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mercoledì 31 ottobre 2012

Colli di Luni Rosso Doc 2009, Santa Caterina



Il sorso va via elegante.
Con profumi di liquerizia.
E freschezze di bucce mature (avete presente quando addentate un prugna matura e alla fine del morso la buccia si fa acidula).
Succoso.
Andava aspettato.
In due sensi.
Sia una volta aperto affinchè lui, costretto e recluso, si abituasse a questo mondo espanso.
Sia in bottiglia affinchè si giovasse per un po’ ancora della sua nicchia tranquilla in cui evolvere.
Bonne degustation

Luigi

Poscritto
I vini di Andrea Kihlgren sono tutti di notevole interesse e la Lunigiana è terra da scoprire.
Posso solo immaginare, una sera di dicembre il profumo dei testaroli caldi conditi con l’olio nuovo e il parmigiano e un bicchiere di Vermentino di Santa Caterina.

Alcuni lamentano la calata verso il mare del Sangiovese che ne avrebbe snaturato le caratteristiche, ebbene questa è l’eccezione che conferma che non ci sono regole ma solo umane ubbie e fissazioni.

lunedì 29 ottobre 2012

znèstra, Malvasia secca 2010, IGT Emilia, Crocizia. Di N. Desenzani



I vini di Crocizia hanno un che...
Questo znèstra potrebbe sembrare solo un’ottima classica malvasia secca rifermentata. Poi mentre lo bevi ti accorgi che i movimenti naso bicchiere, bocca bicchiere sono insolitamente numerosi.
Perché lo annusi e c'è un che...

Lo metti in bocca e c'è un che...
Lo deglutisci e c'è un che...
Infine lo pensi e pensi che ha un che...
Al naso ha qualcosa di sfizioso, aromi ammaliatori sottili che catturano, In bocca è preciso, equilibratissimo, ma poi ti sorprende con una venuzza di acidità appena sopra le righe, che ti fa fremere e salivare e ricercare soddisfazione. Un tocco amarostico che ti porta col pensiero al pompelmo e alla sua buccia. E nello stesso tempo c'è l'aromaticità che tiene viva l'immagine floreale.
E tra un che  e un altro, ti ritrovi a pensare al fascino sottile del vino.
All'eleganza sussurrata, agli elementi originali...
E non puoi che concludere che questo vino ha un che!



venerdì 26 ottobre 2012

Rosato frizzante 2010, IGT Toscana, Colombaia. Di N. Desenzani


È fine, elegante, gourmand. Pulito di fruttini e quel tocco di montano che definisce subito la freschezza. Risponde in bocca ordinato, preciso, delizioso, abbastanza intenso e il sangiovese esibisce tutto il suo carattere super goloso. Quel tratto che nei rossi fermi abbisogna del contatto con l'aria per sprigionarsi. Qui è già esploso.
Una bollicina ammaliatrice, irresistibile, seduttiva.
Bolla chiantigiana, idea geniale!
Bono, bono, bono.

Bocca agrumica, medio acida, con amaro di bianco di scorza.
Un day after molto curioso dove si aggiunge una speziatura selvatica (che io ascrivo all’assenza di SO2 aggiunta) che insieme alle bolle funziona e intriga.
Sangiovese, malvasia nera, canaiolo, colorino. Metodo ancestrale, sboccatura 2012.


mercoledì 24 ottobre 2012

L’alt(r)a Lombardia e il Merlot di Enrico Togni, storie di luoghi e di persone


Vigne vecchie di merlot, in cui sopravvivono anche piante a piede franco, lottano per dimostrare di essere più territoriali delle cultivar tradizionali.

E’ una lotta impari perché ormai autoctono/tradizionale è bello e giusto.
E’ una lotta impari perché non si valuta il fatto che sono lì da almeno sessanta anni e hanno ormai sviluppato un rapporto intimo con il luogo.
E’ una lotta impari perché di Merlot ne è pieno il mondo e il prezzo diventa il discrimine unico.
E’ una lotta impari perché i vigneti di questo Merlot sono su pendenze del cento per cento e più e nemmeno il trattore può salire.
E’ una lotta impari perché i vigneti di questo Merlot sono bisognosi di molte cure e attenzioni.
E’ una lotta impari perché sono in provincia di Brescia e il costo della vita è doppio rispetto a certe zone viticole d’Italia.
E’ una lotta impari perché il luogo di produzione non è nel novero di quei pochi ed eletti territori italiani ad alta vocazione (ad alta mediaticità direi, meglio).
E’ una lotta impari perché il produttore è solo nella ricerca dell’estrema espressione territoriale dei vini.


