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lunedì 1 agosto 2016

la guerra dei sogni

di Luigi con il contributo fondamentale de Gli Amici Del Bar, pensieri in chat


E’ possibile normare un movimento “naturale”?
La domanda non è banale e la risposta, a mio avviso, non può esserci.
La necessità, tutta umana, di semplificare per capire, porta con sé sempre delle esclusioni, dei fraintendimenti, degli eccessi di semplificazione che fanno perdere spontaneità al processo naturale che è intrinsecamente caotico.

Nella norma c’è anche la necessità, ambigua e pericolosa e poco democratica, di definire dei limiti e degli ambiti, insomma individuare l’alterità, il nemico e l’amico, chi è dentro e chi è fuori, la consacrazione di un processo bipolare.
Nella norma c’è anche la volontà, ambigua e pericolosa, di proteggere il consumatore che da tale norma sarà tutelato, in quanto i produttori che sottoscrivono il protocollo, hanno come obbligo statutario quello di seguirne i dettami e prestarsi ai controlli e alle verifiche.

Nella norma evidentemente non c’è più e Corrado Dottori lo segnala con forza, la componente etica, rivoluzionaria, culturale.
Dai suoi commenti al post si capisce ancor meglio la visione e la missione che Corrado Dottori attribuisce ai “vignaioli naturali”, è una posizione "agricola"! La stessa che spesso abbiamo, con fatica, portato avanti anche in questo blog.
Secondo Dottori non si può stralciare la posizione dei vignaioli da quella più ampia degli agricoltori e quindi va riconsiderata in toto la produzione agricola e le sue gravi problematiche qualitative, etiche, umane, economiche, ecologiche.

I vignaioli sono una nicchia dell’agricoltura che vive di un certo agio economico e riconoscimento sociale e culturale, privilegio che non possono condividere con nessun’altro dei colleghi agricoltori (contadini sarebbe meglio dire).
Sfido chiunque di voi a trovare verdure degne di essere consumate con piacere, senza parlare dei metodi di produzione e degli eccessi di chimica e delle gravi violazioni delle norme sul lavoro e sulla contribuzione.
Questa visione “agricola”, globale sarebbe molto più rivoluzionaria del tedioso quanto inutile dibattito fra vini nat e vini industriali ma e non me ne voglia Dottori non mi pare che nessuno abbia mai portato avanti un movimento per l’”agricoltura naturale” e sappiamo che sarebbe molto urgente farlo, proprio perché l’economia, i tecnocrati e i loro modelli attuali stanno “estinguendo questo mondo”.
D’altronde Lorenzo Corino poche settimane fa mi disse “l’olio (simbolo principe per la cultura mediterranea dell’agricoltura) è la cura, la medicina, il vino il gioco, il piacere”.
Vedere i vignaioli come capi cordata di un movimento contadino globale sarebbe una grande rivoluzione!

Per contro VinNatur ha proposto un protocollo produttivo ai suoi associati il cui risultato, al termine della sua applicazione, sarà una certificazione legale di “vino VinNatur”.
Qui la visione è di ambito, specificatamente quello economico e credo che la volontà di Maule e dei soci sia quella di superare la posizione di nicchia di mercato prima che diventi “loculo”.
Una certificazione può diventare “brand” riconosciuto e facilmente comunicabile.
Sicuramente la volontà è anche quella di superare la vergognosa certificazione “Bio” per proporre al mercato globale una nuova entità certificata e affidabile (il fatto che ci si debba certificare per avere “valore” è un limite molto contemporaneo, una sconfitta culturale pesante per noi consumatori che ormai vaghiamo acefali e pigri e demandiamo a terzi il controllo delle nostre scelte).
Sono anche sicuro che VinNatur e Maule siano stati mossi da una profonda sincerità e correttezza, è chiaro che ci troviamo di fronte a una semplificazione dettata da un programma pragmatico con connotati operativi prima che teorico/speculativi/insurrezionali.


