Pagine

venerdì 29 novembre 2013

Dal giardino delle Esperidi: l'ARANCIA

di Rossana Brancato


L'arancia è un esperìdio, il frutto del Citrus aurantium, appartenente alla famiglia delle Rutaceae, pianta origiraria della Cina, che si diffuse nel Mediterraneo con la dominazione araba.  Anche questo frutto cresceva, secondo la mitlogia greca, nello splendido giardino delle Esperidi, le ninfe Egle, Aretusa ed Esperia.
Le varietà si distinguono in:
  • Bionde (Navel, Vaniglia, Brasiliano, Riberella DOP) e  
  • Pigmentate (Moro, Tarocco, Sanguinella, Arancia Rossa di Sicilia IGP).
Frutto invernale, matura da novembre a primavera.
Per aumentare la conservabilità, il frutto viene trattato con cere ed altre sostanze chimiche, tra cui il difenile
Sarebbe preferibile consumare le arance e tutti i prodotti ortofrutticoli nella giusta stagione.



Nutraceutica
Due arance coprono il fabbisogno giornaliero di vitamina C, che insieme ai flavonoidi, antociani e terpeni  presenti, responsabili dell'aroma e del colore, assicurano un'elevata assunzione di antiossidanti. 
Sono inoltre disintossicanti e diuretiche. Contengono anche Calcio, Potassio, carotenoidi e vitamine B.
100 g forniscono solo 34 kcal, date dal 7,8% di zuccheri presenti.
Le arance possono facilmente essere consumate ad ogni pasto:
a colazione, come spuntino, impiegate nella preparazione di carne o pesce (rendono più assimilabile il ferro), o come contorno in insalata.
Il succo può essere emulsionato all'olio evo, sale e pepe per creare la salsa Orangette.
La scorza, come quella di tutti gli agrumi, può essere utilizzata per aromatizzare dolci e salati, può anche essere candita, o impiegata nella preparazione delle marmellate ed oli o sciroppi aromatizzati.
Il decotto della buccia è un digestivo ed aiuta a ridurre i crampi addominali.
Gli oli essenziali contengono psoraleni, alla luce solare, danno reazioni di fotosensibilizzazione e causano macchie cutanee. 




Vi aspettavate qualcosa di dolce forse, ma la facilissima ricetta che segue è un potente mix di vitamine, minerali, fibre e antiossidanti da consumare spesso per resistere meglio ai malanni di stagione, ideale per accompagnare sia carni che pesce.
Ha le potenzialità di un leggero piatto unico, se arricchita da gherigli di noci e un trancio di focaccia integrale ad esempio.


Insalata antiossidante



Per quattro persone:

3 arance
1 cespo di rucola
2 finocchi
1 melagrana piccola
1/4 di cipollotto rosso fresco
soffi di sale di Trapani, pepe nero di Sarawak, olio evo.

Lavare la rucola, asciugarla e ridurla in pezzi con le mani per non ossidarla.
Prelevate i semi della melagrana.
Mondate i finocchi, lavateli accuratamente, tagliateli sottilmente (ho utilizzato la mandolina) e teneteli in acqua e ghiaccio mentre preparate gli altri ingredienti.
Lavare il cipollotto e tagliarlo in diagonale a velo.
Lavare le arance e pelarle a vivo, spremete il succo degli scarti e tenetelo da parte.
Comporre l'insalata: disporre la rucola, il finocchio sgocciolato e passato su carta assorbente, gli spicchi d'arancia, le olive di Taggia, i semi di melagrana e il cipollotto.
Emulsionare il succo d'arancia con il sale, il pepe, e 40 ml di olio evo. Condire al momento.


Rossana

giovedì 28 novembre 2013

Langhe Nebbiolo 2010, Cascina Corte

di Niccolò Desenzani



Il Nebbiolo di Cascina Corte 2010 è forse  il classico esempio di vino ben fatto che rischia di passare per anonimo. 
Ma.
A ben vedere si tratta di un ottimo vino, in understatement, cui c'è da riconoscere un’espressione di purezza nebbiolesca non comune. Dosato fino al milligrammo di solforosa, con un uso del legno seminvisibile, come dovrebbe essere, gradazione che riesce a non esplodere, gran bello sviluppo dopo l'aperura. Tannino appena mordace, ma che onestamente legge il territorio, la viola nebbiolesca rappresentata in modo netto, alto livello di beva, estrema pulizia pur parlando la lingua del vino genuino. Balsamicità da corso di base dei Nebbiolo. Colore perfetto, rosso rubino con quei riflessi aranciati che si amano tanto e presagiscono longevità…
Ecco potrei pure andar avanti a elencare qualità di questo buon amico, ma il senso è che se dio è anche nelle piccole cose allora questo nebbiolo è una testimonianza.
Però apritelo il giorno prima!
Secondo giorno meglio, terzo ancor meglio.

mercoledì 27 novembre 2013

Extraverginità di Tom Mueller, EDT edizioni



Anche visto da vicino, l’ulivo ha un colore
che sembra venire da lontano. Forse per questo
Ha riportato la colomba l’ulivo, albero che cresce
di un pallore ultraterreno, che non si offusca né si secca mai,
e la cui sete profonda, oltre ogni eccesso,
insegna che il sud non è il paradiso.