Per cui Enrico Togni convinto, al di là di ogni ragionevole dubbio, di poggiare i piedi su una terra, la stessa in cui immergono i fittoni le sue viti, vocata abbandonerà un po’ di piante di merlot a favore dell’erbanno.

In fatti per far vivere il suo Merlot, Enrico sta lavorando duramente sull’Erbanno una cultivar “tradizionale” che ha riscoperto e propagato e vinificato.
L’Erbanno ha una triplice attitudine è molto resistente e rustico, dà un ottimo vino ed è un “quasi autoctono”* quindi è “mediaticamente territoriale” e spendibile nel mercato schizofrenico del vino dell’età contemporanea che brucia i propri miti con ritmi incommensurabili  ai tempi della biologia vegetale.

Per cui beviamo tutti l’Erbanno!  

Che quando saremo pronti il Merlot sarà lì che ci aspetta per svelare tutte le corrugazioni degli spalti calcarei, delle argille, il leggero pizzicore dei refoli di tramontana che cadono a valle dalla cresta delle montagne  infilandosi nei dirupi scoscesi e il calore algido del brillio del sole riflesso dalle nevi della Valcamonica.


Nelle mani giuste con l’impegno giusto, con le cultivar giuste, Enrico ha dimostrato, che la viticoltura camuna può ottenere prodotti di alta qualità perché il luogo ha la forza, la vitalità necessaria per lasciare un imprinting nel dna delle piante e nei vini se questi sono trattati con quella giusta distanza e laisser faire che permette loro di deviare, contaminarsi, arricchirsi, custoditi più che condotti per mano, più che costruiti.

Cura maniacale del vigneto, rispetto della propria ricchezza fenotipica aziendale perpetuata con la riproduzione massale, attenzione alle forme di allevamento.
Enrico è un esempio di come i luoghi senza l’uomo che li interpretino possano essere neutri, apparentemente “sine nobilitate” e allo stesso tempo come l’uomo sia interpretato e condizionato dai luoghi in un processo di appartenenza e dipendenza l’uno dall’altro.
Noi pensiamo la Terra.
La Terra pensa noi.


*Enrico e l’agronomo preferiscono definirlo “tradizionale” non avendo prove scientifiche sulla reale autoctonia della cultivar.

Poscritto
In occasione delle degustazioni dei vini camuni a Darfo Boario, a parte la produzione di Enrico, si è palesata immediatamente una scarsa aderenza fra i vini e il territorio forse causata dalla scelta di cultivar incapaci di produrre qualità o di adattarsi ai luoghi (incrocio Manzoni) oppure lasciate produrre un po’ troppo e mortificate da vinificazioni standard un po’ troppo tecniche (riesling e merlot).
Sicuramente bisogna puntare su cultivar “nobili” che sappiano fotografare la Valcamonica senza dimenticare quelle tradizionali (barbera, nebbiolo, schiava, marzemino ed ora l’erbanno) che hanno dato esempio di grande qualità, nelle mani giuste.


lunedì 22 ottobre 2012

Corre lunga la strada a Cornapò fra filari di grignolino. Ristorante Bandini di Tirebouchon




Corre lunga la strada a Cornapò fra filari di grignolino, prati e alberi dai colori autunnali, quasi non ti accorgi del Ristorante Bandini, se ne sta lì silenzioso.
Quasi anonimo all'esterno, invece è uno dei sacri templi della cucina monferrina.
Entri ed è luce, una strana ed affascinante lampada vintage ad illuminare la sala, quasi un totem, quadri e stampe fine anni ottanta alle pareti, tavoli ampli e rotondi, belle tovaglie e ceramiche, non ti sembra di essere in campagna ma in una sorta di "non luogo".
Antonello Bera si muove in sala con professionalità da stella Michelin, ha l'umiltà di ascoltare e assecondare le tue scelte, con un pizzico di basso-profilo sul versante vini, nonostante sia un grandissimo intenditore (anni fa lo incontrai su un treno diretto ad uno dei primi meeting di Tigullio Vino, roba esoterica) e questo lo comprendi quando vedi sulla carta i vini dell'andaluso Barranco Oscuro fra cui il Brut Nature, bollicina da svenire, ed io svenni.