Sempre in questo periodo sono stato stimolato, pungolato da un ristoratore piuttosto “effervescente” che sostiene ci sia la necessità di fare gruppo e di comunicare i luoghi (e le persone e le aziende) in cui si servono/commercializzano i vini naturali, al fine di stimolare anche un consumo più modaiolo (io credo che vadano sfruttate tutte le opportunità anche quelle che in un discorso snob fra amici sono stigmatizzate, sfruttare le debolezze di sistema mi pare un processo altamente creativo e stimolante)  che permetta di incrementare i volumi e renda il loro lavoro sostenibile economicamente.
Lo stesso ristoratore lamenta l’impossibilità di trovare verdure che siano degne di questo nome, persino ai mercati dei contadini, io gli ho proposto di creare una cooperativa son i suoi colleghi e di affittare del terreno e sperimentare delle produzioni orticole destinate a loro in primis e poi ai privati che vogliano acquistarli, ci stiamo lavorando!



Credo che adesso ci sia effettivamente bisogno di uscire allo scoperto e di promuovere i propri pensieri e il frutto del proprio lavoro possibilmente in maniera unitaria, sinergica dal basso verso l’alto, prima che siano entità extraterrestri a imporcele dall’alto e il pensiero di Corrado Dottori e le sue teorizzazioni devono essere la linfa vitale, lo spirito guida (con l’obbligo morale di aprirsi al mondo agricolo in toto) e i tentativi pragmatici, magari goffi possono trovare anche loro spazio e possono generare del reddito sufficiente a finanziare il movimento.
Chiaro che bisognerebbe anche lavorare sul mercato e non farsi coinvolgere dalle dinamiche malate e asimmetriche dell’economia attuale.
Una guerra dei sogni.


*di proposito ho scritto “e” e non ho messo “versus” (vs) proprio perché non riesco a pensare che gli uni possano essere contro gli altri, sarebbe una sconfitta culturale insostenibile.

mercoledì 6 luglio 2016

Il Ruchè della Vigna del Varsot

 di Vittorio Rusinà


Il signor Roggero, 78 anni, viene a sedersi al tavolo vicino, nella stanza in fondo al Bar Trattoria dove da sessanta anni la sua famiglia dà da mangiare e bere, stanza tenuta un pochino al buio per renderla più fresca in questi giorni afosi, e inizia a raccontare. 
“Io vengo da Castagnole Monferrato, la mia famiglia è conosciuta come i Miro dal nome della terra in cui abbiamo la casa e le vigne, vigne di Barbera e di Ruchè. 
Ah il Ruchè, una volta lo avevano in pochi.  Noi, quando ero piccolo, avevamo una vigna che era uno spettacolo, era la vigna del Varsot, giù verso Refrancore, la terra lì era sabbiosa, i grappoli facevano chicchi grossi grossi. Il mediatore che si chiamava Sciancabutun diceva sempre al mio papà di tenerlo dus, dolce, il Ruchè che in città così lo volevano e lui lo avrebbe pagato anche quattro volte di più rispetto al Barbera. Eh ma non era facile. Adesso lo vogliono tutti amèr il Ruchè”

testimonianza raccolta al Bar-Trattoria di via Oropa 9 a Torino, il 2 di luglio del 2016.
Il signor Roggero cura ancora qualche vigna di Ruchè e Barbera e forse metterà di nuovo del Grignolino ai Miro. Tutte le domeniche tranne due mesi d'inverno va a Castagnole Monferrato perché è là la terra del suo cuore.

lunedì 4 luglio 2016

Vini ad alto contenuto di verità/bis


Luigi Fracchia

Il post di Niccolò Desenzani pone l’accento sulla verità espressa da alcuni vini.
Lui parla del concetto di verità nell’accezione derivante dal greco antico.
αλήϑεια
aletheia
a-lethe senza veli

Una verità di ragione che diventa tale solo grazie alla logica, a seguito della scoperta delle condizioni che permettono di definirla.
E di pensieri sul vino, Niccolò in questi anni ne ha fatti molti.
Un processo, il suo, di disvelamento, di conoscenza, di narrazione.
E’ un lavoro complesso perché cultura e sensi fanno fatica a comunicare nel nostro cervello, sapori e profumi sono allocati in parti antiche del cervello che non comunicano molto con la corteccia frontale, per cui ridurre a λόγος (logos) le sensazioni è operazione difficile, talvolta impossibile.
Niccolò ci riesce meglio di molti altri e spesso esprime in concetti, sensazioni che, sopite ed inespresse, sono già lì velate nel nostro cervello e Niccolò è artefice del loro disvelamento.
In realtà noi quando sentiamo parlare di verità (ed è qui il problema principale dei paladini della finta laicità) pensiamo alla
veritas latina
che non è una verità di ragionamento ma una verità di fatto che assumiamo senza nessuna riflessione critica, una fede.

