Pagine

mercoledì 6 giugno 2012

non voglio più sentir parlare di vini bio e biodinamici!

Non mi interessa parlare solo di vini in un momento in cui si rende necessario un ripensamento profondo dell’agricoltura in generale e degli alimenti in particolare.

Giusto Giovannetti (microbiologo) , incontrato per caso ad enodissidenze, mi diceva che a causa delle pratiche agricole contemporanee c’è un netto decadimento della carica microbiologica dei terreni e quindi nei prodotti agricoli e negli alimenti.

Non un mero problema di qualità organolettiche ma di interazione complessa fra vegetali e consorzio microbico che è praticamente identico, mi faceva notare, a quello del nostro intestino tenue.



E come con le piante, il consorzio interagisce con il nostro organismo.
Ognuno di noi ha circa due chili di microrganismi annidati nel corpo (e in ogni grammo ce ne sono centomilioni di specie diverse) che è una struttura aperta e ha sviluppato con loro, in centinaia di migliaia di anni, un rapporto simbiotico (microbioma umano).

Molti di questi transitano solamente nel nostro intestino per cui si parla di turismo microbico.
E non si tratta di un turismo di rapina ma di un complesso rapporto di interazione con i nostri geni (epigenetica).
Così come i vegetali prodotti in terreni ad elevata vitalità microbiologica sono più sani e accumulano sino al trenta percento in più di composti antiossidanti per effetto dell’interferenza dei microbi con il Dna non codificante  delle piante, il microbioma umano (dinamico) svolge una azione simile determinando in “affiancamento” al genoma umano (statico) una interazione complessa con l’ambiente e i suoi stimoli.


Tanto che alcune patologie umane e analogamente anche alcune vegetali sembrerebbero causate non tanto da invasioni di specifici patogeni ma da scompensi nelle dinamiche o nella composizione del microbioma.

Si ipotizza un legame fra quest’ultimo (quindi anche microbi turisti intestinali) e malattie come asma, obesità, infiammazioni croniche, diabete.
Semplificando si può dire che gli alimenti non apportano solamente macro-elementi nutritivi ma, sempre che la carica microbica sia qualitativamente e quantitativamente significativa, hanno anche una funzione nutraceutica e epigenetica.

Il processo di elevata meccanizzazione, la retorica igienico-sanitaria, la tecnologia alimentare e l’utilizzo di prodotti tossici per funghi e microbi (concimi minerali, pesticidi, diserbanti e ahimè i prodotti rameici) hanno compromesso la quantità e la qualità del consorzio presente nei suoli agricoli e quindi in cascata nei prodotti ortofrutticoli, nei prodotti caseari, nelle carni, nel pane.

Questo sarebbe, forse, tollerabile se la produzione agricola avesse debellato la fame nel mondo.
Invece tutto ciò ha solo svuotato le campagne di forza lavoro, distrutto comunità, pratiche agricole e silvo pastorali, paesaggi mercificando il suolo.

Oggi sembrebbe pure che i prodotti agricoli sanitizzati da queste pratiche e le produzioni di alimenti industriali abbiano effetti deleteri sulla salute umana (hygiene hypothesis).


Urge un ripensamento profondo dell’agricoltura e tutte le polemiche e/o infatuazioni dei vigneti Borgognoni biodinamici arati dai cavalli, irrorati di preparato 500 e 501 mi fanno sorridere e imbestialire perché tra poco l’unico alimento (sempre che un Borgogna a 200,00 euro la bottiglia possa definirsi tale) con una qualche vita sarà il vino (in realtà solo qualche vino di nicchia), il resto saranno cadaveri, eduli ma cadaveri.

Bisogna ricominciare dalla terra.

Bisogna ripensare l’agronomia, sviluppare o riutilizzare tecniche di coltura che favoriscano il recupero sostanziale e stabile della vitalità del terreno e dei prodotti.

Bisogna che l’agricoltura riassorba occupazione con attività ad alta intensità di lavoro.

Bisogna impedire il latifondo agro-industriale e promuovere aziende agricole a ciclo chiuso che comprendano il prato e il pascolo.

Bisogna ripensare alla produzione di quantità come sommatoria di produzioni diffuse.