Al Bandini si mangiano salame cotto e crudo a km.0 (vengono dal vicino giornali-tabacchi-commestibili con macelleria) accompagnati da una cognà da lode, vitello tonnato da applausi, tajarin fatti in casa e agnolotti al sugo d'arrosto (qui preferirei un sugo più bianco), funghi porcini cucinati perfettamente e dolci che conquistano tutti i cuori, soprattutto quelli delle donne.
Lo chef, Massimo Rivetti, sta sempre chiuso in cucina, chino sui fornelli, è raro vederlo in giro per la sala, io una volta lo intravidi di sfuggita che trasportava una cassa di funghi a fine pranzo, ma un giorno giuro, oso e vado a stringergli la mano, mano di grande cuoco.
Al Bandini ci sono stato una prima volta con gli amici gourmet Luigi Fracchia e Niccolò Desenzani, ma poi ci son tornato per vedere se tutto era vero, se quella prima volta che mi innamorai non fosse stato solo il calore dell'emozione, beh era tutto vero, anzi di più.
Se non mi credete, credete almeno alla bottiglia di Gueuze Bio di Cantillon che sta in bella mostra all'entrata, dice più una bottiglia di lambic di mille parole.
Tirebouchon

Ristorante Bandini, frazione Cornapò, Portacomaro (AT)
chiuso lunedì, tel. 0141-299252 
dal 2002 con Antonello Bera in sala e Massimo Rivetti in cucina

venerdì 19 ottobre 2012

Pigro delle sorbe 2010, IGT Umbria, Collecapretta. Di N. Desenzani


Rientra a buon diritto nei bianchi di acidità medio bassa.
Questo per dire che le carte che deve giocarsi sono altre.
Non si tratta di vino ossidativo, ma credo che fra un po’ di anni rivelerà importanti sorprese su questo fronte. Sembra quasi che abbia la struttura per quello.
Per ora è un bianco piuttosto consistente (più della media) con una grassezza fresca e una zuccherosità non dolce molto coinvolgente.
Non è nemmeno sulla sapidità che può giocare.
E nemmeno sulla mineralità.
Eppur ha una beva trascinante.
E' esattamente la copia vinosa dell'acino, in tutto ciò che rende ben distinti questi due stati dell'uva.
E’ la traduzione definitiva.
Né più né meno.

Grado zero dell'essenza enoica.
In bianco.

Da uve greco. 

mercoledì 17 ottobre 2012

La campagna che ci azzecca con i formaggi? Ragusano Dop II° parte




“la campagna
Non ho molto da dire a proposito della campagna; la campagna non esiste è un illusione.
Per la maggior parte dei miei simili, la campagna è uno spazio di svago che circonda la loro seconda casa e che fiancheggia un tratto delle autostrade che prendono il venerdì quando vi si recano, e di cui la domenica pomeriggio, se se la sentono, percorreranno qualche metro prima di tornare in città dove, per il resto della settimana, saranno i cantori del ritorno alla natura.”
Georges Perec

L’altro giorno in un tweet mi si chiedeva cosa c’entrasse la “campagna” con i formaggi.
Anch’io ho dovuto pensarci un attimo poi ecco la risposta, come sempre parziale e faziosa.
I formaggi sono il prodotto di una agricoltura (spesso di un mondo agro-silvo-pastorale) complessa, fragile e oggi pochissimo remunerata a fronte di grandi fatiche fisiche e privazioni, fatta di presenza continua in azienda, di rotazioni colturali, di allevamento, di cura dei prati insomma di gestione della terra e degli animali (che qualcuno dice essere un’arte e non un mestiere).

Come ho detto prima, bisogna gestire i prati per evitarne il sovrasfruttamento e poi tagliare, essiccare e raccogliere il fieno per i periodi di assenza di pascolo, integrandolo magari con altre colture cerealicole da unire al fieno per l’alimentazione, produrre paglia per le lettiere.
Gli Spata affiancano un uliveto (ormai per solo uso privato) e l’allevamento dei maschi per la carne.



E già!
L’allevamento.
Bisogna ricordare che le vacche non sono delle macchine che producono latte a nostro comando.
La lattazione avviene perché hanno dei piccoli da nutrire, banale vero!
Questo vuol dire che a rotazione una quota parte di vacche avranno dei vitelli e non tutti saranno femmine, quindi tradizionalmente i maschi erano venduti o trattenuti in azienda per l’ingrasso e la vendita come animali da carne.


