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domenica 29 luglio 2012

Da Modica a Sampieri un viaggio al sud del sud


Da Modica a Sampieri venti chilometri, l’altopiano Ibleo mette i piedi in acqua.


Modica, partenza.
Cretti, valli qui chiamate cave, più o meno profonde scavano l’altopiano e scoprono fianchi di calcare bianco crema, terre cioccolato arate e assolate. La città aggrappata ai fianchi di questi cretti, costruita con la stessa pietra,  materializza strade e piazzette e scale e muraglioni dalle cui crepe, come cascate verde smeraldo, rotolano capperi in fiore e scaloni e giardini murati con fichi, mandorli, limoni, albicocchi e peschi con frutti pallidi come le stratigrafie geologiche di questa terra, come se l'antica saggezza dei suoi costruttori, avesse reso città e rifugio e vita le curve di livello del fianco carsico dell'altopiano, scavato dagli occasionali torrenti.





Tetti in coppi chiari, anch’essi color crema e biscottati, coperti da chiazze di licheni come da teli mimetici completano la totale sparizione della città nel paesaggio. I Modicani dopo aver cavato con fatica le pietre alla terra a questa terra si ridonano in una completa mimesi.
Pinete si inerpicano sui pendii più aspri e portano una natura ancestrale nello sguardo del passante. Una sola concessione al vezzo, al lusso: i balconi, moderatamente esuberanti, barocchi ma senza illusione, esibiti con leggiadria ma pudore (lontanissimi dagli esercizi di stile e dal simbolismo delle cariatidi e delle mensole spumose di Scicli) e qualche lesena e timpano chiaroscurale.



Come una spuma la città si inerpica dal fondo del ex greto del torrente, aggredisce i fianchi quasi verticali della valle e deborda sull’altopiano, qui alla Sorda è nata la nuova Modica amata dai modicani ma che ha la struttura e la vivibilità delle peggiori periferie del mondo, strade intasate, scheletri di capannoni, centri commerciali inquietanti, marciapiedi latitanti, attraversamenti pedonali inesistenti, negozi che paiono hangar in disuso, il peggio dell’iconografia della Sicilia del dopoguerra eppure ogni Modicano anela a questo paradiso di cemento e calore soffocante, da quassù un piano inclinato scivola dai 400 metri slm ai 0 metri slm di Sampieri. La struttura del territorio agricolo del passato, neanche così remoto, si legge in filigrana malgrado le asfissianti aggressioni di villette, di desolati scheletri cementizi, di ponti anabolizzati che in un caso, qualche contadino con un innato senso dell’ossimoro e dell’umorismo, ha eletto a dimora di quattro asini a nostro memento ogni qualvolta ne passiamo di sotto, di agglomerati industriali fatiscenti.
Resistono quindi i muretti a secco color crema, lunghi chilometri che quadrettano la terra punteggiata da carrubi, qualche ulivo, campi e masserie anch’esse pallide e ieratiche come in un cruciverba di cui si è, forse, persa la soluzione.



Mi chiedo come una spanna di terra appoggiata su pietra calcarea, torrefatta dal sole implacabile e dai venti salmastri abbia potuto dare da vivere per secoli ad una comunità che è stata sempre attiva e relativamente florida.
Forse con saggezza queste genti hanno saputo piegare, piegandosi, la natura qui così aspra da togliere il fiato. Nessun atto di forza palese e coercitivo ma una delicata e decisa integrazione in un ecosistema fragile; frammenti di questo dialogo sono i carrubi, grandi piante contorte con chioma semisferica, foglie piccole e coriacee di color verde scuro, i frutti sono dei grossi bacelli allungati color cioccolato. Il carrubo è una pianta paesaggio per la sua maestosa presenza, generosa e frugale come pochi alberi al mondo, i fiori danno il miele, i frutti danno cibo agli animali e agli uomini, la chioma offre ombra alle greggi e ai contadini, il legno calore, perfettamente a suo agio nei climi aridi,  schierata in quinconce come un verde esercito che marcia verso il mare. Poi serre in legno adagiate come scheletri sbiancati e scintillanti di balene spiaggiate, alternate a nuove strutture anch’esse argentee e aliene sino a raggiungere i piccoli vigneti marini con le radici nella sabbia, alberelli contorti, prefillosserici con chiome striscianti nelle buche o rampicanti sui tutori di canne, le stesse dei cannicciati messi a protezione interfilare dal vento di mare e dalla sabbia che attenuano la fatica della innaturale verticalità della vite. Non so cosa ne facciano di queste uve, commuove soltanto sapere che esistono e che qualcuno ormai ultimo incosciente difensore di una umanità che sentiva la propria finitezza e caducità, con fatica le accudisca.