R. Wilbur, The Olive Trees.

E’ un libro da comprare e leggere con attenzione (cosa per altro semplice, è ben scritto e ben tradotto) perché come spesso succede, chi più è dentro a un mondo alla fine lo percepisce in maniera distratta e ne perde le peculiarità e le disfunzioni.
D’altronde noi Italiani abbiamo assistito al decadimento della qualità del nostro cibo immoti, muti, forse rassegnati, sempre ingannati da chi ci diceva che il progresso, l’imprenditorialità, la serialità, l’industrializzazione  erano la “VIA” verso il progresso.
All’olio è successo ciò che è successo a tutti i cibi che ci circondano, è diventato merce ed il guadagno è l’unico concetto compreso ed accettato dai grandi produttori.
Invece Tom Mueller, Texano con radici oramai italiane ci spiega nel suo libro che:
L’olio di oliva extravergine non è (dovrebbe essere) niente altro che succo di frutta fresco (devo ammettere che questa immagine è molto forte ma io non ho mai pensato all’olio in questi termini!);
L’olio di oliva extravergine è simbolo delle culture mediterranee e della nostra spiritualità;
L’olio di oliva extravergine è un prodotto che ha costi di produzione piuttosto elevati a partire dal campo sino alla spremitura;
L’olio di oliva extravergine è un prodotto che attraverso le sofisticazioni può far rendere molti soldi con rischi penali molto bassi e le infime quotazioni del prodotto adulterato “drogano” il mercato dei produttori seri;
L’olio di oliva extravergine è malgrado tutto una “droga” per alcuni produttori che si impegnano nell’aumentare sempre di più la qualità con ritorni economici discutibili;
Insomma dopo averlo letto non riuscirete più a guardare con gli stessi occhi le bottiglie che affollano gli scaffali della gdo, ci vedrete sempre navi cisterna cariche di olio di cotone sballottate dalle onde al largo delle coste Turche, impianti di deodorazione con fumi alla “Blade Runner”, impasti maleodoranti di sansa e esano che entrano nelle raffinerie per la desolventizzazione ad alta temperatura, insomma un mare oleoso di traffici più o meno illeciti volti esclusivamente a fare guadagnare pochi con metodi molto discutibili, se non pericolosi per la salute del consumatore.

Il vino incarna la vita che vorremmo, ma l’olio rappresenta la vita come è: fruttata, pungente e con una sfumatura d’amarezza complessa - la triade sfuggente dell’extravergine.

Poscritto
Sul fatto che l’olio sia una insana passione mi è stata confermata da una telefonata con Patrick Ricci giocoliere delle lievitazioni e funambolo della pizza, il quale stava partendo nottetempo da Torino alla volta del Lazio per andare a cogliere olive nell’oliveto di famiglia. Per avere il “suo” olio passa un paio di settimane in campo per la raccolta manuale, ore ad aspettare la frangitura delle olive e ore a telefono con l’agronomo per migliorare la qualità delle sue olive.

Postposcritto
Incredibile leggere che un tempo i frantoi erano assimilabili a delle piccole industrie e l’olio che veniva estratto era venduto per l’alimentazione e per illuminare, trasformato in oli profumati, medicinali, bruciato per alimentare fucine dei metalli e altre attività.
Tutto ciò utilizzando energia ottenuta da un prodotto rinnovabile nato da quel miracolo ancora praticamente ignoto che è la fotosintesi.

martedì 26 novembre 2013

Il mio primo #Serbatoy1

di Daniele Tincati


Qualche giorno fa ho avuto la fortuna di partecipare ad uno di quei raduni carbonari che si formano per aggregazione spontanea di persone animate dalla stessa passione.
O meglio, organizzate abilmente dal genio di una persona.
Meglio ancora, organizzate da una persona, col contributo spontaneo di altri.
La persona in questione è quel folletto (non per la stazza) di Luca Ferraro, dell’azienda Bele Casel, produttrice di Prosecco Asolo DOCG e Colfóndo, che ha messo a disposizione casa sua per l’incontro.
Non solo casa sua, ma anche una serie di serbatoi (da qui il nome) pieni di vino “atto a divenire Prosecco Asolo DOCG” da cui spillare a più non posso per scoprire le differenze tra le varie zone di provenienza (vigneti situati in varie zone limitrofe), o i vari esperimenti fatti da Luca e suo padre.
Ritrovo prima di pranzo a casa della famiglia Ferraro, in quel di Caerano S.Marco, pranzo offerto da loro e magistralmente preparato da Stefano Caffarri, aiutato in cucina da Sara Querzola, Marianna Pillan, Davide Cocco e Riccardo Avenia.
Sono quel tipo di eventi di cui vieni solitamente a sapere solo dopo che si sono svolti.
C’è sempre un sacco di gente interessante e si imparano tante cose nuove.
E io ne ho imparate tante:

