CAPITOLO 3: SOLFITISMO E LIEVITISMO
Capita di andare nella mail e capita, a volte, di trovare delle cose interessanti. Come l'ultima lettera di Porthos. Che apre con la trascrizione della registrazione di una tavola rotonda su I Vini Senza Solfiti prodotti da
E, poco sotto, ZAC... quei furboni di Porthos ci infilano una miniatura di Sandro Sangiorgi intitolata "Solforosa (Quasi) Zero". Leggetela. Si parla di equivoco, ignoranza, superficialità. Si parla di "...opportunismo con il quale alcuni enologi di grido hanno cambiato idea..." Sangiorgi parla di quel blackout del ragionamento che porta molti all'associazione "assenza di solforosa aggiunta=essenza della naturalità". Una medaglietta da mettere sul petto dell'industria per ricandeggiarsi la coscienza e ricompilarsi il curriculum in verde. E parla, puntualizza, dà la stoccata finale invitando a sviluppare la "...capacità di cogliere un vino sano."
Ed è vero. L'aspetto della solforosa è uno e vale per uno (io ne scrissi qui). E' un ingranaggio tra i 100 per arrivare da qualche parte. Non innesca e non dimostra niente se non un'attenzione verso la salubrità del prodotto. E' una delle tante conseguenze di un pensare biologico/artigianale che vuole sanità e benessere per sé e per gli altri, di un ragionamento su cosa si vuole fare per produrre un vino sano, buono, col minor impatto possibile sull'ambiente. Una delle tante conseguenze. Come l'uso di lieviti autoctoni.
I lieviti.
Se ne parla meno o, perlomeno, c'è una percezione meno diffusa dell'importanza dei lieviti. Eppure importano. Eccome.
SOTTOCAPITOLO 1: E ADESSO QUALCHE ESEMPIO PER CAPIRE MEGLIO DI COSA SI PARLA E DOVE ALLA FINE SE NE CAPIRA' MENO DI PRIMA
Qualche anno fa ero ad una verticale di un vino che amo molto in un posto che amo molto e con presente il produttore (a cui voglio molto bene). 10 annate dalla prime prove da garage alle ultime bottiglie fatte sempre in garage ma con maggiore consapevolezza. E almeno 3 campioni assoluti, parametrizzati sopra i 90/100. Vini prodotti in biologico fino a un certo punto e poi in biodinamica. Vini che conoscevo discretamente bene essendomi scattata una sorta di Sindrome di Stoccolma dalla prima volta che ne assaggiai una bottiglia. Ma di cui non avevo sviscerato fino in fondo le evoluzioni produttive. Cioè, andavo in cantina, giravo per le vigne, assaggiavo dalle botti, pensavo/dicevo "Questo è buono, questo meno, questo te lo rubo dopo averti colpito in testa...", cose così. Ma quella sera il produttore è stato presentato alla sala, ha salutato e ha iniziato a spiegare com'è arrivato a fare vino e quali tortuosi percorsi ha seguito. Gioie, affanni, paure fottute. Guardare l'uva e scagliarle un martello e dire: "Perché non mi parli?" Pensare: "Che bella uva. Adesso solo io posso mandare tutto a puttane." E viene fuori quello che per lui è stato il salto decisivo. Il suo triplo carpiato. Il passaggio alla biodinamica e ai lieviti autoctoni. Inizia a parlare della prima volta che non ha usato quelli selezionati. Che possono essere tuoi buoni amici, quelli che ti rendono la vita facile, che ti prendono da parte e ti dicono che ci pensano loro, che non ti devi preoccupare, che puoi andarti a fare un giro. "Facciamo tutto noi", ti dicono. Questi amichevoli lieviti selezionati sono belli e bravi, ti fan partire la fermentazione, ti seccano tutto in un secondo, ti mettono il vino su un vassoio d'argento. E hai bisogno d'altro? No, perché se vuoi, ti aggiungono anche qualche aroma. Vuoi più banana? Meno banana? Che ne dice il signore di un bel tripudio di frutta tropicale? La mettiamo?