Il vigneto condivide quel litorale, turismo e residence alieni permettendo, con zone umide salmastre, canneti impenetrabili, pini marittimi e la macchia mediterranea che sparge un dolce profumo di  resina che non so per quale affinità elettiva  ricorda quello dei nucatoli.
Il respiro dello Ionio, salmastro e iodato con sbuffi di spezie d’africa è ormai impossibile da ignorare, fine del viaggio siamo a Sampieri.
La fine del nostro viaggio è per alcuni, pochi e surreali come una armata di scalcinati, burberi ed irridenti pescatori, l’inizio.
Tutto il giorno curano maniacalmente piccoli gozzi in legno bianchi e azzurri che si atteggiano a pescherecci d’altura in un negozio di giocattoli.
Tessono e ritessono le reti in un balletto di mutua cooperazione in cui sono beneaccetti anche i sampieroti oramai con passaporto Svizzero o Lombardo-Veneto (qui l’italiano ricordate è una seconda lingua come in Alto Adige).



Al  tardo pomeriggio escono alla spicciolata a calare le reti che aleranno poi la mattina seguente
 I rientri dal mare sono un piccolo spettacolo di coordinato mutuo soccorso; la gente a terra spesso “lombardi” o “svizzeri” guidano a gesti il rientrante sugli scivoli lignei, poi abilmente tra la selva di cime e cavi d’acciaio e traversine afferrano una cima di alaggio che agganciano a dei verricelli elettrici o a dei trattorini agricoli con i quali vengono alati e messi in secco i gozzi, il tutto fra poche parole, molti sfottò e solchi lungo i visi che sembrano delle specie di sorrisi.
Solo un dio del mare benevolo e ilare può assisterli in questa quotidiana lotta contro i verricelli rugginosi, i trattorini spompati e recalcitranti e contro il pesce sempre più scarso; comunque sembrano sorridere quando verso le dieci del mattino, dopo il rituale della vendita del pescato, all’ombra dell’istituto delle carmelitane guardano il mare e le loro barche.
Pescare pescano, il loro pesce è ottimo ma ricordate, quando li avvicinerete che prima di comprare dovrete essere accettati da questa comunità perché qui non si vende come al mercato, si barattano sogni.
Oggi pesca grande Enzo a”siccia”, Pepi o “zingaro” e i “catanesi” sono tornati con mormore, sogliole, razze, gamberoni, seppie, altri pesci dai nomi e dall’aspetto per me sconosciuti e il re di questi mari il pesce spada, piccoli esemplari di 15, 20 kg al massimo pescati con una tecnica lunga e faticosa: il palamito galleggiante lasciato derivare con la corrente e sorvegliato tutta la notte per evitare che si ingarbugli e vanifichi una giornata di lavoro.