- assaggiare il vino da una ventina di vasche è impresa ardua, ci vuole il fisico, e molti non ce l’hanno;
- il Prosecco o Glera, è un vitigno molto interessante, benché se ne parli male, e sarebbe bello provarlo anche nella versione ferma (se qualcuno la producesse);
- il mosto del Prosecco è una delle cose più buone che abbia mai bevuto. Se si riuscisse a trasportare quei profumi nel vino, sarebbe una bomba;
- Luca Ferraro non sta mai fermo, non si stanca mai (almeno non lo da a vedere), produce energia internamente per mezzo di una pila atomica;
- Stefano Caffarri è tanto bravo a scrivere quanto in cucina;
- Sara Querzola dovrebbe aprire un ristorante;
- Davide Cocco sa fare un po’ di tutto;
- Riccardo Avenia è uno (abile ?) squartatore di pesce;
- Maria Grazia Melegari è una fotografa seriale, deve avere una macchinetta nascosta negli occhiali;
- Dan Lerner ne sa una più del diavolo;
- Mike Tommasi ha un’automobile tipo “Ritorno al futuro”;
- ci sono tanti semplici appassionati (vedi il sottoscritto), ma molti con sta roba ci lavorano;
- c'è sempre qualcuno che dà buca, benchè si sia prenotato volontariamente, peccato per chi era in lista d'attesa e sarebbe venuto volentieri;
- in tanti sono molto “social”, ma un po’ meno “compagnia-l”, abituati ad essere sempre sul pezzo online, trascurano leggermente i rapporti umani a pelle per privilegiare quelli a bits.

In conclusione, non posso che ringraziare la famiglia Ferraro per l’ospitalità e la bella esperienza, e per aver creato un’occasione per conoscere “fisicamente” tante persone con cui si discute di vino via etere.
Sperando in un #Serbatoy2.


lunedì 25 novembre 2013

Bricco della Serra 2009, Monferrato doc Dolcetto, Bera Vittorio e figli.

di Niccolò Desenzani



Ehh il Dolcetto di Bera...
Vecchio amore colla 2006, è vino indelebile. 
Eppure era un po' d'anni che non mi ricapitava.
Si parlava in questi giorni dell'imminente uscita dei vini di Cornelissen, e proprio il giorno prima di aprire questa bottiglia Eugenio ha bevuto il Contadino 10.
Per ironia, apri il Dolcetto Bricco della Serra 2009 e nel bicchiere c'è un nerello! 

Assolutamente enologicamente scorretto, ma di espressività pazzesca.
Un vino stupefacente dai sapori forti, carbonica da quasi rifermentazione, instabilità, odori fermentativi e batterici, vita selvaggia nel bicchiere. Ma una forza nel sorso, estremo eppur così bevibile, un vino-creatura-mitologica, con mille teste.
Tannino bello, del dolcetto, torrefazione che par d'esserci dentro, una freschezza che ti invade ogni poro, come l'odor della boscaglia d'autunno dopo la pioggia.
Vulcanico: che l'Etna sembra dietro l'angolo e non capisci come ciò possa accadere a Canelli!
Se c'è un vino dove la forza della natura si sente davvero questo è il Dolcetto di Bera 2009.

Una bestia!

*Scopro solo dopo aver avuto questa strana rivelazione della chimera dolcetto/nerello, che successe la stessa cosa a Luigi un paio di anni fa. Come diceva il buon Sherlock, due coincidenze fanno un indizio…
A voi la prova.

domenica 24 novembre 2013

cachi&kaki

Di Rossana


Diospyros kaki secondo Linneo, comunemente Kaki, Cachi, Loto o Diospiro.
Pianta di origine cinese, si diffuse in Corea e Giappone, arrivò in Europa a metà del 1800.
In Italia si coltiva principalmente in Campania, Emilia Romagna, Marche, Veneto e in Sicilia.
Pianta che si sviluppa oltre i dieci metri, appartiene alla famiglia delle Ebenaceae, fiorisce a giugno, le grandi foglie e la ramificazione ne fanno una pianta ombrosa. A maturazione le bacche acquisiscono il caratteristico colore arancio intenso, la polpa ha consistenze multiple: gelatinosa in prossimità dei semi, si fa meno densa per arrivare allo stato di soluzione.
Le varietà a polpa dura più diffuse sono Suruga e Hana Fuju, noto come cachi-mela, si sta diffondendo sul mercato per la sua conservabilità, ma le varietà più delicate hanno un sapore più fiorito e vanigliato.
La parte edibile arriva al 97%, esclude la sottilissima buccia, che a maturazione si crepa facilmente, e il picciolo.
Il peso dei frutti può variare dai 40 g dei lotini di Misilmeri (PA) a 300 g.