Fino a pochi anni fa erano i singoli macellai che compravano direttamente dal pastore/casaro l’animale intero in un rapporto quasi fiduciario fra allevatore, macellaio e la propria clientela.
Oggi questo circolo virtuoso si è spezzato, perché malgrado il grande aumento di consumo di carne, sono drasticamente diminuiti i tagli e le pezzature consumate, per cui la resa in carne commerciabile del singolo animale è bassissima e i macellai preferiscono rivolgersi a grosse società di macellazione che forniscono solamente i pezzi pregiati, già porzionati a prezzi competitivi.


Però così facendo si perde il controllo della provenienza del capo e della affidabilità dell’allevatore e noi consumatori compriamo carni ottenute da animali allevati in stabulazione forzata, alimentati con mangimi non compatibili con lo stomaco dei ruminanti (mais, fave, cereali, farine di carne e latte) e macellati sempre troppo presto.

Mi è parso doveroso parlare di ciò che gravita intorno al mondo apparentemente à la page e gourmet della produzione dei formaggi perché testimonia lo stato di profonda prostrazione che, i processi industriali e la grande distribuzione, hanno indotto in agricoltura erodendo ogni nicchia di possibile guadagno compensativo dei contadini/allevatori/casari costringendoli a vivere una profonda e insanabile dicotomia fra il loro prodotto caseario apprezzato e ricercato che però non riesce a mantenerli se non si recupera l’interezza del processo e se non si ridà dignità anche ai prodotti collaterali.



La quantità tanto invocata dai profeti della civiltà del consumo si potrebbe ottenere opponendo alla concentrazione produttiva una “diffusione produttiva” e i risultati dal punto di vista umano, occupazionale, culturale e di salvaguardia del territorio sarebbero ampiamente sufficienti a compensare i (presunti) maggiori costi produttivi.
Ogni caseificio industriale, così come i macelli industriali amplificano il processo di abbandono delle campagne e peggiorano la gestione silvo pastorale di luoghi marginali e il latte stesso e le carni perdono di qualità per effetto della stabulazione forzata e all’alimentazione con insilati.
Il territorio si spopola e le comunità subiscono un progressivo ma inesorabile declino.

E noi mangiamo peggio e pochi guadagnano molto anzi moltissimo.
Così va la vita.



lunedì 15 ottobre 2012

Azienda Agricola Spata, Ragusa, contrada Menta, Ragusano Dop e Cosacavaddu.


cantine di affinamento Dipasquale (RG)
In tutta la provincia di Ragusa e nei comuni di Noto, Palazzolo Acreide, Rosolini nella provincia di Siracusa si produce un formaggio antico che risulta presente nei documenti daziari già dal millecinquecento.
Al di là della sua ancestralità, quello che mi ha colpito da sempre è la forma, anomala per un prodotto manuale.

Il Ragusano Dop (un tempo chiamato Caciocavallo perché affinato a cavallo di una trave di legno) ha la forma di parallelepipedo a base quadrata di quindici centimetri per lato e una lunghezza di quaranta, un peso dai dieci ai quattordici chili (circa).
Il colore, la forma lo avvicinano ai cordoli, ai conci murari, ai gradini di calcare giallo crema che costituiscono l’orditura tettonica delle città del ragusano.
Una incredibile e sorprendente continuità, contiguità fra la pietra madre calcarea che spesso affiora sia nei terreni agricoli sia nelle cave (profonde valli scavate da torrenti stagionali) dell’altopiano Ibleo e a sud  fino alle scogliere e alle spiagge color crema del litorale.
Raramente ho percepito in un prodotto alimentare un legame così forte fra luoghi, natura, agricoltura, geologia, pastorizia, città, cultura, architettura, gastronomia, cucina popolare.
Quando si parla, e spesso a sproposito, di terroir, bisognerebbe prima studiare questo formaggio e il complesso coacervo di cultura, antropologia, geografia, agro pastorizia che lo ha originato.
Ieraticamente innaturale con quegli spigoli eppure incredibilmente mimetico, sembra un concio di quei milioni che costituiscono i chilometri di muri a secco che squadrettano l’altopiano Ibleo.
Un cruciverba impresso sul suolo che, come spesso accade nei manufatti di un tempo, univa valenze sia pratiche sia simboliche, era confine proprietario, elemento divisorio fra coltura e coltura, fungeva da frangivento, conteneva gli animali, accoglieva e liberava il terreno dalle pietre che emergevano ad ogni aratura.


