margini sono molto attraenti. Ho provato a chiedere a produttori bio locali, dicono tutti che i supermercati pagano lo esattamente stesso prezzo per il bio che per il convenzionale. Ma poi lo rivendono con un sovrapprezzo che, almeno qui da me, va dal 40 al 100%.

    Anche per il vino, le cooperative pagano lo stesso prezzo, e i produttori di uva da vino bio qui dicono tutti che le loro uve finiscono mecolate con quelle non bio, che tanto alle cooperative non gliene importa nulla. Anche al coltivatore non gliene importa tanto, perchè qui il bio da diritto a sovvenzioni.

    Triste triste triste.

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    1. Mike,
      la situazione è quella che indichi tu ed è triste perchè con il bio si è lavorato in mera sostituzione di prodotti equivalenti a quelli convenzionali, non si è lavorato per una migliore qualità del prodotto, migliore retribuzione degli agricoltori, non si è ripensato alla filiera per cercare di vivificarla e rendere sostenibile l'agricoltura.
      Ora le società che sono in prima posizione da anni col bio si trovano in una situazione favorevole perchè si guarda a quel comparto con interesse e loro possono sfruttare rendite di posizione, ci sono comunque nouve realtà che scalpitano da dietro e hanno messo in atto una politica molto aggressiva nei confronti del mercato.

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    2. Forse il peggio deve ancora arrivare:
      proposta della commissione europea per vietare autoproduzione di cibo
      http://www.libreidee.org/2013/05/lue-piccoli-ortaggi-fuorilegge-vietato-prodursi-il-cibo/

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    3. La denominazione BIO non basta:
      se il prezzo del prodotto finito è inaccessibile ai più
      se il grano khorasan è un monopolio
      se è un prodotto di multinazionali e non di un artigiano
      se tra gli ingredienti troviamo aromi naturali bio, additivi bio, olio vegetale non identificato bio...
      La qualità ha bisogno di molti fattori per essere valutata,
      non solo di una importantissima certificazione bio, che come sappiamo, non significa zero chimica, ma individua parametri limite.

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    4. E' avvilente che concetti etici e pratici come biologico o equosolidale, che dovrebbero essere in qualche modo antagonisti di agrochimico/sistemico e orientato al profitto, possano essere utilizzati anche se solo applicati percentualmente. Per cui basta avere una percentuale di prodotto certificato per poterlo chiamare biologico o equosolidale. Diventa lapalissiano che l'industria possa usare questo tipo di "denominazione" a suo uso e consumo in modo proporzionale alla domanda commerciale.

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  2. Petrini aveva ragione, essere bio non è sufficiente.

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  3. Giuro, non è semplicistico disfattismo ma da qualsiasi punto di vista la si voglia vedere, bisogna che ce ne facciamo una beata e pacifica ragione:
    "l'occidente non è che un acceleratore della spontanea, quindi inevitabile, entropia terrena".
    Questo mr Guenon lo scriveva poco meno d'un secolo fa, immaginatevi fosse vissuto ai giorni nostri.
    Buon pomeriggio

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  4. Estrarre valore e mercificarlo per il puro profitto, questa è la parola d'ordine. Ogni atto contrario a questa logica è oggi un atto di resistenza ed è l'unica rivoluzione possibile. C'è ancora chi lavora per questo, questo è talvolta visibile. I nativi americani dicevano che finché si scorge l'arcobaleno c'è un ponte fra questo mondo e l'altro mondo, l'alleanza fra il genere umano e i grandi spiriti è sancita.

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