http://www.pinterest.com/pin/193021534000933580/


Sono state censite più di 2000 cultivar, che si differenziano per dimensioni, qualità della polpa e possibilità di essere consumati alla raccolta. Contengono un'alta percentuale di tannini, e quando i frutti non sono perfettamente maturi conferiscono il caratteristico carattere astringente.
Raccolti ad ottobre, vengono refrigerati e sono presenti sul mercato fino a dicembre.

Nutraceutica
In Giappone si consuma anche essiccato, ma è un frutto che va mangiato fresco per non concentrare ulteriormente il suo già elevato tenore glucidico, che arriva al 20%. Contiene 3 g di fibre per 100 g.
Diuretico e lassativo, sconsigliato ai diabetici come uva e fichi per l'alto contenuto di glucosio. 
Fonte preziosa di carotenoidi, vitamina C e Potassio.
Da consumare con moderazione.

Acquisto
I frutti devono essere sodi, senza lesioni sulla buccia, di colorazione omogenea. Controllare che non ci siano impurità vicino al picciolo.
Manipolare con delicatezza, si conserva 3/4 giorni in frigo.




Speziata, soffice e molto autunnale la base per torta di noci, ideale anche da sola con una calda cioccolata in tazza o con un tè Lapsang Souchong.

L'ho arricchita con una voluttuosa Namelaka montata, ma si presta a molte varianti: si può accompagnare con chantilly, gelato o salsa inglese.
Per bilanciare i tannini delle noci e la crema di cioccolato, che non ha quasi zuccheri aggiunti, ho semplicemente frullato la polpa di cachi, ottenendo un coulis che ha una buona densità e non necessita di addensanti o zuccheri, grazie alla dolcezza dei frutti.


 Bitter sweet autumn






Per la torta soffice di noci:

150 g di farina di noci
50 g di fecola di patate
150 g di zucchero 
5 uova
6 g di lievito chimico per dolci
5 g di caffè macinato
3 g di spezie per Pain d'épices
semi di vaniglia
scorza di mezza arancia
un pizzico di sale

burro e farina per lo stampo o carta forno

Preriscaldare il forno a 180°C, modalità statica.

Montare gli albumi, quando iniziano a diventare schiumosi unire lentamente 50 g di zucchero, non devono arrivare a neve ferma.
Montare i tuorli con 100 g di zucchero, unire in due riprese le polveri miscelate insieme, e sempre mescolando con una spatola, amalgamare gli albumi.
Versare la massa nello stampo, infornare e cuocere per circa 35 minuti.


Per la Namelaka montata:

100 ml di latte fresco intero
4 g di glucosio
5 g di gelatina in fogli
125 g di cioccolato fondente al 60% di cacao  
200 ml di panna fresca

Mettere a bagno la gelatina in acqua fredda per 10 minuti.
Tritare il cioccolato.
Portare dolcemente a bollore latte e glucosio, aggiungere la gelatina e mescolare, fuori dal fuoco emulsionare il cioccolato con il frullatore ad immersione, versando a filo la panna, evitando di incorporare aria. Coprire con pellicola per alimenti,refrigerare.
Dopo circa sei ore sarà pronta per essere montata, in planetaria o con le fruste elettriche per circa cinque minuti.
Con l'aiuto di una sac à poche utilizzare la crema per farcire la torta e decorarla.

Per il coulis di cachi:
frullare 300 g di cachi maturi.
Noci per decorare.

