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lunedì 16 aprile 2012

buono da bere o buono da pensare?

Del buono.
Molti sostengono che:

Ciò che piace è buono.
Indipendentemente da come, ciò che piace, sia stato fatto.

Questa teoria del “puro-piacismo” (perdonatemi il neologismo) mi trova da tempo in netto contrasto.
Perché riduce tutto ai sensi e alle percezioni, infischiandosene di come i sensi si intreccino con la cultura, l’antropologia, la storia e di come il cibo, quindi il vino nella sua accezione di alimento e la loro preparazione siano, al di là della loro funzione nutrizionale, un processo culturale di autocostituzione e autorappresentazione della società.

Oltretutto si fa riferimento sempre ai sensi (del consumatore medio, ma chi è questa entità a cui ci appelliamo?) un po’ obnubliati da anni di anestesia dei sapori, di glaciazione dei cibi.

E’ un concetto ormai assodato, fra i gourmet (o presunti tali), che i formaggi (rigorosamente d’alpeggio a latte crudo, da razze storiche, affinati in grotte), il pane (lievitazioni acide, lavorazioni lente, grani di alta qualità) siano migliori se fatti in maniera tradizionale, a bassa tecnologia ed alto artigianato, invece quando si parla di vino perchè ricompare sempre la presunta superiorità di enotecniche scientifico-industriali?

E’ come se il vino rientrasse obbligatoriamente, pena una squalifica organolettica e di mercato, nell’orizzonte retorico e di senso dell’immaginario tecnico-scientifico e se ne fosse sancita definitivamente la distanza dalla sua storia e tradizione.
Semplificando, l’orizzonte retorico e di senso è quello dei protocolli igienico-sanitari, l’ansia del controllo dei processi e delle avversioni ad ogni contaminazione e devianza organolettica (la stessa devianza è un invenzione concettuale strumentale alla definizione dell’ “errato o scorretto” da contrapporre al “giusto o corretto”).

Bisognerebbe avere il coraggio di dire che esistono due vie parallele di produzione enologica dalle quali si ottiene un prodotto nominalmente e merceologicamente chiamato vino.
Ma che non sono lo stesso prodotto l’uno è artigianale, l’altro semi artigianale o para industriale fate voi.
Con ciò non sostengo la superiorità dell’uno sull’altro.
Uno è vino, l’altro è paravino e, probabilmente, rappresentano simbolicamente due diversi insiemi di consumatori della nostra società.

Credo che ormai le sfumature intermedie di produttori, dimensionalmente ancora “artigiani”,  con i piedi in due staffe non abbiano più molto senso (anche da un punto di vista commerciale, se il problema è la lotta sui prezzi, è già persa in partenza nei confronti dei grandi agglomerati agroindustriali).
Perché usare tecniche agronomiche pesantemente tecniche e poi vinificare tradizionalmente?
Perché usare tecniche agronomiche tradizionali e poi vinificare in maniera pesantemente tecnica?

Perché non ricominciare (o ritornare) a lavorare sulle cultivar e ritornare a propagazioni sessuali, massali direttamente in vigna e confrontare i sistemi di allevamento (quelli attuali sono nati per produrre quantità)?
Perché non studiare a fondo la fillossera e provare ad eliminare, dove possibile, il piede americano?
Perché non studiare i lieviti di cantina (in ogni singola cantina, in ogni singolo territorio)?
Perché non studiare i consorzi microbici del terreno e delle piante in ogni singolo territorio viticolo?
Perché non studiare tecniche agronomiche agroecologiche e la riduzione dei costi esterni alle aziende?
Perché non studiare modelli di commercializzazione diversi dagli attuali (perché il mercato è una convenzione sociale e non una fede)?
Perché fare il vino artigiano è un’attività ad alta intensità di lavoro e questo credo che sia un concetto non da rifuggire ma da analizzare e comprendere e stimolare (abbiamo forse bisogno di fiumi di vino che i mercati, già ora, non riescono ad assorbire?).
Credo che ci sarebbe molto lavoro, per molti professori e tecnici delle nostre esangui università.

Questo discorso vale anche per tutte le altre produzioni agricole, basta sostituire la parola vino con cereali, ortaggi, frutta,…e il costrutto logico non cambia.
La nostra vita, forse si.




11 commenti:

  1. enrico togni viticoltore di montagna16 aprile 2012 alle ore 09:35

    Ciao Luigi,
    come la penso e come lavoro già lo sai, permettimi però una precisazione.
    Artigianle e tradizionale non hanno nulla a che fare con igienico e pulito.
    Con amici casari spesso parlo della questione e loro per primi affermano che i metodi di produzione artigianale avevano il limite di creare la proliferazione di batteri e conseguenti alterazioni dei prodotti.
    con l'avvento dell'acciaio e delle tecniche di mungitura automatica o semiautimatica, si sono ridotti inconvenineti quali "tara" del formaggio e mastiti degli animali, qunid si sono ridotti i costi.
    Poi il formaggio lo fanno sempre nello stesso modo, ma con più testa, più attenzione e più pulizia.
    allo stesso modo per il vino, basta usare testa, attenzione e pulizia.