Dietro una cosa facile, c'è facilmente una fregatura. Così ha pensato l'agricoltore che è in lui. Si è informato. Ha chiesto. Ha osservato. E un anno ha deciso. Basta aggiungere lieviti. Ha pigiato l'uva e si è messo ad aspettare. E si è quasi letteralmente cacato addosso (=molto spaventato). La fermentazione partiva e si fermava. Lui con la bustina dei lieviti amici in mano. "Usaci", gli dicevano. Ma lui ha resistito. Ha dormito poco. Si è grattato tanto la testa (adesso è quasi calvo). Ha calcolato mentalmente quanti ettolitri di quasi-vino avrebbe buttato nel cesso. Il giudizio su sé stesso oscillava tra il genio e il coglione. Ma alla fine è partita (la fermentazione). E dopo tanti anni era lì a raccontarci il lieto fine. E di come i vini fossero migliori. Più ricchi. Più stabili. Di come quel salto nel vuoto (metaforico) fosse stato importante concettualmente e materialmente. Ora era un viticoltore più felice.
Applauso. Poi torno sui vini, me li ringollo tutti e faccio i miei conti. E il grafico mentale della serata portava a questa conclusione: 2 su 3 dei vini migliori erano dell'era pre-lieviti autoctoni. Ho scrollato le spalle. Mica si può capire tutto subito. Anzi, mica si può capire tutto.
Qualche anno dopo. Sono a cena con Kurni, Kupra e Casolanetti. A me Kurni piace tanto. A volte tantissimo (2004 e 2005). A molti non piace. Lo stappano solo per il gusto di berne un goccio, fare la faccia schifata e buttarlo nel lavandino. Qualcuno mi ha detto che fa così. Mi ha detto che è tanto, troppo. Che è dolce. Che costa troppo. Che non è fatto per essere bevuto. Che sembra olio-motore. Che è proprio il concetto che è sbagliato. Che con un po' d'acqua gassata va giù meglio. Sono gusti. Preferiscono l'eleganza. Che non è chiaro cosa sia. Forse l'equilibrio. Forse la sottigliezza. Forse qualcosa che non ti turba. Forse una cosa con meno sapore, un buco con del pensiero attorno. Non lo so.
Casolanetti è un Mago Merlino. Però meno quello della Disney e più quello di Excalibur. E' un chimico new-age. Sa un sacco di roba. Beve il mondo e Kurni vuole conquistare il mondo. Vuole giocare in Champions League, anche se viene da una zona che è (era) serie B. Eccheccazzo, se fai un lavoro e ti piace, dovrai avere qualche ambizione.
Comunque. Si parla di reazioni chimiche. Di cosa ti piace bere. Di legni. Di Rodano. Di solfiti. E di lieviti. E dico di quel produttore amico e del passaggio agli autoctoni. E butto lì la cosa dei vini buoni coi selezionati. Casolanetti dice: "Attenzione!" Se Casolanetti dice Attenzione, io sto attento. Il fatto è che il passaggio ad un uso dei lieviti autoctoni non è automatico e, soprattutto, non avviene dal mattino alla sera. I lieviti sono tenaci. Sono bastardi. Possono rimanere nell'ambiente per anni. Possono incrociarsi e rimanere attivi. Sono come gli acari: non li vedi ma ci sono. Mica che ti rovinano tutto. Non c'entra. Si ricombinano. Ma a volte pensi che non ci sono più.
Ma porcaccia la miseria. Ho pensato. E adesso che si fa? ho detto.
Niente. Ha detto Casolanetti. Bevi quello che ti piace.
Tanto le chiacchiere stanno a zero (solforosa).