Come a confutare la tesi che la Sicilia è un isola la risorsa primaria è l’agricoltura, è dalla terra così nera poggiata su una roccia così bianca che come in un gioco di prestigio nascono prodotti sublimi figli dell’altopiano e di questo particolare stato dell’anima che trasferisce alle sue genti. Verso nord in direzione Frigintini a quote che raggiungono 600 metri slm imponenti masserie color crema ricordano l’estrema vocazione agricola di queste terre alte, olivi anche secolari punteggiano il territorio e danno un olio che a base 60% cultivar moresca può rientrare nella DOP Monti Iblei sottozona Frigintini, grano duro, fave piatte che hanno qualità organolettiche sublimi, così come i ceci e un po’ più a nord a 700/800 metri slm a Giarratana si produce da una cultivar unica al mondo una cipolla enorme e dolcissima da provare appassita in poco olio con il tonno rosso pescato dalle flotte di Portopalo o Marzamemi oppure mi dicono alla brace meglio se di legno di carrubo.
A Chiaramonte Gulfi paese arroccato sul fianco dell'altipiano che dalla quota di novecento metri rotola a trecento e da quale iniziano una teoria di colline di sabbie calcaree giallo brune inizia la zona degli uliveti della DOP Monti Iblei sottozona Gulfi.
Da cultivar Tonda Iblea si producono olii insuperabili per tipicità e corpo, in certe annate il sentore di  foglia di pomodoro e la struttura gustativa sono impressionanti e lo rendono quasi masticabile. 




Si producono anche vini con risultati analoghi e il re indiscusso è il Frappato con la sua aromaticità rossa e fresca (e profumi di fico nel Frappato di Cos), travolgente che in blend con il nero d’avola (calabrese) compone i vini della DOCG Cerasuolo di Vittoria.

Il Nero d'Avola quì in queste colline di sabbia crema prende sfumature di salgemma e una ferrosità stordente che il Frappato alleggerisce, ingentilisce e porta livelli di sublime.
In pianura a Vittoria a Scicli producono pomodori, meloni, “tenerumi o tenerezze”, cavolifiore viola, melanzane.
I pascoli dell’ altopiano sono il luogo di elezione di pecore e di una particolare razza bovina, ora in estinzione, rustica e frugale che è la Modicana. E’ un bovino che ricorda i graffiti preistorici, imponente con corna a lira, una livrea rosso bruna, un incedere quasi marziale; animale poliedrico che un tempo assolveva sia ai lavori nei campi sia all’allevamento per latte sia per la carne, non sopporta la stabulazione e produce poco latte di grandi qualità organolettiche dal quale tradizionalmente si producevano caciotte e provole (provola Iblea) anche fresche, ricotta, ricotta salata e soprattutto il re, il “Caciocavallo Ragusano” ora solamente Ragusano DOP detto in dialetto “scaluni” perché ricorda nella forma a parallepipedo e nel color crema i gradini in pietra calcarea, è un formaggio a pasta filata cotta con vari livelli di stagionatura. 




Tale era il valore anche simbolico di questo formaggio che si usava per ingraziarsi o sdebitarsi verso persone di peso, regalare il caciocavallo e nella  parlata corrente  “spedire il caciocavallo” significa ringraziare per grossi favori ottenuti. Da provare il tumazzo Modicano e i canestrati di pecora e se andate ad Ispica in contrada Scorsone dal sig. Rosario Floridia, ultimo strenuo selezionatore della razza, arrivate verso le 17,00 perché si può mangiare appena uscita dalla caldaia la ricotta e vi assicuro che vale il viaggio, chiedete anche se possono farvi visitare la vecchia masseria, un museo di archeologia contadina.



A Modica consiglio di passeggiare per corso Umberto e quando il languore vi assale fatevi saziare dal finger food modicano unico al mondo: la scaccia, una sorta di lasagnetta piatta ottenuta dalla quadruplice piegatura di una sfoglia fine di pasta non lievitata di grano duro, olio e acqua, condita con una variante pressochè infinita di ripieni dalla salsa di pomodoro, alla salsiccia e broccoli, agli spinaci e ricotta etc. etc. e poi rimane ancora una pletora di calzoni “pastizzu” con carne di pollo, tacchino, agnello, calamari e i Tomasini di carne vaccina e le sfoglie e gli arancini che qua fanno molto piccoli, da passeggio; in piazza Matteotti, uno slargo del corso Umberto c’è una delle migliori rosticcerie “il piccolo bar” un tuffo nell’italia degli anni cinquanta, non stupitevi se un giovane Gassman entra e ordina sette pezzi al pomodoro e cipolle.