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    1. Ciao Enrico,
      forse non si capisce dal post ma io non escludo le innovazioni tecniche anzi hanno una funzione importante nell'aiutare il produttore e migliorare la costanza produttiva.
      Cio di cui parlo sono le "retoriche" vuote e strumentali volte a delegittimare il lavoro (anche il tuo) artigianale dipinto come anacronistico,sporco e pericoloso. Tacendo sulle migliaia di violazioni alle norme igienico sanitarie perpetrate dall'industria vista invece sempre come pulita e giusta.
      Vorrei che si andasse oltre alle narrazioni strumentali per cercare di vedere la realta, sicuramente più complessa.
      Investire nella ricerca.mirata alle piccole produzioni permetterebbe al nostro territorio di essere abitabile limitando la chiusura di aziende agricole in territori marginali.
      Il presidio del territorio è importante e tu sei uno dei pochi che malgrado tutto resiste a dispetto di una forte pressione contraria.
      Con affetto.
      Luigi

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  2. Recentemente durante un dibattito legato alla proiezione del documentario "The Last Farmer" Roberto Schettino anima del Coordinamento Contadini del Piemonte diceva che oggi il piccolo contadino è costretto a rispettare le regole complesse di una grande azienda per trasformare i suoi prodotti, in questo modo di fatto lo si esautora da un diritto. Oggi il termine "contadino" è stato sostituito con il termine "imprenditore agricolo" ma la realtà qual'è?
    Io mi sto stufando di spendere soldi per paravini, parapane, parapasta, paraverdure, paraformaggi e sto spostando i miei acquisti a prodotti autentici.

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  3. Condivido molto l'impostazione di Luigi, aggiungo soltanto in alcuni casi il produttore artigianale da solo non ce la farà mai. Questo è il nostro limite, tutto italiano, tutto provinciale: non fare sistema, non cooperare. Mettere in campo le proposte di Luigi costa, un costo che il singolo produttore non può affrontare. Neanche con l'attenzione e la benevolenza dei consumatori più attenti come Vittorio.

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    1. Faccio un piccolo esempio che coinvolge Enrico Togni.
      Lui lavora in vigne con pendenze medie del 100% o più. Condizione questa piuttosto diffusa in Italia, ebbene non esistono piccoli mezzi a motore che allevino la fatica dei trattamenti e delle lavorazioni in queste condizioni. Invece trattori alti tre metri per sei, per quattro ne abbiamo quanti ne vogliamo.
      Enrico si è dovuto inventare e farsi costruire una carriola cingolata con la quale fa i trattamenti, il pirodiserbo, etc.
      Certe volte non servono solo soldi ma anche avere la possibilità di spenderli bene per cose che servano sul serio, pensate per le proprie condizioni di lavoro e non per le pianure cerealicole Canadesi.
      Sulla questione denari pubblici: I Windsor percepiscono finanziamenti UE esattamente come i contadini normali, solo che essendo latifondisti ne percepiscono parecchi, un po' troppi direi. Nella distribuzione dei fondi si và per unità di superfice senza nessun correttivo per piccoli agricoltori che quindi si accontentano di cifre piuttosto modeste. Rivedere le logiche distributive e le strategie agricole territoriali è l'imperativo dello Stato che in questi fragenti dovrebbe riassumere su di sè la funzione di garante se non di Datore di Lavoro di ultima istanza.

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    2. enrico togni viticoltore di montagna17 aprile 2012 alle ore 07:29

      solo una preciszione:le mie vigne non hanno pendenze del 100%, Luigi difende sempre il mio lavoro e lo ringrazio!
      Per quanto riguarda le macchine è tutto vero,
      Di trattori per la pianura ne trovi mille e piò e tutta l'innovazione si concentra su quelli, le macchine piccole ci sono ma costano una cifra perchè le producono in pochi e se le vuoi sono così.
      Io ho deciso di costruirmela perchè avevo necessità particolari, perchè non voglio dipendere da meccanici per il resto della mia vita, perchè mi costava di meno.
      Credo che l'agricoltore oggi debba sapere come spendere i suoi soldi al meglio, senza allinearsi con quanto il mercato offre ma cerdando di andare più in là, rendersi autonomo il più possibile per poter lavorare al meglio ed impattare il meno possibile.

