Disclaimer: vino in
conflitto di interessi.
Jean Claude Rateau è il
perfetto stereotipo del “Gallo” dei fumetti di Goscinny e Uderzo, alto, dinoccolato
con baffoni sale e pepe, occhi melanconici che guardano chissà cosa.
La sua timidezza e
riservatezza sono incredibili, per sentire la sua voce bisogna interrogarlo
duramente.
Sembra arrivare da un altro
secolo eppure guardando le sue etichette, molto belle a mio avviso, si intuisce
che sa bene in che mondo viva, anche se la sensazione è che non ne approvi
tutte le sue manifestazioni.
Unisce una grafica molto
contemporanea a un uso ormai trentacinquennale della biodinamica, è del 1978 la
conversione dei vigneti.
Assaggiando i suoi vini mi
pare di intuire nel bicchiere, tutto questo suo lavoro sulla terra e la sua
vitalità.
I suoi bianchi sono molto
minerali, salati alcuni, sfaccettati e caleidoscopici, mai caricaturali, sempre
affilati e pervasi da una acidità vitale.
Riesce a tirar fuori da un luogo,
la Haute Cote appunto, un po’ marginale rispetto ai Gran Cru, spesso su pendii
più ripidi e altitudini maggiori, dei vini delicati, in “levare”.
Timidi è la parola giusta
quasi che il liquido fosse effige del carattere del vigneron.
Questo bianco ha una colore
pallido, dei profumi delicatamente citronnè, caleidoscopici, mutevoli e la
beva acido salata.
Ci deve essere silenzio per
assaporarlo.
Uve provenienti da un
vigneto esposto a est con impianto a “lira aperta” (una forma piuttosto
anomala, penso, attendo delucidazioni) con sesto d’impianto non fittissimo.
Vinificato con fermentazioni
spontanee (con buona pace di chi dice che i bianchi cosiffatti sono pochissimi)
e affinato in legno piccolo usato per circa un anno.
Uno chardonnay nordico.
Elegante.
Degustato la prima volta con
Nicola Barbato (alias il commercialista del vino) e Patrick Ricci, ci ha preso
in contropiede proprio per questa esilità che abbiamo subito subito scambiato
per evanescenza.
La seconda volta con più
calma con Vittorio Rusinà che continuava a tuonare “dammene ancora! Mica lo
vuoi tenere per domani!”.
Kempè
Luigi
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