I prati dei Sig.i Spata sono divisi con i tradizionali muretti a secco e gli animali, 35/40 vacche Pezzate Rosse e Brune, ruotano da l’uno a l’altro in base a criteri di mantenimento in produzione delle praterie (che in ambienti aridi sono ecosistemi incredibilmente fragili e indispensabili non come nel caso dell’allevamento stabulare in cui il legame e le attenzioni per il territorio sono totalmente assenti).
Il Ragusano è un formaggio a pasta filata stagionata, la filatura è una pratica tipica del sud Italia e i formaggi che ne derivano hanno una pasta nettamente più elastica, compatta, uniforme.
In passato si esagerava con la salatura che era l’unico antisettico conosciuto, ora che la permanenza in salamoia è nettamente inferiore le caratteristiche organolettiche sono diventate più delicate e l’innegabile piccantezza tipica del caglio di capretto è mitigata dalla dolcezza e grassezza della cagliata che fa trasparire l’aromaticità del pascolo anche dopo 9, 12 mesi di affinamento.



Spesso si fanno delle piccole forme di uno o due chili che vengono commercializzate dopo 24 o 36 ore di salatura.
Queste caciotte stillano siero al taglio e scrocchiano sotto i denti facendo esplodere sentori lattei lievemente acidulati (tipici della lavorazione). Questo è il formaggio che si consuma sopratutto in estate al punto che alcuni produttori interrompono la produzione di Ragusano (che nel periodo estivo si chiama Cosacavaddu e non è Dop) per dedicarsi alle caciotte.
Quest’anno sono andato a seguire le fasi di produzione del Cosacavaddu (il fratello estivo del Ragusano Dop)* dalla famiglia Spata a Ragusa e al di fuori di ogni retorica mi sono emozionato ad assistere ad un rituale (la filatura) che si intuisce antico, nobile come una danza, eseguito con mezzi poveri, pre industriali eppure così moderni.
I tini per la cagliata (da disciplinare) e la mastredda sono in legno di castagno, la manuvredda in legno d’arancio, la spazzola per pulire è fatta con la “bisa” una erbacea spontanea con cui si intrecciavano le corde per la stagionatura del formaggio.
L’acqua necessaria per le lavorazioni è riscaldata in una stufa alimentata con legno di carrubo.


















Contemporaneamente alla filatura si caseifica il latte dell’ultima mungitura e si producono le “tume” che avranno bisogno di acidificarsi per una dozzina di ore prima di essere filate.
Gesti lenti e misurati:
taglio in pezzetti della “tuma”,





riscaldamento con acqua calda a circa 65°C,







manipolazioni con la “manuvredda”,




quando la pasta filata diventa una semisfera lucida di avorio si procede alla chiusura con gesti ancora più lenti e accurati per evitare che in fase di affinamento le parti interne che non sono state lisciate e compattate entrino in contatto con l’aria e si formino fermentazioni incontrollate e sacche di gas.

Raffreddamento in acqua per un ora



Formatura nelle tradizionali fascere lignee (tavoli in castagno).
























Lo spurgo durerà alcuni giorni e le forme saranno girate più volte al giorno.
Immersione in salamoia satura per un tempo che è funzione del peso della forma.

cantine di affinamento Dipasquale (RG)
Affinamento nelle cantine legati a due a due e messi a cavallo delle travi lignee.

cantine di affinamento Dipasquale (RG)
Si finisce con tolettatura e la lucidatura con olio extravergine.

L’incredibile perizia del Sig. Spata e l’umiltà delle sue parole e dei suoi gesti scevri da ogni retorica e piaggeria mi hanno toccato molto e quando a mezza voce, quasi scusandosi della sua condizione di pastore casaro, mi ha detto che è diventato economicamente quasi insostenibile il suo lavoro, un rigurgito acido mi ha bloccato il respiro.
Il formaggio viene acquistato tutto da un affinatore di Ragusa però a prezzi praticamente di costo.
I bovini maschi che un tempo erano venduti direttamente alle macellerie della zona ora sono invendibili se non ci si accontenta dei prezzi iniqui praticati dai macelli.
Tornando a casa, salendo e scendendo fra le cave calcaree dell’altopiano, ho alzato la musica al massimo per non pensare che l’esperienza che avevo appena vissuto poteva essere l’ultima e sentivo l’aridità del territorio che penetrava nella mia anima.

