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mercoledì 11 luglio 2012

Geografia dell’anima



Paesaggio come conoscenza. 

Non so come, non so perché ma un giorno mi è capitato fra le mani un testo di Franco Farinelli e leggendolo (con estrema difficoltà a dire il vero) mi sono imbattuto in una definizione della geografia che mi ha colpito.
Si dice che la geografia “rappresenta le cose naturali secondo le loro specie e le loro famiglie” ma al contrario delle scienze che fanno capo all’economia della natura, le rappresenta “secondo il luogo della loro nascita, o i luoghi sui quali la natura le ha collocate”. Le rappresenta cioè secondo il principio di vicinanza o prossimità, l’una accanto all’altra così come davvero nella realtà si danno, cosi come la macchia mediterranea si offre come una sola organica unità al nostro sguardo. Mentre secondo il metodo di Linneo, che ancora oggi fa testo, essa si compone di essenze non soltanto distinte, ma appartenenti a specie, generi, famiglie, ordini e classi diversi…
Il problema che pone è enorme e decisivo, e riguarda in ultima analisi la ragione della differenza tra l’immagine scientifica del mondo e quella che invece ne abbiamo quando al mattino spalanchiamo la finestra, quando insomma consideriamo il mondo come se fosse un paesaggio.  Soltanto in tal senso, le cose del mondo si danno l’una accanto all’altra, coesistono nella loro unità e sono percepite nel loro complesso, prima di ogni disarticolazione e riflessione.

Foto di Ibleo
L’introduzione della cartografia scientifica e dell’ansia della restituzione grafica ha portato tutti noi a considerare i Luoghi come Spazio ma:

“Spazio è una parola che deriva dal greco Stadion. Per gli antichi greci lo stadio era l’unità di misura delle distanze, e significava dunque alla lettera un intervallo metrico lineare standard. Ne deriva che all’interno dello spazio tutte le parti sono l’un l’altra equivalenti, nel senso che sono sottomesse alla stessa astratta regola, che non tiene affatto conto delle loro differenze qualitative. Tale regola è quella rappresentata dalla scala e indica il rapporto tra le distanze lineari del disegno e quelle che esistono nella realtà. Luogo, al contrario, è una parte della superficie terrestre che non equivale a nessun altra, che non può essere scambiata con nessun altra senza che tutto cambi. Nello spazio invece ogni parte può essere sostituita da un’altra senza che nulla venga alterato, proprio come quando due cose che hanno lo stesso peso vengono spostate da un piatto all’altro della bilancia senza che l’equilibrio venga compromesso.”

Forzando il ragionamento al mondo enologico si potrebbe dire che il vino di territorio sia il paesaggio nell’accezione geografica e il vino dei vitigni sia l’interpretazione scientifico analitica dello stesso.

In realtà il paesaggio, come insieme di cose legate dalla mera prossimità vacilla per effetto della vivisezione economico-tecnica e la sua  distruzione è prossima al compimento.

Espressione di antichissimo saper fare, la policoltura mediterranea che riuniva sullo stesso campo tre piani di coltivazione, l’uno sovrapposto all’altro: quello erbaceo, quello dell’arbusto (la vite), quello dell’albero ha dato vita a sofisticate architetture campestri disegnate dalle trame dei filari.
La società, la religione, gli usi, i mercati locali disegnavano il paesaggio che ne era a sua volta immagine.


Con la smaterializzazione della realtà e delle economie e la delocalizzazione delle decisioni e dei mercati, il paesaggio policolturale (e quello rurale tout court) sparisce.


Foto Sergio Boccadutri

In realtà questo processo ha origini antiche ed è imputabile alla cartografia che ha sancito la superiorità dello spazio bidimensionale ed euclideo, misurabile e quantificabile e rappresentabile sulla complessità irriducibile a semplificazioni della Terra.
Al punto che il territorio rurale, le città sono diventate copia della cartografia e delle sue tecniche di rappresentazione.
La preminenza di strade, ferrovie, reticoli stradali, canali che squadrettano in linea retta con logica rigidamente cartesiana i luoghi non sono altro che la trasposizione sul reale dell’elaborazione teorica dei geografi e cartografi.
Un esempio sono le mappature (foriere di valori extra o terribili, quanto ingiustificati, declassamenti del valore fondiario) dei cru di Bordeaux.
Questa operazione figlia di una visione mercantile ha operato ex lege una suddivisione dei vigneti e dei luoghi del tutto innaturale, perché in natura non esistono confini, tutt’al più fasce intermedie fra luoghi diversi e non righe bianche e cancelli che determinano un fuori da un ipotetico dentro. Perché la Terra, i luoghi sono ricorsivi, unici e non isotropi.
L’isotropismo è un escamotage della rappresentazione che permette di inserire le cose del mondo all’interno di un reticolo misurabile in cui l’unica regola è la loro reciproca distanza e mai e poi mai una cosa potrà essere nell’altra. Invece è esperienza di tutti quella di trovare molluschi, insetti ma anche intere città inglobate nelle rocce, negli strati geologici.