Rossana

venerdì 22 novembre 2013

XX Bitter De Ranke. L’amaro del Belgio

 di Diego deLa



































La storia della Brouwerij De Ranke inizia in un garage della Vallonia dove due appassionati e un po’ temerari homebrewers, al secolo Nino Bacelle e Guido Devos, creano (nel week end) la birra più amara del Belgio. In un certo senso i due amici sfidarono un po’ la sorte introducendo un elemento alquanto alieno alla grandissima tradizione brassicola che contraddistingue le produzioni belghe, ma a quanto sembra, imbroccarono la strada giusta visto che questa birra ha dato il via ad una sorta di filosofia produttiva nazionale caratterizzata dall’abbondante utilizzo del luppolo.
Nel bicchiere questa XX Bitter si presenta con un bel colore dorato lievemente velato, la schiuma è pannosa, bianca e molto persistente. 
Il naso rivela l’utilizzo di malto pils con un ottimo attacco caratterizzato dal mielato ed esprime una fragranza che ci riporta alla camomilla, si apre poi verso un floreale molto delicato che richiama la lavanda e i fiori di campo, in seguito accenni di  crosta di pane e la nota erbacea data da luppoli nobili (hallertau e brewers gold, rigorosamente in fiore, in questo caso), con l’alzarsi della temperatura di servizio si presenta anche una sensazione olfattiva agrumata.
In bocca il corpo è medio così come lo è la carbonazione; anche qui l’attacco è caratterizzato dal miele a cui fa capolino la "belgitudine" con la classica speziatura data dal lievito ed una nota tendente al rustico, arriva poi (finalmente) un’onda amara, intensa, profonda, che vira verso l’erbaceo e la radice ripulendo il palato, Il finale è caratterizzato da buona persistenza che  chiude con estrema eleganza un percorso degustativo di altissima qualità. 
Una birra volutamente sbilanciata verso l’amaro che riesce ad imporsi con autorevolezza e trova nel gioco delle parti tra luppolo e lievito il suo punto di forza. Provatela con delle albicocche secche. 



giovedì 21 novembre 2013

Tempo



Il tempo è denaro.
L’occhio è vigile, si butta in qui e in lì tra le bancarelle del mercato, continui passaggi prima di andare al lavoro la mattina, per diverse settimane (che sommate sono diventate mesi), e alla fine li ho trovati: i miei jeans, quelli che mi piacciono e mi stanno decenti. Il tempo è denaro: 8 euro. A volerli subito: solo in un negozio e a un prezzo più alto. In sintesi: chi cerca trova, e risparmia; ma per cercare occorre tempo.

 Il tempo è denaro. Anche nel senso che vale.

Il tempo è la mia vera ricchezza perché è tutto quello che ho. In realtà è tutto quello che ho sempre avuto, ma prima pensavo di avere altro (soldi ad esempio).

Il tempo alimenta la mia identità e il mio umore. Una bella responsabilità decidere come viverlo e con cosa riempirlo! E siccome non so smettere di essere io (ma c’è qualcuno che può? si può davvero andare in stand by?) anche mentre lavoro ci metto quello che sono io, e la qualità del cosa faccio, del come, dell’incontro, della relazione che vivo in quelle ore per me sono importanti.

I am spending my time dicono gli inglesi. I soldi ben spesi si chiamano investimento; e anche il tempo, se lo usi bene, acquista più valore.

Il tempo è prezioso.

“Quanto mi costi all’ora?”
“Ma che domanda mi fai? All’ora? E che ne so io? Nella nostra economia il valore di un oggetto ha come variabile la quantità disponibile. Ora, vorrei evitare di angosciarmi con certi pensieri ma è evidente che se c’è una cosa di cui nessuno sa quanto dispone è il tempo. Quindi: è escluso che io possa monetizzarti il tempo”.

 Alle elementari mi avevano insegnato che si sommano le mele con le mele e le pere con le pere. In effetti, in questo periodo scambio tempo con tempo. Dò tempo quando faccio la babysitter a figli di amici, o disegno un bancone per un’amica che apre un’attività (sono architetto e di locali ne ho fatti diversi), e ricevo tempo, come quando la mia amica mi porta i suoi crumble, che ha fatto mettendoci tempo, e tutta se stessa e la sua cura. Ma la gente mangia tutti i giorni mentre non ha bisogno tutti giorni di banconi, quindi chiaramente un sistema di quantificazione e un medium come il denaro possono tornare utili.

Ma si potrà ben trovare un modo non basato sul tempo!  Un modo per calcolare compensi che rispondano davvero al contributo che si porta al datore di lavoro, e anche alla società, attraverso un lavoro non da automa ma fatto con identità e presenza.

 Ma torniamo al tema.

Il tempo.
O anche, i surgelati: emblema di un inganno.
Ore 6,00: sveglia

dar da mangiare al gatto: fatto

preparare caffè: fatto

innaffiare le piante: fatto

stendere il bucato: fatto

preparare due cose da mettere nel bagarino per il pranzo: fatto

Ore 7,00

Cyclette: fatto

doccia, vestirsi, uscire: fatto.

Ore 8: fermata del pullman

Sali, scendi, metro ufficio: fatto.

“Ma che c’ha sta linea oggi? A voi internet funziona? È lentissimo!” “Rispondi! Rispondi! - dove lo tiene il cellulare questo?”

Ore 18,00: uscita.

“No! Ho dimenticato di spedire una mail!” Rientra, accendi il computer, spegni il computer, ri-esci, metro, pullman, prendi l’auto, nuoto: fatto.

Ore 20,30 casa
Togli il cappotto, prepara cena

Surgelati! Coi surgelati si fa prima. Ma siamo sicuri? E soprattutto: prima per fare poi cosa? Niente.
Vita in apnea. Gli impegni sono elenchi di faccende da espletare, non tempo da vivere. Diciamo che vogliamo un tempo per noi; ma quindi il resto di chi è e per chi è? Vita schiava, in cui il tempo nostro finisce per essere quello in cui non si fa niente, stesi e stremati davanti alla TV.