Giovanni Spata

*in Sicilia la qualità del pascolo è migliore d’inverno e le vacche hanno a disposizione praterie verdi e ricche di carotenoidi e componenti aromatiche che vengono invece perse con l’essicazione e la produzione del fieno usato invece per l’alimentazione estiva. I formaggi invernali sono più colorati (carotenoidi), grassi, aromatici.

venerdì 12 ottobre 2012

Barranco Oscuro 09, Brut Nature, Metodo Tradicional, Millesimé VGR


Vittorio Rusinà mi stupisce ogni volta con la sua inarrestabile curiosità e dinamismo eclettico.
Ma questa volta ancora di più.
Eravamo al Bandini a Portacomaro (AT) con Niccolò Desenzani per un pranzo leggero, l’onere onore della scelta del vino è ricaduta su Niccolò e Vittorio (io mi astenevo di fronte a cotanta sapienza).
Scelta di territorio, un vino chilometri zero (non ricordo cosa fosse).
L’oste ascolta.
Poi curioso e indomito, Vittorio rilegge la carta dei vini (molto stuzzicante nelle scelte anche se non immensa).
Si illumina e punta il dito su una referenza, per altro segnata come finita, e chiede se è rimasta una bottiglia di Barranco Oscuro.
“Sì una c’è ma, si schernisce l’oste, è un vino che io amo ma che mi mandano invariabilmente indietro. La volatile un po’ alta, molto acido” insomma ci spiega che non incontra con il gusto dell’avventore astigiano.
Vittorio è irremovibile, ha fiutato come un setter la preda, non molla e la fa portare.
L’oste stappa e versa sempre schernendosi e avvertendoci di presunte particolarità/anomalie del vino.
Noi ricominciamo a parlare solo dopo aver scolato senza ritegno, come assetati, il primo bicchiere.
Le parole uscivano a stento, Vittorio ondeggiava sulla sedia, roteava le mani senza emettere suoni, Niccolò era in viaggio lisergico senza ritorno, io che sono un “cacadubbi” me ne riversavo un secondo.
Sindrome di Stendhal.
Analisi organolettica:
Buonissimo.
Anzi buono buono buono.
Perfetto sugli agnolotti monferrini e funghi fritti.
Lunghi momenti di silenzio e piccoli muggiti di soddisfazione.
Vittorio a mezzo di Barranco Oscuro mi ha insegnato che il vino è cibo e socialità e condivisione e divertimento e “a culo tutto il resto!”



Poscritto
Perché la mia indole tassonomica non mi permette di non riassumervi un paio di info su Barranco Oscuro.
E’ una cantina votata al naturale in Spagna in quel della Sierra de la Contraviesa (Sierra Nevada) non lontano da Granada a milleduecentosessantotto metri sopra il livello del mare con vigneti sino a milletrecentosessanta metri di quota.
Il Brut Nature è ottenuto da un ettaro di Vigirieda (uva locale) vinificato con lieviti indigeni senza solforosa aggiunta, il tiraggio è innescato con mosto delle stesse uve e dura minimo quindici mesi.
Solforosa libera 0
Solforosa totale 2 mg/l
Acidità totale 8,1 g/l
Alcool 11,5 %vol

mercoledì 10 ottobre 2012

Felice 10, Vino Rosso. Di N. Desenzani




Sono almeno alla quarta bottiglia di questo Nebbiolo.
Scoperto quest'estate, incredulo di aver trovato un Nebbiolo ultranaturale, graal che pensavo introvabile, l'ho bevuto caldo e freddo col caldo e col freddo; rappresenta per me il nebbiolo che si fa vin de soif

Dal bouquet cangiante, nebbiolesco e terroso, gourmand e carnoso, leggermente acido volatile, ma poi solido e fresco.
In bocca ha la polverosità dei no so2, ma anche l'acidità e i tannini asciutti tipici del vitigno. 

Una gustosità intensa, degna delle migliori espressioni delle blasonate denominazioni, ma anche un’anima selvatica. 
Un caos cui l'affinamento, assente, non ha dato una direzione precisa, ma che ha il famoso potenziale per dar luce a una stella.
Ce lo godiamo così in un'istantanea del suo divenire come esce dopo che viene tolto il tappo a corona.
Brodo primordiale di tutti i Barolo, Barbaresco e compagnia cantante...