CAPITOLO 4: TERROIRISMO: PENSIERO E AZIONE
Torniamo sull'eleganza. E' una bella parola. Fuffosa. Cioè, morbida e generica. Ci si può infilare dentro quello che si vuole. Mica da tutte le parole. E l'altra parola fuffosa è terroir. Ne scrissi già qui (sono molto soddisfatto delle 3 ore che persi a fare l'immagine a inizio post). Facciamo del casino e infiliamoci dentro anche le parole territorio e tradizione. E' chiaro, sono la sacra Trimurti del vino. Le mischiamo tutte insieme e ci aggiungiamo un viticoltore virtuoso ed ecco fatto il vino. Cioè, mancano le uve. Quelle uve che tradizionalmente stanno in quel territorio e che si esaltano nel terroir. Che da decenni stanno lì. Una zonazione pre-scentifica, la pratica empirica che ha portato quella uva ad esaltarsi in quella zona. Che bello.
Ma c'è un problema. Il problema è che siamo in Italia. Mica in Francia (nota 2). Noi, che per mentalità cementificheremmo pure i parchi nazionali e le lettiere per i gatti. Noi che dalla fame vera del dopoguerra siamo esplosi selvaggiamente e abbiamo fatto tante cose belle, un frigorifero in ogni casa e la Dolce Vita. Che le industrie andavano che era una bellezza e gli imprenditori giravano con borsoni pieni di lire. Che la modernità s'era conquistata a bastonate e Big Pharma diceva Spruzza Produci e Crepa e il contadino moderno spruzzava e spruzzava e spruzzava. Che dalla fame è un passo arrivare alla bulimia. Che si è spiantato tutto lo spiantabile e si è macchinizzato tutto il meccanizzabile. Che vecchio era una parolaccia e s'è sputtanato un patrimonio di vigne storiche nel nome dell'iperproduzione. Noi che siamo quelli dell'Iper e dell'Ilva.
Ma, stranamente, qualcosa ne è uscito vivo. Qualche territorio ha preso bastonate su bastonate ma ha resistito. Che strano. Il territorio è una tegna. Qualche uomo ha iniziato a ragionarci sul territorio, sulla terra. Raggiunto un colmo, si è iniziato a svuotarlo. Qualcuno ha iniziato a studiare e qualcuno è andato solo a sentimento. Qualcuno ha salvato vecchi vigneti. Ha pensato prima di tutto a ridare vita alla terra. Ha pensato al gesto più antiretorico che potesse fare e quel gesto era la preservazione di un territorio, anche solo di un giardino. Forse si è solo rotto le balle di tutto. Forse è solo quello sapeva fare.
E se gli chiedi, Cos'è il territorio?, prima ti racconta cos'era quel posto in cui sta lui qualche anno fa e sembra tutto un horror giapponese, e poi ti parla di cosa è adesso e vedi una luce in fondo al tunnel. Vedi una prospettiva e vedere una prospettiva a volte è grasso che cola.
Il territorio non è niente. La tradizione non è niente, non qui, non dopo quello che è successo. E' qualcosa che IO definisco col mio lavoro. Il terroir siamo io e le mie vigne. Ecco cosa ti dice.
CAPITOLO 5: DEGUSTAZIONISMO ED SENSAZIONALISMO
Chessò, a me piacciono le chiavi a brugola, vado matto per le brugole (e, di conseguenza, sono matto e basta), le brugole sono la mia grande passione e so che è una passione minoritaria, cioè, lo so che siamo pochi, ma tant'è, vivo quasi per le brugole e vado ogni mese nella mia edicola preferita e mi faccio dare la mia rivista preferita, "Brugola Oggi", e sono tanto contento perché ci sono tanti approfondimenti e interviste a chi fa le brugole e recensioni, un sacco di recensioni di brugole. Ma poi un giorno apro la rivista e scopro qualche articolo di colore, gossip e minchiate varie, e penso che intanto deve essere dura fare del gossip sui produttori di brugole ma, dopotutto, non c'è niente di male, magari lo fanno per ampliare il pubblico che di soli amanti delle brugole non si vive, pazienza, salto quelle pagine e vado al sodo, alla ciccia, alle recensioni, voglio sapere le ultime produzioni, voglio i soliti test di resistenza e i giudizi, e il brugolista che è in me ha un leggero moto di sconforto perché sono state quasi tagliate, ridotte, messe in fondo, emarginate. "Ma che succede?" penso mentre sfoglio il giornale sul cesso (=toilette).