Bisogna aumentare il valore all’origine del prodotto, ripensando la filiera distributiva, operando una disintermediazione o riducendo drasticamente i guadagni intermedi a discapito dei produttori con modalità da concertare (qui mi permetto un piccolo inciso: i pomodorini prodotti a Vittoria (RG) sono venduti alla fonte a 0,15 euro al chilo, a 0,25 i bio, a Torino nei mercati sono rivenduti a 4,00/6,00 euro, nei negozi 6,00/9,00 euro).

Bisogna ripensare al paesaggio agricolo non come ad una cartolina patinata ma come espressione fisica di un saper fare agricolo-economico di una comunità viva e vitale.

Bisogna smettere di dissipare il territorio affascinati dalla logica del movimento e della raggiungibilità fisica.

Bisogna ricominciare a parlare di contadini e smetterla di parlare di aziende agricole e imprenditori agricoli.

12 commenti:

  1. Bel post,
    Sono diventato consapevole dell'importanza della biodiversità e della microbiodiversità conducendo l'esperimento di vinificazione parallela con mosto inoculato e non, nel 2008.
    Da allora, grazie anche al supporto dell'università, nel mio piccolo, cerco di salvaguardare questi aspetti non utilizzando più lieviti selezionati.
    Partire da lieviti indigeni e da fermentazioni spontanee è possibile se, come presupposto, si ha un attenzione particolare alla salvaguardia dell'integrità bio e microbiologica del proprio territorio.
    Ciao, Paolo

    RispondiElimina
  2. Bel post Luigi. Lo dico come sempre da "esterno e non competente" delle materie specifiche, ma da consumatore e cittadino quello che dici mi interessa, molto. Certo, il tuo approccio richiede un investimento di tipo valoriale che richiederebbe una battaglia culturale, anche contro alcuni snodi e interessi economici. E penso subito all'operatività. Si è già iniziato, da dove si inizia? Aggiungo un ultima cosa. Tra le diverse cose che sostieni, sulle quali concordo, una in particolare mi piacerebbe che fosse ripresa (forse l'hai già fatto altre volte e sono io che son distratto) ed è quella del concetto del vino come alimento.
    Alla prossima,
    marco

    RispondiElimina
  3. Luigi, credo tu sappia come la penso sul suolo e sulle pratiche agricole, sul mio interesse verso gli studi di un'altro microbiologo, Alan Smith, che negli anni '70 scoprì il funzionamento della vita microbica del sottosuolo e le sue relazioni simbiontiche con le piante: il cicloossigeno-etilene...che forse l'1% degli agricoltori mondiali conosce.
    Quegli studi hanno una sola conclusione: qualsiasi intervento, di qualsiasi natura, danneggia il suolo. L'aratura poi, è la principale causa di morte del suolo. Troppo spesso sento parlare di "buone pratiche agricole", di "favorire il naturale arieggiamento del suolo".
    Tutte balle. Gli agricoltori parlano di cose che non sanno. Non sanno come funziona un suolo. Non sanno come funziona la vita nel sottosuolo, che le condizioni di ossigeno e luce sono minime e l'aratura espone le varie forme di vita a condizioni mortali. E quando parlo con gli agricoltori e gli dico che non devono arare i loro terreni..sgranano gli occhi e mi guardano come se fossi un alieno.
    Ma loro non sanno che il suolo va trattato come un bosco: nessuna lavorazione, nessuna fertilizzazione chimica, biologica o biodinamica. Il suolo deve essere inerbito naturalmente, e l'agricoltore può limitarsi a tenere l'erba bassa ed a lasciare i residui, magari sminuzzati, sul terreno. Anche la convinzione che l'interramento dei residui organici sia una buona pratica è in realtà una fesseria. In natura, in un bosco o in un prato, nessun tipo di residuo viene interrato, ma resta sulla superficie del terreno.
    Luigi, tu sai che la penso proprio come te. Mi piacerebbe parlarne di questo argomento e appena avrò pronte le traduzioni di Smith te le passerò, per il mio personale "occupy": #occupyaratura ;-)
    Bel post!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Il fatto che il consorzio microbico della rizosfera e quello del nostro intestino tenue siano molto simili apre una visione incredibile del nostro corpo come elemento naturale e integrato con i processi vitali.
      Siamo un organismo aperto che deve molto all'ambiente, ne siamo in simbiosi, quindi depauperare l'ambiente non può che portare all'inevitabile indebolimento del nostro corpo.
      Dobbiamo tornare ad essere stimolatori di vita e non portatori di morte e sterilità.

