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mercoledì 22 maggio 2013

Sarà una incomprensione voluta




Sarà una incomprensione voluta o figlia di una comunicazione approssimativa quella che porta il discorso del naturale a considerarne i vini come ruvidi o sauvage come mi diceva Patrick Baudoin al ViVit riferendosi ad alcuni vini naturali sia Francesi sia Italiani un po’ rustici.
Patrick è un produttore bio certificato della Loira che produce vini “precisi” e dritti con metodi a dir poco artigianali.
Vini, i suoi, che escludono, nei bianchi, macerazioni fermentative e/o postfermentative o tecniche ossidative potenzialmente “pericolose”.

Comunque sia, continuo a pensare che non ci sia logica nel sillogismo fra vini “rustici” e vini naturali.
Almeno io credo.
Piuttosto ravvedo una separazione fra vini di pensiero e vini di terra.
Tra l’immagine del vino e il vino stesso.

Nei bianchi poi l’accanimento tecnologico ha portato la produzione media e il gusto del consumatore verso profumi e sapori un po’ lontani da quelli ottenibili in quasi assenza di tecnologia (al punto che De Bartoli produce, quasi su ordinazione, un Grillo e uno Zibibbo Integer differenti da i Grappoli del Grillo e dal Pietranera proprio per la volontà di non utilizzare lieviti secchi, il freddo e le filtrazioni).

Piccole modifiche dei protocolli portano a vini diversi ma non per questo ruvidi.
Cambiano le caratteristiche organolettiche e mediamente, a mio avviso, diventano più masticabili (magari per effetto dell’assenza di chiarifiche e/o filtrazioni spinte e/o un uso estremo del freddo).

Si lega a questo discorso un articolo di Jacky Rigaux che ho letto ultimamente e che riguarda l’attuale preponderanza dell’olfatto sul gusto nella analisi della qualità dei vini, l’analisi olfattiva è invenzione recente ma è diventata prevaricante su quella del sapore, del tatto.
“Il vino è fatto per essere bevuto e non per essere annusato” diceva Henry Jayer.
Forse questo spiega perché molti vini costruiti per essere profumati finiscano la loro corsa nel naso e muoiano in bocca e non aiutino negli abbinamenti col cibo.

Comunque sia, naturale non è sinonimo di rustico ma sicuramente questi nuovi vecchi vini pongono il problema di ripensare le categorie percettive e ci obbligano a masticarli un po’ di più anche in senso fisico intendo.

Queste riflessioni un po’ stantie, lo ammetto, mi son scaturite dopo l’annuncio della creazione di un padiglione bio al prossimo Vinitaly.
Il padiglione bio, oltre ad aumentare la confusione fra sedicenti naturali e pubblico, mi pare, approfondirò, un escamotage molto scaltro per traghettare l’industria verso i verdi lidi del para naturale, d’altronde il protocollo di produzione del vino bio è una emanazione enotecnica con sbuffi new age for dummies che non ha nulla a che fare con i veri vini artigiani.
Kampai

Luigi

12 commenti:

  1. Molte volte tanti vini che ci piacciono un po' puzzano, per l'olfatto comune. E` li che drizzo le antenne e presto attenzione ad un vino, basta poi saperlo aspettare un po', per capire se e` difetto o semplice protezione naturale del vino, ovvero riduzione.
    Condivido a pieno l'articolo, ma di una sola cosa pecca la tua riflessione ed in genere tutte le critiche o gli elogi ai vini naturali: si parla troppo poco di uva, di vigne e di terra!

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    1. Francesco,
      grazie di essere entrato al Bar.
      La terra, le piante è discorso che ho affrontato altre volte e che mi è molto caro ma lo spazio limitato di un post (e i miei limitati neuroni) non permette sempre di ampliare la trattazione oltre i limiti di attenzione del lettore del web, ne riparlerò della terra, dei luoghi, delle piante, al più presto.

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  2. Concordo con Francesco, molto spesso si parla poco di terra e di uva, ma da semplice consumatore l'analisi (modestissima) sul prodotto finito è l'unica che posso permettermi di fare.
    Aspettare o "masticare" un vino credo possa essere un valore aggiunto a chi piace bere in un certo modo, che deve metterci anche un po' del suo per capire cosa beve e magari apprezzare il lavoro di tanti piccoli produttori, che credono fermamente nel loro lavoro e riescono spesso ad offrire prodotti di prima qualità, la loro passione per l'uva, per la terra, per un metodo di lavorazione più incentrato sul rispetto è coinvolgente.

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    1. il processo che porta alla intuizione (la comprensione mi sembra inarrivabile) del fattore terroir sui vini è lunghissimo e faticoso e necessita assaggi e memoria. Però dà soddisfazioni pazzesche, sentire la variabilità un vitigno in base ai terreni, alla vecchiaia delle piante e tutti i loro possibili incroci è pura emozione.
      Però penso che prima di tutto vada preservata la vitalità dei luoghi sia agronomicamente sia in vinificazione.
      Oggi ho voluto parlare della seconda componente e della mistificazione cui può cadere il vino "naturale e artigiano" quando rientra nelle rigide certificazioni.