Ecco. Sostituite Brugola con Vino e Edicola con Web e continuate a chiedervi "Ma che succede?".
Se lo sono chiesto in questo post anche i ragass di Slowine. La loro domanda ha una base di partenza opposta ma l'approdo è uguale. Dicono, noi pubblichiamo tante cose tra cui tante degustazioni ma questi assaggi acchiappano poco, le leggono in pochi e non ci sono commenti (ed è un vuoto pneumatico quando succede, ma, riflettendo, scatta la nota 3) e non capiamo perché, forse perché le riunioni di redazione si svolgono da ubriachi, ma non è questo il punto e noi vogliamo saperlo il perché, come dire, assaggiare vini e spiegarli è una parte discretamente importante di un sito che parla (appunto) di vino. E per non rompersi la testa contro un muro a forza di pensarci, hanno democraticamente pensato di chiedere dei pareri a dei masticatori di web, a gente che c'ha i tabulati coi contatti-al-minuto sotto il cuscino e qualche calcolo l'ha fatto e s'è dato una risposta. La prima risposta è quella che vale e la prima risposta è quella di Alessandro Morichetti di Intravino. Morichetti parte col botto: "Le note d'assaggio in senso stretto sono mediamente poco interessanti." Il botto mi è arrivato in piena faccia. E' che sono un feticista delle note d'assaggio. Naturalmente Morichetti articola il suo pensiero e io sono già in posizione fetale a proteggermi: "Aiutano uno spunto preciso, una dritta [...] Funzionano assaggi particolari, batterie miste [...] Se tu autore stimoli, toccando qualche corda che mi interessi pur non avendo magari assaggiato il vino, io lettore raccolgo l'invito [...] E' molto importante dare un taglio immediatamente percepibile da parte del lettore..." Poi ci sono altri. E un altro passaggio che mi ha fatto scattare un campanello. Ed è Franco Ziliani che dice, tra l'altro: "[...] da me forse la gente si attende il sangue e quando parlo bene di una cantina il dibattito si ammoscia." Ziliani passa per uno incazzoso, uno che ti aspetteresti in pantacalze e camicia a sbuffi per sfidarti a duello all'alba. Uno che ha una riconoscibilità gustativa ed è una cosa enorme al giorno d'oggi, anche se i suoi parametri non sono i miei. E qui riflette sulla pruderie e sul sensazionalismo, sul fatto che sul web è meglio (è meglio inteso quantitativamente) dare mazzate e usare il sangue come esca per il pubblico/squalo.
Tutto ciò ha un fondo di verità e stimola .
Ricapitolando: ci si chiede se è vero che parlare di vino bevuto interessi meno del vino parlato; si riflette su come attirare visite e/o commenti; Morichetti dice che bisogna stimolare stimolare stimolare (è il verbo dell'anno in un mondo supposto ad encefalogramma piatto) e toccare qualche corda, e la corda da toccare può essere un vino famosissimo o sconosciutissimo o valloacapire, e ci vuole un taglio percepibile e il taglio percepibile sarà lo stile (fresco, disincantato, agile, stringato, non matusa); Ziliani constata che quando picchia, c'è il picco; gli slowiners fanno mea culpa sui termini astrusi e complicati e cercheranno una via lessicale e contenutistica che possa piacere di più e, magari, sono pronti ad inserire le valutazioni, le faccine, massì, pure i voti se servirà a mantenere più alta la soglia dell'attenzione che sul web (questo non lo dicono ma scommetto che lo pensano) è quella di un bambino affetto da ADHD.