W i surgelati! Simbolo di un bleuf di alienazione perpetrata.

Invece il tempo è tutto quello che ho. Vivo da quando mi sveglio a quando mi risveglio, sonno, sogni e lavoro compresi. Non è questione di andare più lenti, né di fare le cose con calma, o di fare solo le cose che mi piacciono.
Semplicemente respiro. Faccio, cercando di esserci mentre faccio, rendendomi conto di quello che faccio. Godendomi quello che si può, esplorandolo almeno il resto.

In sintesi: vivendo.

E ho scoperto che in questo modo faccio molto di più e vado molto più veloce. È strano, ma funziona così.

E mi sveglio alle 6,00, e dò da mangiare al gatto e dico piantala di miagolare, non vedi che te lo sto dando? Ma rido anche di quel musetto che sembra non mangi da secoli. E mentre innaffio le piante, passando di vaso in vaso mi investe il profumo del gelsomino e capisco perché ho deciso di tenere le piante. E mentre stendo il bucato litigo con lo srotolamento delle mutande da uomo, ma percepisco le mie mani e la mia pelle al contatto con i panni umidi. E mentre preparo il pranzo da portarmi via mi chiedo se ho voglia di cous cous o altro; e decido che niente cyclette ma che corro fino al mercato così mi prendo anche l’uva per colazione. E mentre mi faccio la doccia: che culo avere l’acqua calda! E al pullman: quanta gente da osservare. E in ufficio mail, telefonate, riunioni, ma forse si potrebbe, e invento soluzioni e penso che ci metto del mio. E poi nuoto: tuffarsi è un’agonia che teme il freddo, ma poi quanto mi piace stare immersa.

E quando sono a casa mi preparo cena. E poi mi metto anche sul divano, stesa e stremata davanti alla TV. Ma schiava non lo sono stata mai.
NON HO TEMPO?
IL TEMPO È TUTTO CIÒ CHE HO

Cristina Sertorio



mercoledì 20 novembre 2013

Consigli per gli acquisti (una "frizzante" domenica di assaggi emiliani)

di Riccardo Avenia

Tornando a casa dalla giornata di assaggi emiliani, alla quale avevo accennato qui, ho ripensato ai vini ed ai produttori rivisti e conosciuti. Mi sono trovato a tutti gli effetti a casa: emiliano tra gli emiliani. Nell'aria si respirava il nostro dialetto, il nostro modo di fare, sempre scherzoso, allegro e spumeggiante, proprio come questa tipologia di vino: i rifermentati, oggi chiamati anche "Sur lie" (non tutti in realtà), che grazie a questa manciata di persone portabandiera del territorio, stanno facendo rivivere (a volte con notevole fatica) una nuova era a quella che è da sempre la reale tradizione vitivinicola regionale emiliana. Una giornata piacevole e distesa, in cui ho avuto modo di approfondire la conoscenza con alcune di loro e scherzare con le più familiari.

Facendo un quadro generale, sono rimasto positivamente colpito dalla qualità dei prodotti: per la loro pulizia (in alcuni casi il margine di miglioramento è tuttavia ancora possibile) e per la grande piacevolezza intrinseca che portano nel loro DNA. Di seguito quindi troverete i miei migliori assaggi, quelle bottiglie che non potete farvi scappare.


Partendo dai colli bolognesi - i colli di "casa" - il primo incontro è con Antonino Ognibene di Gradizzolo. Tra le etichette in assaggio, mi ha particolarmente incuriosito il Pignoletto "Le Anfore", vinificato sulle proprie bucce ed affinato per un anno negli stessi contenitori di terracotta non interrati. Notevolmente migliorato dal primo assaggio che feci in anteprima, in occasione del #vinixlive16 organizzato dal nostro amico Andrea aka Primobicchiere. Un vino con maggiore dinamismo, più disteso e dalla spiccata sapidità, dove i tasselli del gusto e del sapore sono rientrati al loro posto. Una bottiglia da tenere d'occhio anche nel futuro. Che il Pignoletto si presti bene a questo tipo di vinificazione? Ognibene ci sta lavorando e le sperimentazioni sono in continua evoluzione.
Merita menzione anche il "Naigartèn" 2011 da vitigno Negretto, autoctono dei colli bolognesi, in purezza. Un rosso fermo dalle spalle larghe, con spigoli da una parte e rotondità dovuta al legno grande, dall'altra. Un calice che predilige l'abbinamento al cibo.