Sicuramente avrete voglia di un dolce quindi scendete alla fine del corso in via Vittorio Veneto dalla dolceria Giunta  e fatevi allestire un vassoio di  dolcetti di pasta di mandorle “ricci, fiocchi di neve, dessert” e “nucatoli” e “impanatigghi” con ripieno di cioccolato e carne, dolcetti alle carrube, al caffè e amaretti.
Non dimenticate un sacchetto di “squisiti” (biscotti friabili e delicatissimi) o i “biscotti di sugna” o i “fringozza” enormi savoiardi montati a mano con atrezzi in legno e recipienti in terracotta smaltata (il Lemmo), per spegnere i morsi della fame pomeridiana. Se non temete l’over dose di zuccheri mangiate queste delizie sorbendo  del latte di mandorla se no un caffè o un Marsala semi secco o dolce.
Del cioccolato Modicano ormai si sa tutto: è buono, ha valenze storico-antropologiche ma la vera scoperta sarebbe ritrovare i sapori di dolci di casa come il “gelo di anguria, di limone, di gelsi” e il “bianco mangiare” di mandorle, cibo che è arrivato sino a noi dalle concezioni medico alchemiche medioevali Arabe e Salernitane quando si prescrivevano diete o pranzi completamente “bianche” per bilanciare gli umori del corpo.



Ho cenato a Modica alla Torre d’Oriente in via Posterla 29, su consiglio di un giovane cuoco che ha aperto da poco un piccolo laboratorio artigianale di produzione di pasta fresca: il “Mattarello” in via Marchesa Tedeschi  eccellenti i suoi tagliolini, speciali i suoi ravioli di pesce e quelli di ragusano. Palazzo stupendo quello che ospita la Torre d’Oriente, adagiato sul fianco ripido della valle che dal corso Umberto porta a San Giorgio e a Modica alta, si sale a piedi con svariati percorsi alternativi, stupende le due terrazze che offrono viste emozionanti su Modica e sullo splendido frutteto terrazzato del palazzo. Salvatore e Gaia Carpenzano con estrema gentilezza vi faranno mangiare molto bene in un ambiente emozionante ad un prezzo ragionevole, ottimo pesce dal tonno rosso con patate alla brace, al polpo finemente affettato, allo splendido crudo di pesce ma non sottovalutate le carni perché la sicilia guarda con sospetto il mare e dalla terra provengono delizie inimmaginabili, interessanti i dolci, buono il cannolo decomposto. Cantina interessante e con buone etichette siciliane, da loro ho bevuto il Munjebel (bianco dell’etna) di Frank Cornelissen, il Frappato 2009 di COS, il Ramie 2009 di COS.
Una sera siamo andati a cena al Duomo ristorante con stella a Ragusa Ibla dello chef Ciccio Sultano e del socio  Angelo di Stefano, siamo partiti da Modica che è a nove chilometri di distanza, consiglio di percorrere la vecchia statale n°115 che scivola lungo la valle (cava) scavata dal fiume Irminio dalla quale si vedono gli impianti petroliferi di Ragusa e si arriva direttamente a Ibla che è una città a parte e sembra la testa di una tartaruga il cui corpo è Ragusa.