Due diverse verità, l’una determinata dal discoprimento delle ragioni che la inverano, l’altra rigidamente fissa e incontestabile.
La verità che percepisce Niccolò è la prima, figlia del logos e quindi legata al divenire, alle inevitabili modificazioni a cui la cultura è sottoposta.
Questa ricerca di aletheia condotta, forse, in maniera empatica, meno cosciente ma non con minore coerenza è portata avanti da Lorenzo Corino, Hubert Hausherr, Cyril Le Moing, Enrico Cauda e altri, i cui vini credo potrebbero entrare nel novero di quelli con “contenuto di verità di un vino” come li definisce Niccolò.
Territorio, lavoro, tradizione, basso impatto ambientale, solido pragmatismo il tutto condotto con la leggerezza e l’incoscienza legata alla consapevolezza di non poter e non voler controllare tutto.
Anche loro come Niccolò si affidano alla volatilità degli eventi e alla soggettività del gusto e delle scelte.
Potrebbero sembrare dei nostalgici invece, credo, che stia segnando una via per uscire dall’eccesso di programmazione e normalizzazione dell’attuale cultura, non solo enologica.
La sensazione leggendo i post di Niccolò e bevendo i vini di Lorenzo, Hubert, Enrico, Cyril è che siano capaci di penetrare più in profondità e rendere visibili i legami labili, inafferabili che ci legano alla terra.


Luigi

venerdì 1 luglio 2016

Vini ad alto contenuto di verità



di Niccolò Desenzani



Spesso, pensando alla mia passione per i vini naturali, mi chiedo quanta retorica ci sia nel mio gusto. Quanto condizionamento dato dall’adesione a un certo concetto del vino; ma anche quanto condizionamento proveniente dal suo prezzo e dal mio potere di acquisto.

Da un lato, onestamente, risolvo la questione attribuendo al mio gusto un alto livello di soggettività e accettando che sia comunque plasmato da tutti i possibili condizionamenti culturali e psicologici che mi caratterizzano, dall’altro, siccome è pur sempre una questione di estetica, di concetto del bello, c’è irriducibile un tentativo di afferrare qualche categoria appena più universale. E dunque, alla domanda perché un vino senza orpelli possa ambire a una maggior bellezza rispetto a un vino costruito con mezzi sintetici mi è capitato di percepire qualcosa che chiamerei verità, contenuto di verità di un vino. È sparare alto, me ne rendo conto, ma pensando alla parola greca aletheia, etimologicamente senza veli, penso che letteralmente il vino vero sia quello senza veli, in qualche modo nella sua forma più spontanea e quindi più essenziale. E poi il vino è dall’uva e quella dalla vigna e quella dalla terra e dal sole e dall’aria. Ed ecco che esser senza veli significa contenere la combinazione di tutti quei fattori, in un artefatto di senso compiuto che mantiene l’informazione al massimo livello di purezza. In giornalismo si parla di fonti primarie dell’informazione e di grado di verità putativa. Ed ecco che ritorna questa parola.
Certi vini sono verità allo stato di bevanda alcolica e credo che il nostro apparato sensoriale sia sufficientemente complesso per cogliere questo aspetto.
E goderne appieno.



Un vino che ha fatto condensare la nube di pensieri in questa piccola narrazione, che ne è emblema passo passo, è la Dorona di Gastone Vio, contadino e vignaiolo in quel di Sant’Erasmo nella Laguna di Venezia. Non solo egli ha custodito questo vitigno, semi abbandonato negli anni ‘60, mantenendo in vita le viti già in attività quando le comprò il padre di suo suocero (parliamo di viti fino a 130 anni), ma ne ha una cura meticolosa e un rispetto religioso, riducendo il suo apporto quasi unicamente agli aspetti meccanici manuali della coltura, osservando le piante in salute e in malattia senza quasi intervenire, ma anzi aspettandole anche dopo l’apparente morte vegetale “perché le viti a piede franco a volte si riprendono”.




