Negli anni
settanta-ottanta, ad agosto, mia mamma si dedicava alla raccolta della frutta e
alla sua trasformazione in marmellata. Raccogliere la frutta matura
direttamente dall’albero era una esperienza sensoriale incredibile sia per il
sapore sia per la impagabile sensazione di autonomia alimentare che dava.
Era bello
pianificare le nuove piantumazioni e salutare le vecchie piante ormai esauste
(i peschi, ad esempio, piante generose e belle hanno purtroppo una vita breve a
differenza di ciliegi, noci, meli, peri, fichi, cachi).
A dire il
vero la raccolta era faticosa e, vista la mia pigrizia, non mi esaltava, però
il risultato finale: la marmellata era una scheggia di sole fondamentale per
attraversare gli inverni nebbiosi.
Poi,
un giorno,
a casa di un amico, assaggiai una marmellata, sempre “di casa” ma completamente
diversa!
Una sorta
di gelatina quasi trasparente che teneva in sospensione dei pezzi di frutta, i
quali avevano la consistenza e il sapore del frutto quasi crudo!
Rimasi
colpito da questa innovazione tecnica*, mi feci spiegare come
replicarla e convinsi mia madre l’estate seguente ad
utilizzare la nuova metodologia produttiva.
Acquistai
della pectina in buste e via verso un “nuovo e migliore” orizzonte
organolettico! (in noi occidentali è radicato il concetto abnorme e irreale
del progresso continuo, del futuro che sarà sempre meglio del passato per cui
il “nuovo” sarà sempre meglio del vecchio e dimentichiamo che il futuro non
esiste, le uniche cose che possiamo conoscere sono legate al passato!).
Devo dire
che subito la nuova marmellata mi piacque molto, manteneva la freschezza di
frutto appena colto, una acidità maggiore e una croccantezza superiore.
Però a
distanza di mesi questa esasperata crudità (che peraltro scemava e mutava non
sempre in meglio) sembrava anomala, caricaturale, assurda.
Oggi dopo
venticinque anni, quella esperienza tecno-organolettica mi è sembrata didattica
se riferita al mondo del vino che pare ormai spaccato fra i soliti “tecnici” e i
soliti “artigiani” e questa spaccatura mi ha sempre lasciato il dubbio che la
mia visione (pro artigiani) fosse arcaica, reazionaria e che la mia avversione
verso i propugnatori della tecno-scienza-perennemente-innovatrice fosse errata,
antimoderna.
L’ossessione
dei tecnoscienziati è quella di essere sempre e comunque portatori di un
fattore di miglioramento legato esclusivamente al circolo vizioso della novità
tecnica vista come miglioramento in quanto “novità” tout court!
Invece di
lavorare sull’esistente e affinare i processi produttivi provenienti dall’esperienza,
hanno deciso di sostituire la “memoria”, ritenuta retrograda, con il “nuovo”,
con un processo continuo che quasi mai guarda indietro e raramente integra i
saperi.
Questo ossessiva sostituzione del passato e delle sue tecniche
con altre sempre più recenti, ha portato ad un processo “culturale” che genera
oblio e ignoranza e ad un processo “produttivo” che genera la perpetua
obsolescenza degli impianti e delle attrezzature e dei protocolli (la manna per
i venditori di tecnologia).
Non ci
accorgiamo che spesso la “nuova tecnologia”, prima che essere una risposta ad
un problema, è la risposta al mercato dei venditori, i quali supportati da
“studi mirati e pubblicazioni scientifiche” creano la necessità di acquisto dei
nuovi macchinari nei produttori sensibili al mantenimento della
“contemporaneità”.
Un anno fa
una mia cara amica produttrice mi disse che era entusiasta del nuovo enologo
che aveva portato in dote una nuova tecnologia per produrre una malvasia frizzante
ancora più fruttata, floreale, profumata.
Ci ho ragionato
un anno prima di decidere che mi pare una follia affidarsi alla tecnologia per
esaltare il varietale di quell’uva, negandole la complessità di altre
componenti.
Probabilmente, avrei provato a vinificarla come un rosso normale per esplorare
la profondità dell’acino completo e non mi sarei fermato alla superficialità
dell’aroma primario, ottenuto oltretutto con gran dispendio di energia e mezzi.
Perché
puntare alla semplicità, con derive banali, con costosi mezzi tecnici quando si
può raggiungere grandi complessità con minimi mezzi tecnici?
E soprattutto
perché dimenticare?
Perché sostituire
invece di manutenere e migliorare?
Luigi
Bello scritto. Ai tempi si facevan marmellate non per esperienza sensoriale. Si facevano e basta. Il punctum dolens è l'ossessiva ricerca di consenso. Di qui consegue quanto tu descrivi con cuore. Ciao.
RispondiEliminaCaro Luigi,
RispondiEliminaho apprezzato , sento il tuo sentimento e l'ancestralità del 'gusto' dei misteri della vita che ti è dentro . Non ci sono competizioni da avviare, il valore rimane quello che abbiamo noi e,qualche volta, anche per l'opportunità di poterlo comunicare agli altri..ma non tanti son 'maturi' per capire e la giostra continua. Forse avrai letto il libro di Pollan "Il dilemma dell'onnivoro": se non , te lo vorrei regalare. ciao
Ciao Luigi, centrato in pieno!.Nella semplicitá le migliori soddisfazioni. E' arrivato il tempo del togliere. Viva il salasso! A presto!
RispondiEliminaGrazie di essere passati dal bar oggi.
RispondiEliminaLorenzo parlare con te quindici anni fa ha dato il via alla concezione che ho oggi dell'agricoltura e della viticoltura, reincontrarti due anni è stata una seconda illuminazione, assaggiare i tuoi un privilegio che custodisco nel cuore.
Pollan l'ho già letto avidamente, comunque è come se a regalarmi il libro fossi stato tu.