L’ansia contemporanea della mappatura dei cru (e non solo loro), mi pare risiedere nella volontà dell’uomo contemporaneo di conoscere i luoghi non attraverso l’esperienza reale, fisica ma attraverso l’immagine cartografica dei luoghi, ritenuta oramai più affidabile della realtà (senza considerare che la fruizione della cartografia con mezzi digitali opera un’ulteriore smaterializzazione dell’esperienza).

In un commento alla pubblicazione delle mappe dei cru bordolesi il recensore (in buona fede) ha scritto: ” che (la mappa) permette di scoprire uno ad uno i vari Chateau, e capire dove si trovano nella realtà.
E’ inutile ricordare all’estensore che gli Chateau si trovano già nella realtà e non c’è di bisogno di una cartina per rendere reale la loro presenza. Tutt’al più calarli nel reticolo geografico ci permette di misurarne le dimensioni, le distanze ma nulla ci dice delle loro qualità che rimangono un atto di fede.




E il luogo ridotto a rappresentazione, perde tutti quei legami di prossimità e di unicità che lo rendevano specchio della complessità irriducibile del reale.
Un esempio sulla inanità dello spazio isotropo è l’esperienza che mi è stata raccontata da Andrea Buzio.
Voleva dividere il mosto di un vigneto in due parti uguali partendo dalla vendemmia e non dalla massa.
Ha vendemmiato metà filari, facendo attenzione a bilanciare esposizioni, presenza di viti giovani; ebbene a fine ammostatura i dati analitici gli davano due mosti completamente diversi per acidità e tenore zuccherino!

Mi chiedo se un’esperienza del genere non metta a dura prova il concetto di territorio e di cru inteso come porzione di spazio euclideo e non richieda, invece, approfondimenti più complessi.

Mi chiedo come si possa parlare ancora di terroir quando la sostenibilità e la convenienza di una piuttosto che un’altra coltura è determinata da decisioni e mercati immateriali e dispersi.
E le stesse comunità rurali hanno smarrito il loro legame naturale con i luoghi di appartenenza e il loro corredo di esperienze e legami sociali.

Mi chiedo anche come si possa ragionare scindendo l’organismo agricolo in parti, rendendo impossibile (economicamente) la sua integrazione in quanto processo unico.

Foto di Danilo Gatti

Questa perdita ha generato l’attuale paesaggio, invaso da oggetti apparentemente casuali e decontestuali in cui si è smarrito il radicamento, sostituito dalla logica della misurabilità metrica (sia dimensionale sia cartografica sia economica).
Le monocolture, anche quelle viticole, segnalano la perdita di senso (o meglio ne derivano il senso al di fuori della prossimità geografica) del paesaggio e delle società che non lo determinano più per legami di vicinanza.
L’assalto del cemento privato, delle mastodontiche cattedrali del commercio e dell’industria, delle iper-invasive reti infrastrutturali disegnano una mappa di entità che al paesaggio non appartengono come orizzonte di senso ma sono emanazioni di un mondo economico, politico, tecnico smaterializzato.

Ormai guardando i nostri luoghi non comprendiamo più nulla della nostra storia contemporanea (sempre che ci sia qualcosa da capire) il senso è remoto, forse, inarrivabile, sicuramente molto impoverito dal punto di vista etico.



4 commenti:

  1. Forse può interessarti "Terra sapiens. Antropologie del paesaggio" di Matteo Meschiari. Il testo ha un approccio meno filosofico ma molto interessante al rapporto mente-paesaggio-cultura. Meschiari ha anche un sito ricco di spunti di riflessione http://96.127.180.186/~matteome/index.php

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    1. Grazie Lucia per i suggerimenti, che mi sono sempre molto utili e positivamente destabilizzanti, e per l'intervento.
      Lo studio continua...

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  2. Sarebbe il caso di chiederci se vale la pena davvero sospendere l'applicazione di regole etiche all'interesse individuale, in nome del mercato. Perchè questa è la definizione moderna di spazio e di territorio : investimento, produzione, reddito, redistribuzione, un mero oggetto da incentivare. E la geografia si riduce a mappa satellitare per navigatori.

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    1. Certo è su questi concetti che sto ragionando e per adesso sto navigando a vista nella nebbia più fitta.

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