Didier
Gerbelle è un vigneron che mi è stato spesso citato in questi due anni.
FabrizioGallino e Enrico Togni lo apprezzano molto, mi fido di loro ma gli assaggi che
avevo fatto non mi avevano entusiasmato.
Poi
una sera, con Fabrizio in versione di oratore e divulgatore del verbo enoico
valdostano, mi è capitato un calice di Torrette di Gerbelle.
E
mi è stato subito chiaro che è un vino da ascoltare, capire, aspettare, a
tratti ostico.
Verrebbe
da dire che è come le montagne alle cui pendici nasce.
La
relativa durezza è subito anticipata al naso da profumi acidulati di radici,
vegetali, cupi, un po’ di gigliacee fanno capolino come i crochi quando si
scioglie la neve, note fumè, ematico, empireumatico.
I
profumi lanciano bagliori continui dal bicchiere, mutano e spingono con potenza
che sembra non esaurirsi mai.
Il
sapore è intenso, la leggera amaritudine ricorda la genziana, terroso,
erbaceo-piccante il tutto tenuto su da una acidità che ne fa da solvente e da
acceleratore sensoriale.
Un
vino complesso nel profilo aromatico e organolettico che viaggia in una terra
di nessuno della ricchezza, senza cadere nell’opuleza, sorretto dalle durezze e
aggregato da una quasi masticabilità, roccioso.
Innegabile
figlio del circolo virtuoso fra cultivar e luogo e vigneron, vino di terroir.
Composto
da petit rouge 70% poi cornalin e fumin, vitigni da studiare perché anche il
cornalin in purezza era molto interessante.
Alla
lunga Fabrizio e Enrico hanno fatto breccia nei miei pregiudizi.
Kempè
Luigi
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