Ogni trattamento cessa ai primi di luglio per garantire che nessuna traccia arrivi al vino, che è il frutto di operazioni manuali regolate dall’esperienza e la sensibilità di Vio, portando a mosto uva pura e sana. Il vino conoscerà solo il vetro in ogni fase, per finire in bottiglie tappate a corona quando il momento è propizio per quello che vuole essere un vino fermo, ma ha sempre un filo di elegante carbonica a testimone di vitalità.
La dorona porta un profumo di fiori bianchi schiacciati, forse un po’ di torba dolce. In bocca è equilibrato nelle componenti acide, saline e gliceriche. Un vino freschissimo e liscio, acido e rotondo al tempo stesso, che si beve con estrema facilità anche grazie a un nerbo che direi proprio minerale. Pur non essendo aromatico, il vitigno è caratteristico con sentori fini fini di zucchero grezzo di canna che ritornano al palato. Riconoscibile.
Questa facilità del liquido a divenire parte del nostro corpo, la gentilezza che riesce a esprimere, ne permettono una lettura nitida e si afferra così quel senso di vino senza veli, ad alto contenuto di verità.

Ah che bontà!



martedì 21 giugno 2016

Una Barbera a pranzo dai miei


A pranzo dai miei genitori, ormai assai avanti negli anni, è per me e per loro una gioia.
C'erano gli agnolotti serviti con un leggero velo di sugo di pomodoro e un "grilletto" di insalata verde con pomodori, cipollini e uovo sodo.
Sono arrivato da loro con una bottiglia di Barbera 2014 di Oreste Buzio che ha le vigne a Vignale non lontano dalle colline di Viarigi in cui mia mamma è nata.
Perchè questa bottiglia?
1) E' stata selezionata dalle amiche del negozio davanti alla mia edicola, Giorgia e Ninfa di Ala-Emporio Sabaudo che hanno creato un piccolo ma ben fornito reparto di vini naturali.
2) E' di un produttore che partecipò all'evento dedicato al grignolino organizzato anni fa da Fabrizio Gallino aka Enofaber (grande scout).
3) I Buzio, padre e figlio, hanno scelto da diverso tempo il regime di coltivazione bio (in una zona che sta faticando a convertirsi al naturale, ma piano piano qualcosa si muove).
4) Il prezzo di vendita: euro 7,50, molto corretto.
5) La qualità davvero ottima, la gran beva.
Mio padre più volte mi dice "Avevo proprio bisogno di una bottiglia così!", mia madre mi ricorda "A Vignale si andava a vedere il gioco del tamburello."
Mentre spreparo intravedo mia madre che si sofferma a tavola a intingere un pezzo di pane nel vino e il mio cuore scoppia, vorrei dirle che ammiro il suo gesto profondo, di vero amore, ma preferisco tacere, distogliere lo sguardo e lasciarla lì a compiere un gesto antico che ha il profumo della sua infanzia.

giovedì 24 marzo 2016

Ideale (e) naturale

di Niccolò Desenzani



"Naturale"’, detto del vino, non è il contrario di "artificiale", come i finger watchers (guardatori del dito, anziché della Luna) si affannano a voler capire, o peggio a non saper non capire. "Naturale" è il contrario di "ideale". È ciò che non ha una forma canonica cui tendere, cui avvicinarsi per via di addizione e sottrazione; è il porsi davanti a quel che sta per nascere con maggiore meraviglia, anche accettando che ci siano cose su cui è culturalmente alto e nobile il non voler intervenire, ma solo controllare. Ci passa la differenza che c’è tra l’antropologia e l’eugenetica. (Armando Castagno sul suo profilo Facebook)