Questo Nebbiolo, al secolo “ Felice 10 - vino rosso” è il risultato di un progetto dell’importatore e selezionatore norvegese NON DOS. Motivati dalla passione per l’Italia e per il vitigno hanno dato vita al sogno di vinificare nebbiolo da Barbaresco in totale assenza di sostanze chimiche aggiunte, chiarifiche e filtrazioni. Solo uva, rimontaggi, travasi e imbottigliamento (presso Carussin). La 2010 segue un esperimento 2009 che non ha dato l’esito qualitativo sperato. Non voglio dir di più, ma vale la pena di leggere la cronaca dell’esperimento pilota attraverso le di parole Joseph Di Blasi (qui i 9 post in ordine temporale inverso). Le poche bottiglie rimaste in Italia sono distribuite da Sarfati.

lunedì 8 ottobre 2012

Cabernasco, 2007 Offida Doc, Villa Pigna


Offida, non pecorino. A me il pecorino non piace, ne avrò assaggiato una decina (scarsa) di versioni, ma non sono ancora riuscito a capire cosa ha di tanto particolare questo vitigno, ma questa è un'altra discussione. 
Di Offida, proprio ad Offida, questa estate ho voluto invece assaggiare un rosso. Non conoscendo i rossi della zona, mi sono fatto guidare dall'istinto. Quando sulla carta dei vini ho letto cabernasco mi son chiesto cosa significasse... pronta è giunta risposta del cameriere: si tratta dell'unione di due parole "cabernet" e "Ascoli".
Curioso mi son detto, allora proviamo. Poi uno scopre che il nome non dice tutto, anzi, e dentro ci trovi in variabili quantità Montepulciano e Merlot, quest'ultimo ingentilito alquanto dal passaggio in barrique.

E' un vino caldo, nel senso proprio della parola, lo metti in bocca e ti avvolge con intensità con la sua morbidezza vellutata, e appena fai glu glu esplode con la sua persistenza. I profumi vengon prima, è vero, e come negare le note erbacee e speziate che sprigionano dal bicchiere, ma qui si tratta di un vino di corpo che senti prima di tutto in bocca abbinato magari ai Taccù con pomodoro fresco e pancetta o, per continuare, alla grigliata mista. E allora la mente va a quelle colline assolate, che ripiegano dal mare verso l'interno prima di incontrare l'appennino. Quei vigneti antichi e moderni che si scorgono arrivando ad Offida. Sarà anche che il 2007 è stata una bell'annata da queste parti (mi dicono), ma in questo vino c'è sapienza e territorio.

venerdì 5 ottobre 2012

Cuvèe Prestige, Corse Figari, appelation Corse Figari controlèe, Cuvèe Alexandra, 1999, domaine de Tanella



E’ un vino che potrebbe entrare, forse, nella rubrica #vinivecchi.
Di sicuro può essere una continuazione ideale della “ode al vermentino” di Niccolò Desenzani.
Questo è Vermentino del sud della Corsica dove un pochino la terra si spiana e al granito si aggiunge il biancore del calcare e il maestrale si distende leggermente.
E’ fuori di dubbio che il Vermentino ami queste terre rocciose e ventose a due passi dal mare col cielo limpido e una insolazione impietosa.
Sopravvivenza vegetale.
Io nel duemila ero giovane  ed inesperto e avevo selezionato il prodotto armato della Guide Hachette des Vins.
Il Domaine Tanella aveva a quel tempo un punto vendita, come se ne trovavano molti allora e forse anche adesso, ai lati polverosi delle statali Corse.
Poco più che delle capanne in legno e canniccio al centro di spiazzi pietrosi e vagamente desolati.
Prodotti Corsi in vendita tra cui un Lonzu (filetto di maiale speziato) e una Coppa da lacrime.
Ne presi alcune bottiglie e alcuni Lonzu.
Di quelle bevute prima non ho memoria e mi piace pensare che ciò sia dovuto al fatto che nella prima fase della loro vita non abbiano espresso il carattere che è venuto fuori dopo tredici anni dalla vendemmia (n realtà ho anche altre ipotesi ma le taccio per non rinfocolare polemiche).
Dopo tredici anni il colore da chiaro con del verdino è diventato giallo leggermente dorato e si capisce dal brillio dei riflessi che l’acidità è ancora impetuosa.
Nessun cedimento a dolci derive ossidative.
Nessuna surmaturazione alla vendemmia.
Il limone che cita Niccolò nel suo post è diventato cedro e foglia d’arancio, zenzero.
I profumi sono di pietre e lana bagnata e un piccolo accenno di caramello (traccia, forse, dell’amaro tipico del vitigno).
Impetuosi.
Freschezza incredibile per nulla mediata da eccessi di grassezze.
Sensazioni salate.
Non speravo che fosse ancora così buono, l’avevo tenuto perché il 1999 era un anno particolare della mia vita e ne era diventato simbolo.
Oggi sono pentito di averlo aperto, potevo aspettare alcuni anni, senza dubbio.
Bonne degustation