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  4. Sono colpito da questo post che mi ha fatto in più punti partire il ragionamento e l'emozione per pensare ad alternative allo status quo.
    Mi entusiasma realizzare quanto il vino si faccia specchio della realtà e laboratorio di idee. E su questo di getto mi sono messo a scrivere, quando ho letto questa riflessione. La divisione fra vini e paravini è salutare, necessaria e porta chiarezza. Mi piace perchè è una dicotomia sana, foriera di ragionamenti sensati e non di estremizzazioni.
    Questo post apre tante questioni.
    Io ti vengo dietro e spero di contribuire alla discussione.
    Ciao

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    1. Mi piace ciò che dici sulla dicotomia sana (un concetto categorizzante che aiuta a comprendere più che dividere giusto?) perchè è lungi da me aumentare le divisioni e erigere muri insormontabili sopratutto se sono costruiti solamente sulle narrazioni (sulle retoriche) e non sulla realtà dei fatti.

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  5. Credo che la risposta alle domande sia univoca: perchè si fa prima ed è più sicuro. Per si usano lieviti erbicidi, pesticidi, selezione clonale, lieviti selezionati etc.. (senza contare il business di chi vendi tutti i prodotti enologici di sintesi).
    Tutto ciò si traduce in una standardizzazione del gusto ed impoverimento della qualità oltre che in un danno (perchè di questo si tratta) salutare per l'uomo e la natura.
    Nel libro di Claude Bourguignon (Il suolo un patrimonio da salvare) si raccontano cose che nessun testo scolastico ha mai riportato. Per esperienza personale so che a scuola ti raccontano che l'obiettivo è che le vacche facciano 50 litri (!!) di latte al giorno, che i vigneti sono migliori innestati che a piede franco, che la selezione clonale è l'unico mezzo possibile...
    Manca un'informazione adeguata, e forse non a caso...

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  6. Luigi, come non è in contraddizione essere tradizionali ed osservare semplici norme igieniche, così non è in contraddizione fare vini in modo artigianale e farli senza "devianze organolettiche", per usare la tua espressione, direi anzi che i vini miglori in assoluto sono proprio quelli fatti in modo artigianale, ma fatti anche bene, mentre quelli che hanno devianze organolettiche, cioè difetti, sono semplicemente fatti male. E' anche vero che ciò che per me è un difetto può non esserlo per te, questo fa parte della soggettività. Esiste una dimensione culturale del gusto, perchè la percezione è un fatto puramente fisico, mentre l'elaborazione della sensazione avviene a livello cerebrale e si evolve con la "cultura", talvolta anche in contrasto con le istruzioni genetiche. Ad esempio è difficile che un bambino sia attratto dal bruss o dal "casu marsu" sardo, perchè il segnale genetico ci allontana dagli odori di proteolisi (cioè di putrefazione) e quelli di questi formaggi ne fanno parte: le proteine che hanno subito alterazioni microbiologiche profonde possono creare problemi al nostro organismo e la selezione ci ha fornito allarmi in tal senso. Un gatto rifiuta la carne che puzza, un cane invece la mangia avidamente: il loro sistema digerente e le loro tecniche per procurarsi il cibo sono diverse. Anche noi abbiamo segnali di questo tipo innati, ma possiamo imparare a superarli. Come abbiamo imparato ad apprezzare il gorgonzola (e, in oriente, fermentati anche più strani) dobbiamo imparare ad apprezzare anche i vini che puzzano di aceto o di cacca di gallina? Io non credo, almeno io non avverto questa esigenza, visto che ce ne sono tanti, anche artigianali, anche "naturali", che hanno i profumi del frutto senza quelle "devianze", le quali, contrariamente a quanto alcuni sostengono, sono la negazione del concetto di terroir e tendono non a diversificare, ma a omologare i vini verso il basso. Sui tuoi "perchè" sono d'accordo, anche se direi che qualcosa, anche se poco, si sta facendo su ognuno di punti che citi. Certo che se parli di riproduzione sessuale della vite bisognerebbe aprire un libro, il cui primo capitolo sarebbe "abolire il concetto di vitigno".

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    1. Ciao Maurizio,
      sono d'accordo con te su tutto l'unico aspetto che mi trova perplesso è sul concetto di devianza organolettica. Io non credo che si debba includere i vini palesemente difettati, anzi, ma ci si deve sforzare a reincludere nell'esperienza degustativa profumi e sapori etichettati come devianti (che magari non lo sono).
      Ad esempio le ossidazioni e quei profumi fermentativi aciduli e non stile big babol (tipici credo dei lieviti selezionati)e quei sapori un po' verdi e rasposi e la assenza (talvolta) della tranquillizzante presenza di zuccheri complessi (glicerina e altri).
      E qui mi ripeto nel sostenere che bisogna investire nella ricerca e nella conoscenza però mirata alle piccole produzioni e alle specificità geografiche Italiane ciò permetterebbe al nostro territorio di essere abitabile e produttivo, limitando la chiusura di aziende agricole in territori marginali.

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