Il pensiero di Armando Castagno ha il pregio di spostare l’attenzione dai discorsi legati all’impiego di certe sostanze e pratiche in vigna e in cantina come elementi per determinare la naturalità del vino. Infatti questo tipo di argomentazioni ha il difetto logico di portare alla contraddizione del totale non intervento umano, senza il quale il vino non esisterebbe.
Quindi, dato che far vino è un’attività umana che comporta l’interazione-manipolazione con la materia tramite “attrezzi” in vigna come in cantina, è corretto che la definizione di vino naturale si rifaccia a concetti astratti, filosofici, che definiscano al meglio la qualità di questa interazione-manipolazione. È allora sensatissimo parlare di canoni estetici, dal momento che il vignaiolo è artefice di un’opera alla quale vorrebbe dare una certa forma-sostanza o, meglio, che egli vorrebbe avesse una certa forma-sostanza. In questa apparentemente sottile piega di senso si annida lo spartiacque fra vino naturale e vino non naturale secondo il suggerimento di Castagno. Estremizzando, vediamo da un lato chi vuole controllare con ogni mezzo il risultato, puntando a un artefatto enoico con determinate e controllabili caratteristiche di forma e sostanza, fissate da un sapere tecnicistico, dall’altra chi cerca di creare le condizioni per dare inizio e poi assecondare un processo che ha un proprio senso e un’estetica naturali; in ultima istanza la cui forma e sostanza esprimono non tanto un’idea precostituita, ma piuttosto siano il segno di un equilibrio raro, ma naturale*.
Resta aperto il dibattito su quale modalità esprima meglio le tipicità di vitigno, territorio, clima, e troveremo sostenitori di entrambe le fazioni.
Cosa si portano dietro questi due atteggiamenti?
Io credo che si possa dire che nel primo caso l’accento sarà sull’utilizzo di pratiche tecnologiche al servizio di un risultato che rispetti ben definiti parametri organolettici e gustativi. Nel secondo l’artefice, per forza, dovrà assumere un atteggiamento di studio e osservazione dei fenomeni naturali per imparare in qualche modo a sfruttarli a proprio vantaggio, a tener lontano il mosto-vino da equilibri indesiderati, puntando a forme più o meno stabili e salubri**.
Ma una differenza irriducibile rimane: l’atteggiamento che potremmo definire enologico tecnicistico si basa su una pratica del tipo: “ se fai questo, ottieni quello”; ma in molte situazioni non saprà rispondere alla domanda “se non fai questo, cosa succede?”. L’atteggiamento naturalistico (e qui il termine calza anche nella sua accezione più comune) sarà più basato sull’osservazione e sul tentativo di spiegazione e per forza di cose porterà a percorrere strade che non si trovano nei manuali pratici.

* La fermentazione dell'uva è un processo naturale, ovvero una trasformazione fisica spontanea; essa può svolgersi "con o senza il controllo dei parametri ambientali e operativi, oppure artificialmente creando le condizioni affinché si indirizzino i fenomeni verso il risultato desiderato" (fonte wikipedia sub voce trasformazione agroalimentare).

** In questo secondo atteggiamento una profonda preparazione tecnico scientifica non può che essere di aiuto.

martedì 15 marzo 2016

Una serata pizzesca





  • di Niccolò Desenzani

  • Una sera di novembre, per chicchierare e stappare qualche bottiglia che aspettava di essere bevuta fra amici che del liquido odoroso han fatto una delle ragioni di vita.

  • 1) Billecart et Salmon Vintage 2004, bello sciampo elegante avvolgente belle bolle non troppo invasivo, dosaggio molto moderato, finale non eterno, ma comunque equilibrio e bocca pulita. Si è sposato divinamente con la pizza margherita.

  • 2) D'Ugni bianco 2013. In formissima. Appena aperto è un vortice quasi magmatico di sale, lieviti, acidità; super funky, ma chiaramente per nulla difettoso, o meglio, talmente enologicamente coerentemente scorretto da essere perfetto e integro. Nessuna deriva puzzona, giusto il tempo per distendersi e lasciare che sale e acidità, con una volatile di penetrazione giustamente integrata e bilanciata da una quantità di feccia da far sembrare il Barbacarlo un vino filtrato sterile, definissero una dimensione di inedita beva selvaggia. Si mantiene per tutta la serata benissimo.

  • 3) Pinot nero LN012 2013 di Schueller: bevuto anni fa un 2005 che mi aveva sconvolto per la bontà, qui sicuramente infanticidio. Allo stappo ha sparato fuori qualche schizzo. Nel bicchiere subito un naso ammaliante ancora troppo giovane e compatto, che ricorda il meglio Antonuzi, ma anche qualche grenache stile Gramenon d'antan. In bocca invece dritto come un fuso, compatto e schioccante. Tutto giovane, ma tutto equilibrato e succosissimo. Anche in questo caso il no so2 non è certo motivo di difetti, al contrario è purezza di vitigno, di territorio e beva a gargarozzo.