Insomma, ci si chiede un World Wine Web For Dummies. E io, nell'autorevole rappresentanza di me stesso, ci metto la faccina: da lettore lo stimolo mi arriva quando si parla di produttori e di vino e dalle due cose capisco come lavora il primo e com'è il secondo, altrimenti sul gossip e la presa per il culo (=ironia greve) lo stimolo mi porta dalle parti della toilette; lo stile per me è tutto perché lo stile è il veicolo culturale dell'interlocutore e se lo stile non è solo una cortina fumogena prodotta dall'ego, allora va dritto al punto e rende piacevole e chiaro il concetto (e mi vanno bene tutti, dal neo-minimalismo al reportage poetico, dal barocco al classico, anche la slenzuolata descrittiva); se allo stile si unisce l'autorevolezza (vedi cap. 2), ti leggerò sempre e seguirò i tuoi consigli per gli acquisti; a me piacciono i termini astrusi e complicati e come diceva un mio caro professore prima di bacchettarmi le mani, se non capisci una parola e ti senti un cretino, può anche darsi che quella parola sia sbagliata in quel contesto o sia usata a sproposito o sia solo uno sfoggio onanistico di bravura, ma nella maggior parte dei casi non è così e basta un vocabolario e vedrai che sentirsi un cretino può essere un'occasione di arricchimento; e si, viva la squola e rivoglio i voti.
Nota 1: Un uomo/gatto che vogliamo ricordare per le sue 7 vite, un piccolo Buddha capace di reincarnarsi in qualsiasi cosa nell'arco dello stesso mese (giorno), Mister Merlot, l'uomo che trasforma l'opinione in un disturbo bipolare, che prima smutanda chi non mette solfiti e poi si fa fotografare sorridendo mentre fa un rogo di solfiti, l'enologo italiano più famoso del mondo e di questo gli siamo grati (davvero), uno sdoganatore del vino italiano. Cioè, di un certo tipo di vino italiano, dimostrativo e da competizione, hulkizzato e rassicurante tutto insieme. Fate i compiti a casa il prossimo week-end: mandate affanculo il mutuo e comprate un Terra Di lavoro, un Montevetrano, un Montiano, un Sangiovese Avi, un Aglianico Contado; riempite il frigorifero; spegnete il telefono e mettetevi comodi; versate i vini; cercate di finirli entro domenica notte. Buona fortuna.
Nota 2: i mangiarane e la loro grandeur carogna capace di infiocchettarti per bene della merde e di vendertela per qualche migliaia di euro, grandeur, però, che ha un'altra faccia della medaglia e cioè la valorizzazione dei patrimoni, e in questi patrimoni sono compresi da un sacco di tempo anche le vigne risparmiate così dalla furia modernista e studiate per benino, magari sparandoci sopra paroloni e fumo ma intanto le vigne sono là e molto più che da noi.
Chiamatela lungimiranza o puzza sotto il naso, il risultato non cambia.
Nota 3: bisogna capire il vero senso dei commenti e il senso del bisogno di commenti. Uno scrive una cosa e parte la saga del commento e a volte sembra un redditometro sulla popolarità (tanti commenti=tanta gente che mi legge). Ed è una cosa mediamente piacevole ricevere riscontri che non siano i freddi numeri di una statistica di visite. Uno ti dice Bravo, mi hai fatto riflettere e tu rispondi Grazie sono qui per questo, e va bene. Uno ti dice Cane, cambia mestiere e tu dici Grazie e ti appelli al 1° emendamento e lo distruggi con la tua sottile ironia o maledici lui e la sua famiglia per 3 generazioni. Normale dialettica da web. Ed è una cosa ancora più piacevole quando arricchisce, stimola il dibattito (come siamo anni '70), mette un circoletto rosso su un errore o un errore di interpretazione, quando da A porta a B e capisci che un testo, anche solo un piccolo post, quando è fatto bene, è una struttura rizomatica, innesca cortocircuiti di pensieri che portano in mille direzioni.
Con questo, a livello generale, la struttura post→commento→controcommento è mediamente sfibrata passando dal cordiale scambio di saluti autoreferenziale all'invettiva anonima, è un open space di gente mascherata che regredisce al livello del nessuno-mi-vede-e-allora-faccio-il-cazzo-che-mi-pare (e la cosa non è così, come direbbe Rodotà, non esiste anonimato reale sul web a meno che tu non sia l'hacker degli hacker). Così, per sport (appunto), leggetevi qualcosa su Gazzetta.it e immergetevi in quel gran puttanaio che sono i commenti, con un moderatore che sarà 24/24 al bar a cazzeggiare o nessuno lo ha informato che è lui il moderatore, con tutti che si dicono le peggio cose, Ribaldo93 che inveisce contro Juvedoc70, avvocati in gabardine a cui parte un embolo nel cervello e iniziano a sfanculare dei ragazzini o forse degli altri avvocati con nickname assurdi, qualche timido delirio su chi si dovrebbe comprare la Salernitana. Lo chiamano Spicchio delle Mie Brame del Paese Reale.