Era la terza volta che ci tornavo sia a Ragusa Ibla sia da Ciccio Sultano e Angelo di Stefano  ma l’ultima volta era otto anni fa e in otto anni di cose ne sono successe sia alla città sia al Duomo sia a me.
Ripensare a questo ritorno mi ha ricordato quello che sostengono gli antropologi: ciò che  viene osservato è profondamente modificato dall’osservatore per cui il risultato è che le verità delle dinamiche socio-antropologiche sono inafferabili e inosservabili.
Ibla negli ultimi anni si è rifatta il trucco modificando la viabilità, organizzando, con efficienza i parcheggi e l’arredo urbano, rivitalizzandosi con negozi e botteghe gourmand e bar e librerie e ristorantini e turisti che sciamano per le vie (insomma i soliti non-luoghi di Augè-iana memoria). Tutto ciò però ha modificato l’ambiente, ora la città sembra un set di cinecittà invaso dalle comparse, gli abitanti già un tempo latitanti sono del tutto scomparsi, i circoli di discussione chiusi, le finestre chiuse, nessuno al balcone a prendere il fresco, la città sembra aver perso la terza dimensione è diventata un cartellone publicitario di se stessa. Ibla è morta, viva Ibla.
Forse infastidito da queste sensazioni la mia venuta al Duomo si è allineata a questa aura di finzione cinematografica, il locale è sempre molto bello ma Ciccio e Angelo, attorniati da una pletora di camerieri nerovestiti di Verghiana memoria sembrano aver perso quello slancio dei primi anni, quella allegra incoscienza della sperimentazione a favore di un copione rigido e alla page che li ha catapultati nell’olimpo dei Grandi Ristoranti Italiani estromettendoli dai piccoli ristoranti siciliani, stranieri a casa propria.
Devo ammettere per onestà che ho il sospetto di essere stato un po’ ingiusto, l’osservatore modifica l’osservato, per cui vi consiglio di andare a mangiare al Duomo perché bisogna rendere onore al coraggio di Ciccio e Angelo che caparbiamente hanno costruito negli anni uno splendido locale in un posto bellissimo, nel quale si mangia benissimo tutto ciò alla periferia del mondo conosciuto.
Entratine di pesce crudo meravigliose, pani e scacce superlativi, primi ottimi (io ho preso linguine impastate col nero di seppia  e condite con calamari e vongole), secondi ottimi (io ho preso merluzzo in due varianti fresco in trancio e mantecato alla messinese con sfoglie di pane tostato), ottimo cannolo, grande carta dei vini  con grandi ricarichi, abbiamo bevuto un grillo 2004 di Barraco e sul dolce il Marsala Superiore Oro Vigna la Miccia di Marco De Bartoli.





A chi piace leggere consiglio:
Roberto Alajmo, "L'arte di Annacarsi. Viaggio in Sicila", Bari, Laterza, 2010
AAVV, " il Ragusano. storie e paesaggi dell'arte casearia", Milano, Federico Motta editore, 1999





Senza pensare di essere esaustivo vi indico un po' di indirizzi per sfamarvi e dissetarvi ma ricordate che se direte ad un Modicano che siete andati da Giunta a comprare i Fringozza vi dirà che Di Lorenzo li fà meglio (e viceversa) e le scacce sappiate sono sempre più buone quelle di casa.



Ristorante da non perdere:
Olio:
Terraliva 
Miele:
Amodeo
Vino:
Pasticcerie:
Enoteca
Vini d’autore

Formaggi:
Dipasquale a Ragusa


Friggitorie gastronomie
Piccolo Bar: Piazza Matteotti 10, Modica (RG)
Fidone: corso Regina Elena vicino all'Hotel Failla

Macelleria e rosticceria Pitino: Var.S.S. 115 n°10, Modica (RG)






4 commenti:

  1. Come si fa a non partire subito? Come si può restare quassù al nord?
    Profumi e sapori che si annusano, cha fanno salire acquoline golose..:un racconto e un viaggio belli da lasciar senza fiato..

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  2. Bianca, Vittorio,
    venite c'è spazio anche per voi sotto questo cielo.

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  3. www.hotelparcodellaroccca.it sarà lieto di ospitarvi per visitare questi posti, in riva al Mare di Sicilia.

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