  • 4) Jolly dal cilindro. Un naso struggente di dolcezze e sussurri mediterranei, una bocca invece che tiene l'austerità e una nota quasi verde, ma sotto c'è una luce di freschezza da posti caldi. La bocca ha qualche cosa di nebbiolesco e mi porta verso aglianico e poi cirò. Invece è quel miracolo di vino del Guccione di una volta: Rosso di Cerasa 2009: mezzo nerello, mezzo perricone. Comunque siamo in zona fuoriclasse. La bocca è dinamica articolata fra acidità, sali, note salmastre e succosità suadenti. Il naso rimane un viaggio verso l'oriente mediterraneo forse di spezie dolci e profumi lascivi… Col tempo l'acciughina , quella buona, si fa strada.

  • 5) Questo era il programma, già ampio, delle bevute. Ma quando in una sera stappi e tutto sembra dare il meglio, viene voglia di aprire ancora e ancora.... e così ritorno in cantina e prendo la Barla 2010.
  • Caspita la barberasa! Il naso inganna, inizialmente, portandoci in Langa, ma poi la nota di smalto e la bocca di sapida acidità astigiana, lo porta in zona Ratti e poi necessariamente a Corino. Annata meno ricca, meno sangue dolce, ma tanta fresca acidità insieme a una materia che si evolve barbericamente percorrendo tutti i luoghi che sono di quell'amato nostro vitigno. Tantissima terra nel sorso...

  • La mattina dopo in chat:
  • - dove siete tutti?
  • - Da me a bere Barla
  • - ah ecco, bastardi
  • ...
  • - Ci starebbe un post...

mercoledì 24 febbraio 2016

Os Gazeteiros a Lisbona




di Niccolò Desenzani

In un piccolo viaggio a Lisbona, che città meravigliosa, ho quasi messo da parte la ricerca ossessiva del vino, tanto la luce di quel luogo è inebriante.
Unico appiglio verso il mondo dei vini naturali portoghesi, la distribuzione Os Goliardos, che già da qualche anno partecipa a Vini Corsari, ambasciatrice dei vignaioli in Italia.
Di fatto a Lisbona la cultura del vino artigianale mi è parsa davvero poco diffusa.
Una piccola grande eccezione è un locale minuscolo, nato poche settimane fa da due ragazzi francesi, Os Gazeteiros (i pigri): credo sia il primo posto a Lisbona che recita Cozinha e vinhos naturais.
Sembra un piccolo particolare, ma io sono convinto che il loro sarà un vero primato in città, presto emulato e seguito da tanti.
Mi ha colpito come anche a Barcellona la “rivoluzione gentile” dei vini naturali sia partita da un piccolo locale “L’anima del vì”, da due francesi. Poi ognuno faccia le associazioni mentali che gli paiono più azzeccate, ma è un fatto che in questo campo la Francia è sempre il seme, l’origine.

David Eyguesier ai fornelli

Venendo al locale: gentilezza. Piccola scelta di vini dal Portogallo e dalla Francia, piccola cucina di sapori delicati; ogni piatto cucinato al momento, a vista, a partire da ingredienti “di mercato”: soprattutto verdure e spezie leggere, come il cumino e il coriandolo. Qualche acidità di limone. Qualche spunto dalla tradizione.
Un pranzo al modico prezzo fisso di 14€, composto di quattro portate:
Una crema ruvida credo a base di cavolfiore da farci scarpetta.
Un brodo vegetale con verdure insaporite di spezie.
Un pezzetto di petto di pollo, sempre in un brodo di verdura appena acidulato dal limone e con un tocco di coriandolo.
Infine un risotto con le coste insieme a delle sarde saltate in padella.
Pochissimo il sale, con la possibilità di aggiungerne di integrale da macinino.



Abbiamo bevuto due bianchi.


Humus Lb 2013, Encosta da Quinta, veramente buonissimo. Un vino di apparente semplicità, ma perfetto equilibrio e grande freschezza. Si sposa perfettamente col cibo e nel bicchiere danza e cambia, regalando sfumature sempre differenti. Un senza solfiti da uve arinto, di grande pulizia e carattere. La zona di produzione è la regione di Lisbona. 19€ la bottiglia al tavolo.




Auratus 2014, un blend di treixadura e alvarinho di Quinta do Feital della denominazione Minho. Un po’ meno fresco, con elementi di pseudodolcezza, qualche possibile predisposizione all’idrocarburo e un filo di acetica. Ma comunque di discreta beva e piacevolezza. 18,50€.


PS Segnalo che questo fine settimana si terrà l'evento Simplesmente Vinho, sui vini di piccoli produttori: peccato non essere ancora lì!