Sempre dai colli bolognesi, incontro Alberto Tedeschi, in questa occasione scherzoso e mai al proprio banco. Il Pignoletto Frizzante Sur Lie 2010 (ne parlò Luigi qui) è una bottiglia che, ad ogni assaggio, mi convince sempre più: mai banale e di grande personalità. In attesa dell'uscita del prossimo millesimo, faccio scorta di questo: in bottiglia sembra evolvere davvero bene. Ma la sorpresa viene dalla personalissima interpretazione del Pignoletto fermo Spungola Bellaria 2011. Una vendemmia davvero difficile per Alberto, che ha faticato non poco per portare dentro la bottiglia - chiaramente con successo - questa annata balorda. Ancora molto giovane, è caratterizzato da una delineata nota ossidativa voluta, che richiama alla mente alcuni Jurà, invece di un Pignoletto dei colli. Provare per credere. Il potenziale di questa vendemmia, è tutta in divenire - per ora - meglio cercare e godersi la 2010, in questo momento in forma splendida.



A pochi passi, entro metaforicamente nel territorio dei Lambruschi, con il frizzantissimo Vittorio Graziano (nella foto in occasione di una piacevole cena in sua compagnia). Sempre una certezza il Ripa di Sopravento 2011: vino frizzante bianco a rifermentazione spontanea, da vitigni della tradizione?! Verticale, asciutto, veramente godurioso. Da avere sempre in cantina. Infatti 2 bottiglie sono venute a casa con me. Il Lambrusco Grasparossa Fontana dei Boschi 2010, è per me l'archetipo del Grasparossa. Acidità, tannino e corpo, vanno di pari passo ai piccoli frutti rossi e neri, ed a quella caratteristica nota terrosa-speziato-vegeale inconfondibile. Ottima pulizia olfattiva e nessuna imperfezione. Non di facile approccio, è invece il Sassoscuro, vino rosso fermo, da Malbo ed altri vitigni locali recuperati da Vittorio. Cupo, profondo con struttura e potenza che ricorda l'appassimento. Basta un piccolo sorso per coglierne l'importanza. Un vino che ricorda il nocino e che, probabilmente, può dividere gli animi.


Ancora in provincia di Modena, c'è Luciano Saetti, persona timida e meticolosa. Il suo Lambrusco Salamino di Santacroce, mi ha convinto da subito. Un vitigno, tre vini: rosato e rosso frizzante e rosso fermo. Sono i primi due ad avermi notevolmente entusiasmato. Il rosato, più delicato. Il rosso, più deciso. Hanno entrambi piacevolezza ed a loro modo verticalità di beva. "Frizzano" bene e soddisfano il sorso con lineare pulizia. Una vera delizia gustativa, arricchita da quei piccoli frutti rossi che ne definiscono il carattere. Bottiglie che hanno il potere di svuotarsi in fretta.







Tra i rappresentanti del reggiano, troviamo Cà De Noci. Purtroppo nessuno dell'azienda e solo un'etichetta in degustazione: il Sottobosco 2011, da Lambrusco Grasparossa, Montericco, Malbo gentile e Sgavetta. Un vino rustico, deciso e duro. Un rosso rifermentato adatto a chi non ha paura degli spigoli. Almeno per ora.










Assente anche Denny Bini, del Podere Cipolla, Tra le etichette in degustazione, i miei favoriti sono stati, senza ombra di dubbio, il Levante 90, da Malvasia in prevalenza: profumato, gustoso, rotondo e, giustamente aromatico. Un buon vino davvero. Quello che in realtà mi ha colpito maggiormente, è stato iRosa dei Venti, da Lambrusco Grasparossa vinificato in rosa (solo poche ore di contatto con le bucce), dove nel calice si ritrovano solo le parti più eleganti e vivaci del vitigno, con quelle piccole bacche rosse che gli donano carattere. Bottiglie - anche queste - che rischiano di non toccare il tavolo.




L'azienda agricola Cinque Campi (anch'essa assente) porta in assaggio il Terbianc 2012: bianco frizzante da uve Trebbiano. Un vino che conosco da un po' e che non ha mai tradito le mie aspettative. Pochi giorni di contatto sulle bucce, per un bouquet deciso, tra fiori e frutta gialla. Diretto ed avvolgente, un millesimo dalla gradevole pulizia olfattiva. Da provare ora e tiprovare tra un anno. Ancora leggermente acerbo il Cinquecampi Rosso - Lambrusco dell'Emilia che, ancora giovane, necessita di una grassa fetta di coppa, per mitigare le asperità. Purtroppo le etichette che prediligo, erano assenti.