      Elimina
    2. dobbiamo avere una visione olistica :-)

      Elimina
    3. Sì ma non solo. Le ricerche di Alan Smith sono pura scienza, pubblicata anche su "Nature". Basterebbe che gli agricoltori studiassero, si interessassero davvero della terra in cui crescono le loro piante, che le Università la smettessero d'insegnate boiate sull'aratura, le concimazioni, il diserbo, la lotta alla piante infestanti. Tutte balle. Tutte pratiche inutili, macchè...dannose!

      Elimina
  4. Bellissimo post, lo condivido subito in ogni dove.

    RispondiElimina
  5. Pur condividendo, sono molto perplesso, soprattutto dai commenti, l'uomo interviene da secoli nel rapporto con la natura adeguandola alle proprie esigenze, credo che questo sia inevitabile, non solo per reale necessità ma anche perché c'è un ritorno economico per alcuni non indifferente.
    Io non credo che chi studia biodinamica o biologico non capisca nulla, come non credo che un microbiologo abbia una visione generale dell'intero processo. Lo dimostra il fatto che proprio degli studiosi di microbiologia hanno operato per produrre compost di nuova generazione, ma sempre di biodinamica si tratta.
    Penso invece che qualsiasi assolutismo è perdente e che l'uomo deve imparare a capire di più la natura e rispettarla ma non sempre potrà assecondarla totalmente, altrimenti cesserà di esistere. Non dovremmo ad esempio costruire mai nulla, perché tutto produce scorie e tossicità, anche quando si usano materiali cosiddetti ecologici.
    Evitiamo idealizzazioni in un senso o nell'altro, sono tutte destinate ad avere delle fallosità. Lo scopo ultimo dev'essere quello del rispetto per l'ambiente ma nei limiti del possibile, a meno che non siamo disposti a rivoluzionare totalmente la nostra esistenza, a partire dalle case che costruiamo, alle carni che mangiamo, ai prodotti che usiamo per proteggerci dal sole, alle medicine ecc. ecc. tutti elementi che comportano delle conseguenze nell'ambiente non indifferenti e dei quali dovremmo fare a meno.
    Pertanto parliamo di natura, cerchiamo di capirla, ma smettiamo di essere assolutisti e giudicanti. Non ne sappiamo mai abbastanza.

    RispondiElimina
  6. Bello, condiviso. Dal pensiero di anime belle al progetto politico culturale tuttavia si stende un abisso. Ancor più nell'approccio culturale alla terra, in fondo il politico dovrebbe garantire buone norme e leggi eque. Noi piemontesi sappiamo cosa vuol dire aver fatto scempio della terra, basta visitare paesi collinari "risorti" nel boom economico 60-70. Divenat sempre più importante fare rete. Intendo la langa albese,ad es., nello slancio utopico dellì'autosufficienza.

    RispondiElimina
  7. Giusto come bisogna ricominciare a pensare agli ospedali come ad ospedali e non ad aziende (anche se gestiti con criterio economico aziendalistico), alle fabbriche come fabbriche, al ...Governo come servizio e non come centro di potere, insomma a "produrre" non per il massimo profitto ma per servire il prossimo, che saremmo noi, cioè tutti gli uomini.
    Brown

    RispondiElimina
  8. E' esattamente il tipo di integrazione scientifica di cui c'è bisogno quando si vuole comprendere la differenza tra produrre alimenti e produrre merci. L'idea di coltivazione de "la Civiltà dell'Orto" è forse ancora più avanti rispetto a quanto chiarito con termini e tono appropriato nell'articolo, in quanto esclude tutte le pratiche agricole che non siano direttamente rivolte ad incrementare l'humus, cioè quella parte di terreno lì descritta come così simile a noi. Sarebbe fondamentale una visita da parte dell'estensore presso il nostro orto, certo per entrare in ulteriori dettagli tecnico / scientifici ma poi, davanti ad un buon bicchiere di vino, anche filosofici.

    RispondiElimina
  9. Condivido il parere espresso da tutti, il post stimola una serie di considerazioni che meritano sicuramente un serio confronto che porti alla definizione di un modello operativo equilibrato.

    RispondiElimina