Bel post (mi riferisco anche alla prima parte,naturalemente [non intendo senza solforosa aggiunta]), niente male, condivido molti punti.
RispondiEliminaA volte ho l'impressione che si parli un pò troppo di salubrità del vino. In un mondo in cui tutti si avvelenano con tutto, paradossalmente il vino (con il 14 percento di una sostanza tossica di nome alcol) dev'essere sano. C'è anche un altro aspetto che non è secondario : a parità di qualità nel bicchiere (risultato finale), mi piacerebbe avere la possibilità di scegliere quello che non ha usato scorciatoie chimiche (anche se consentite), semplicemente perchè voglio premiare il più bravo. Stop.
RispondiEliminaCondivido totalmente Nic. In più aggiungerei - ma questo probabilmente è un mio intimo percorso - che questi vini, chiamiamoli più salubri, effettivamente mi intrigano e mi conquistano di più. Indietro non riesco a tornare. Senza generalizzare ovviamente.
EliminaCondivido anch'io quello che scrivi. Solo una cosa veloce come ulteriore spunto di riflessione: alla salubrità nel vino (che effettivamente è un altro mantra) dovrebbe corrispondere salubrità in vigna, meno "veleni" nella terra e nei polmoni di chi ci lavora.
Eliminanic condivido il discorso sull'alcool in pieno -BRAVO!!!-ma cosa si intende scorciatoie chimiche?LSA solforosa etc....secondo me faredi tutta un'erba un fascio è sbagliato.Secondo me sono solo chiacchere .Mi fa anche un po' noia come diceva Armin ...discorsi un po' stanchi.e poipedrchè dovrebbero essere più bravi? ti faccio un esempio sulle rifermentazioni .è più bravo uno che il vino ad un certo punto lo imbottiglia e spera nella sua rifermentazione??? o uno che analizza il vino giorno per giorno per poi filtrarlo quando ha il giusto residuo zuccherino per poi imbottigliarlo- ovviamente facendo un pied de cuve come i maestri francesi insegnano coccolando i lieviti per 5 giorni ...-e tenendo il tutto a controllo di temperatura-termo con termostato sotto il telo di vendemmia :) :) potenti mezzi tecnologici-
EliminaPerchè non mi passi -e passate- a trovarmi tutti magari ci beviamo qualche boccia in tranquillità e parliamo e tocchiamo con mano la mia passione il mio lavoro .
ciao e buona serata a tutti GP
P.S. ti aspetta sempre una vasca di cemento della feccia e avanzi vari del mio vino che si è trasformata in aceto...nn so se ricordi:):)
Eugenio: effettivamente ricordo di aver letto di una certa verticale sul Campovinato. (sottocapitolo 1)
RispondiEliminaVolevo soffermarmi invece sul capitolo 5, perché è un po’ di tempo che ci rifletto. Ed è vero, le sole recensioni portano poco traffico e commenti, almeno nell’immediato. Per questo, a volte mi domando che senso abbia.
Poi, mi rendo conto che sono fondamentali: molti dei vini che adesso amo li ho scoperti o mi hanno incuriosito dopo averne letto sui miei blog di fiducia. In enoteca, il semplice appassionato davanti ad una bottiglia, con un paio di click potrebbe arrivare al blog ed in poche righe scegliere se comprare o meno la bottiglia. Non è poco.
Ribaltando la situazione poi, la piattaforma risulterebbe pesante. Penso quindi che come in molte cose, la verità stia nel mezzo: bisogna essere dinamici.
Fondamentalmente però, guardo poco il traffico del blog. Non campandoci, probabilmente, mi fa vivere con meno aspettative.