Senza alcun dubbio, il vino che mi ha reso più gioioso e mi ha fatto esultare è stato - entrando nella zona del parmense - Il Mio Sauvignon 2012 di Camillo Donati. Dopo una vendemmia 2011, tra le più problematiche, con questo millesimo, il buon Camillo, torna ai livelli del'indimenticabile 2008. Grande piacevolezza olfattiva, pulizia e dinamismo, per un vino tutto da vedere, in cui i processi fermentativi sono tutt'altro che terminati. #nonfateveloscappare, questo è il mio motto. Il Mio Lambrusco 2010, da Lambrusco Maestri, mi piace da sempre. Anche in questa occasione non smentisce: acidulo, dalla bollicina inserita ed avvolgente. Succoso, davvero gustoso, con ricordi che sfumano dal vegetale al terriccio. Il bicchiere giusto per i tortellini in brodo della mamma. Me lo disse all'ultimo pranzo proprio lei!


Arrivo da Marco Rizzardi di Crocizia e sorrido. Conosco lui ed i suoi vini, due o tre dei quali, hanno ormai un posto fisso in cantina. Gli assaggi di oggi, hanno solamente saputo aggiungere certezza alla consapevolezza. Il Sòl e Stèli 2012, Sauvignon in purezza - my favourite - come tutti i suoi vini bianchi, passa pochi giorni a contatto con le bucce (i rossi ne passano dai 15 ai 20 circa), fermenta in acciaio e rifermenta spontaneamente in bottiglia. Un vero "vin de soif", spensierato, agile, vibrante, mai banale, mai troppo aromatico e di grande personalità. Tra i bianchi, c'è anche la Malvasia di Candia aromatica Besiosa 2012, riconoscibile per la sua singolare colorazione arancio vivo. Gradevole ed aromatica, tra sensazioni rotonde ed acide agrumosità. Che spasso. Tra i rossi, in netto risalto, il Marc' Aurelio, da Lambrusco Maestri: di grande chiarezza, tra piccoli frutti, sensazioni acidule e di sottobosco, per un sorso che, deciso, parla chiaramente il dialetto parmense. Impossibile non menzionare la tipicità della Barbera Otòbbor, nella quale la riconoscibilità del vitigno, è tutto. E la singolarità del Pinot nero, Bàlos, che preferisco rivedere ed approfondire con calma.


Alberto Carretti del Podere Pradarolo, assieme alla compagna Claudia Iannelli, sono persone estremamente cordiali, disponibili, che trasudano passione ed allegria. Tra le etichette che producono, c'è un nettare che adoro totalmente: il Vej Bianco Antico - ne scrissi con il freno tirato qui (accidenti a me) - ottenuto da Malvasia di Candia aromatica in purezza. Resta dai 90 ai 270 (per il 2007) giorni a contatto con le bucce e, quasi un anno e mezzo, in legni grandi. Un vino che risiede a pieno titolo nell'olimpo dei macerati italiani e che non teme di certo il loro confronto. Il 2005 è un campione di intensità ed ampiezza olfattiva. Dalle mille sfaccetature: agrumato, terziario, officinale e di elevata balsamicità. Una vera ed unica esperienza gustativa. Ma la sorpresa della giornata, è stata il Vej  Metodo Classico 2011, che a tutti gli effetti è un Vej con l'aggiunta del perlage. Immaginatevi un grande vino "macerato" con le bolle del metodo classico! Per gli amanti dei passiti, consiglio Il Canto del Ciò, ottenuto con il metodo soleras, da vitigno Termarina (antico vitigno locale), ed il più tradizionale passito Frinire di Cicale, da uve Malvasia di Candia aromatica appassite. Entrambi dal corredo aromatico e gustativo ai margini della scala del piacere. Devo ammetterlo: non vedo l'ora di andare a trovare in cantina Alberto e Claudia.

Unico portabandiera presente della zona del piacentino, Massimiliano Croci della Tenuta Vinicola Croci - persona riservata, ma dall'immensa gentilezza e disponibilità - porta in degustazione solo 3 etichette. Impossibile non spendere due parole per ognuna di esse. Il Lubigo frizzante 2011, da Ortrugo in purezza (tra i vitigni nativi a bacca bianca più coltivati in zona) è un vino dal carattere delineato, che confluisce nel calice scioltezza da una parte e personalità decisa dall'altra. In poche parole, un vino bucolico che appaga i sensi. Il Monterosso val d'Arda frizzante 2011, ottenuto da Moscato, Malvasia di Candia aromatica, Trebbiano, Ortrugo e Sauvignon bianco è invece un vino con maggiore struttura, complessità e che sicuramente evolve meglio con il passare del tempo. L'ho trovato veramente notevole. Per chi invece ricerca l'espressione il più reale possibile della Barbera assieme alla Bonarda, non può farsi mancare il Gutturnio frizzante 2011,  nel quale l'acidità della Barbera caratterizza notevolmente il sorso. Peccato non aver potuto assaggiare le molte altre etichette di Massimiliano.

Tutto questo mi rende orgoglioso di essere emiliano, ed ancora di più, essere sostenitore, difensore e divulgatore di queste schiette realtà rurali.