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    2. Purtroppo nel nostro bel paese le mistificazioni sono all'ordine del giorno, soprattutto quando si parla di piccoli produttori/imprenditori.
      Quando si assaggiano certi vini è emozionante "intuire" la mano che ha lavorato a quel vino, il terreno sul quale è cresciuto e magari la filosofia che ci stà dietro al tipo di produzione.
      Preservare la vitalità dei luoghi di produzione, interagire in maniera semplice e moderna con il pubblico e soprattutto garantire al consumatore un certo modo di produrre vino, credo possa essere un valora aggiunto sul quale investire.

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  3. Lo dicevo su twitter oggi, ma lo spazio limitato impediva una riflessione che invece mi piacerebbe sottoporvi.

    Quando ho iniziato a lavorare con i lieviti autoctoni non sapevo cosa aspettarmi: sapevo solo che volevo percorrere una strada differente dalle grandi, grandissime aziende che lavorano nel mio stesso territorio, e con le quali era impossibile competere per un’azienda piccola come la mia. E’ vero, sono partita da una riflessione economica e non da una scelta tecnica: questo perché la mia formazione non è di agronomo, né di enologo, e forse il bernoccolo del commercialista è quello che mi prude sempre per primo. Sarà deformazione, ma l’importante è arrivarci.

    Comunque: nel 2010 ho iniziato con i lieviti indigeni, e subito ho evidenziato quello che dice Luigi nel post. I vini sono molto, ma molto meno esplosivi al naso e hanno completamente perduto ogni riferimento olfattivo ai frutti tropicali e a quelli rossi. All’inizio questa minore intensità olfattiva l’ho vissuta come una diminutio, senza capire che invece era – ed è – il punto di forza dei miei vini. Perché quello che ho perduto in intensità l’ho guadagnato in espressività, in finezza, in complessità e persistenza. Soprattutto in bocca.

    Inoltre, non ho riscontrato nessun aumento della rusticità, anzi forse il contrario. Per questo credo che la rusticità sia molto un prodotto del terroir e molto poco un prodotto della lavorazione. Quando lavori in modo che il terroir si esprima al massimo, avrai rusticità se questa è caratteristica di terroir o di vitigno (penso al perricone), non perché la tecnica meno invasiva che usi produca automaticamente vini più rustici.

    My two cents,
    M.

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    1. Grazie Marilena,
      anche secondo me sei sulla strada giusta e i tuoi vini lo stanno dimostrando.
      Rigaux nel suo intervento deprecava lo sbilanciamento verso l'analisi olfattiva che le scuole di somellerie hanno abbracciato mortificando l'analisi tattile di gusto e retrolfattiva.
      http://www.anthocyanes.fr/de-la-mineralite-par-jacky-rigaux-reponse-a-larticle-de-la-rvf-revue-du-vins-de-france/

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    2. L'aspetto olfattivo è importante ma sicuramente meno rilevante, certi vini al naso e in bocca sembrano due cose completamente diverse, ma a mio modestissimo parere è quando viene bevuto che deve esprimere le sue caratteristiche, di uva, di terra, di lavorazione e di clima, se intendiamo come "rustici" vini di questa tipologia allora posso pure concordare, ma se li intendiamo come vini semplici o "prodotti come una volta" allora mi troverei meno d'accordo.

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    3. Grazie Luigi, ho letto l'articolo, illuminante.
      Molto interessante la parte in cui si cita la scuola italiana per aver catalogato 40 riconoscimenti olfattivi e solo 3 gustativi. Fa molto riflettere...

      Marcello: credo che il termine rustico non abbia in sè significato negativo, ma descrittivo di alcune caratteristiche organolettiche. Per questo lo lego essenzialmente al terroir, e non alla tecnica di vinificazione...

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    4. Marilena,
      la rusticità infatti è una di quei descrittori da rivedere e comunque nei tuoi vini non compare mai, l'eleganza è la loro caratteristica.
      Rusticità certe volte io la riscontro nei rifermentati ma non saprei bene come descriverla mah!

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  4. Qualcuno oggi sul Cinguettante denunziava la banalità di codesto scritto che invero descrive alcune questioni già molto spesso argomentate. Ma chi accusa di banalità della stessa perisce, per la semplice ragione che il tema è complesso e pieno di sfumature e verità vere, ma facilmente oppugnabili. Preziosissimo secondo me il percorso di Marilena che procede con la sufficiente tranquillità per poter leggere più chiaramente alcune differenze fra far lavorare o no i lieviti locali e presto anche tra filtrare e non farlo, chiarificare e non. Per me questo è un percorso di verità che solo Marilena può davvero cogliere nel suo intimo, ma di cui anche noi tutti possiamo partecipare. Sul discorso rusticità non ci credo che qualcuno possa affermare che lavorare naturale in vigna e senza tecnologia in cantina porti a vini rustici necessarimente, visti i celebri esempi contrari. Su questo forse questo scritto e quello citato sono un po' deboli. Nel senso che ci si contrappone a una visione che forse non esiste se non nella mente di qualche incompetente che non conosce nulla di vino.

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    1. Non ho letto le critiche, mi tengo lontana dalle polemiche per carattere. Mi piace, invece, capire e cercare di imparare dai miei errori e dall'esperienza degli altri.
      Prendiamo il vino, stappiamolo, aspettiamolo, ascoltiamolo. Secondo me è l'unica strada per arrivare da qualche parte.

      PS: sul rustico ho detto sopra :)

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