Per il resto, toccatemi tutto, ma non il mio Kurni.
P.s. vado sempre a cercare i (molti) termini che non conosco, e devo dire che sto diventando un uomo migliore.
Muoio dal ridere "Noi, che per mentalità cementificheremmo pure i parchi nazionali e le lettiere per i gatti." ti aspetto come relatore alla lezione di inizio anno al Politecnico di Torino facoltà di Architettura. Ahahah muoio.
RispondiEliminaAdesso vado che la betoniera gira e il cemento è pronto!
Bravo, vai a cementificare un po' di quei parchetti torinesi che proprio non si possono vedere coi loro prati e alberi arroganti.
EliminaAlcune considerazioni sparse: esaustivo il capitolo sui lieviti, bisognerebbe trovare qualcuno che non ha MAI usato quelli selezionati da 50 anni a questa parte, allora sì che si potrebbe parlare di "indigeni"; c'è chi clona quelli che ha in cantina, bello, però se devo rischiare derive con apiculati & Co. sincerissimamente preferisco un bel bayanus che non apporta alcun aroma secondario e lascia davvero inalterati i primari del vitigno, almeno questa è la mia esperienza...
RispondiEliminaTerroirismo: ok, ma se poi quand'è ora di reimpiantare le barbatelle me la vai a comprare chissà dive??? Come mai nessuno parla mai di materiale viticolo e le derive genetiche che ciò può comportare?
Sostenibilità della produzione: vigneto (ok), cantina (ok) e tutto il resto? Ho visto giorni fa una slide che mostrava come i costi di promozione, logistica, marketing etc etc arrivino ormai a sfiorare il 40%. Siamo davvero obbligati a imbottigliare tutto? (dello sfuso avete scritto anche qui...)
E' davvero così gratificante vendere una bottiglia dall'altra parte del mondo e non riuscire a farlo con il nostro vicino di casa? Perchè a livello di immagine si è abbandonato il mercato interno (con il relativo impoverimento dell'offerta media)? Perchè si è fatto in modo di avere delle bottiglie nella distribuzione a meno di 1 euro? Guardate che queste sono scelte aziendali e politiche, non si può sempre solo dire che è "il mondo che gira così e dobbiamo tenercelo..."
Grande Eugenio, alla prossima
Mirco
Ciao Mirco,
Eliminasecondo me sui lieviti manca un aspetto fondamentale, trattato in un bellissimo articolo di Tony Scott su Millevigne : "l’evoluzione dei lieviti è influenzata dall’uomo? Sì, da migliaia di anni". La selezione è in corso da quando l'uomo vinifica e non da 50 anni a questa parte.
Ciao Nic!
EliminaOk, però stavamo parlando del lievito secco in polvere, quello selezionato in laboratorio. Che poi l'uomo avesse capito da secoli l'importanza della microflora della cantina è noto, le abbazie belghe ne hanno fatto un vanto...
Cito da quell'articolo a proposito della "pressione selettiva dell’attività dell’uomo" ben prima della diffusione dei lieviti industriali in tempi moderni: "Sarebbe stato quindi un interscambio continuo tra la cantina e l’ambiente esterno, il vigneto, mediato per lo più da insetti, a determinare l’evoluzione dei lieviti nelle zone viticole del mondo". I ceppi dei lieviti vinari in tutto il mondo sarebbero più omogenei di quanto non si pensi a causa della selezione operata inconsapevolmente dall'uomo attraverso la pratica della vinificazione in migliaia di anni. Insomma, neppure prima dell'avvento dei lieviti in bustina si poteva parlare di lieviti indigeni.
EliminaNic,
EliminaVincenzini non la pensa nello stesso modo, dipende sempre da che punto si guarda il problema.
I lieviti hanno una alta variabilità genetica e vivono in ecosistemi bilanciati in cui condividono la nicchia ecologica con altri lieviti e microorganismi, i lieviti geneticamente puri derivanti da selezione non esistono in natura, è stata trovata una certa omogeinetà in ambienti contigui e climaticamente simili.