Luigi

Poscritto
Volevo scrivere che assomigliava ad un ottimo riesling, poi mi sono detto che è un ottimo Vermentino.


mercoledì 3 ottobre 2012

Pithos bianco 2008, COS di Giusto Occhipinti. Di N. Desenzani e Pithos bianco 2010, COS di Giusto Occhipinti. Di Luigi Fracchia



L'aspetto è da manuale dell'Orange Wine.
Al naso è cera d’api, pesche, fiori accennati; forse un po’ di gomma è l’unico segnale di macerazione evidente, insieme proprio al fatto di non essere un vino dai profumi fruttati freschi e penetranti, ma come solo accenni essicati. Un ricordo di legno lucidato. Forse un po’ di agrumi e qualche arbusto semisecco di macchia mediterranea.
Nessun rischio di scadere nelle note di tè alla pesca. In fondo una zuccherosità arcana, molto evocativa. Accattivante la delicatezza dell’alcool, appena percepibile.
In bocca devo dire che è bello tondo. Solo qualche microaccenno di tannino, acidità molto moderata, tamponata da una sapidità veramente equilibrata. Anche l’acidità volatile molto bassa e soltanto un piccolo spunto alcolico in deglutizione che mantiene la sensazione di freschezza.
Vino dissetante e senza dubbio da desiderare in accompagnamento a molti cibi.
Escluderei il pesce e i crostacei delicati, per il resto lo berrei volentieri a tutto pasto, come si soleva dire.
Grecanico 100%, macerato in anfora per svariati mesi. No legno.
Niccolò Desenzani



Pithos '10
L’ho ordinato come secondo vino a cena da Peppe Barone alla Fattoria delle Torri di Modica.
Il primo, un grillo, appena l’ho assaggiato ci ho innaffiato il limone della bellissima terrazza del ristò.
Ebbene, ordino il Pithos lo verso ed ha un colore intenso ma nitido, sharp direbbero gli anglofoni, come l’aria in un pomeriggio di maestrale.
Un naso fresco di limone in foglia e accenni di clorofilla.
Ma è la freschezza, l’assenza di  eccessi di ossidazione e di tannicità che mi ha impressionato.
Non avessi saputo del protocollo produttivo, non credo che me ne sarei accorto.
Ho pensato allora ed oggi mentre scrivo che hanno preso le misure ai vasi vinari argillosi in casa Cos con risultati sorprendenti per freschezza e semplicità.
Scorre veloce nei calici, un inno alla leggerezza, anzi all’insostenibile leggerezza della superficialità profonda.
E poi quasi a ripetermi e copiando Niccolò è un trionfo di sapido/salino (marchio di fabbrica delle sabbie calcaree* della contea di Modica), delicatezza alcolica e morigeratezza acida (sempre a braccetto con un po’ di vegetale).
Grecanico 100%, macerato in anfora per svariati mesi. No legno.
Luigi Fracchia

*Do’ Zenner, produttore di Pachino, sostiene che questo calcare essendo della zolla tettonica africana abbia una diversa influenza sulla vite e sull’uva, a me piacere crederci e sentire nei vini un chè di tropicale ed esotico.

lunedì 1 ottobre 2012

Pinot Noir LN012 2005, Vin d'Alsace, Gerard Schueller. Di N. Desenzani.


Cipria al ribes. Fruttini selvatici acidi. Erbe montane, terriccio. Legno di pino da baita. Bon bon non saprei dire di cosa esattamente. Gelé di frutta.
In bocca polvere e fruttini, forte acidità non tamponata, ma quasi sovrastata, dalla sapidità. Bucce spesse. Pepatura mentolata, che quasi infuoca congela la lingua. Sorso letteralmente carnoso. Austerità che seduce. Nessuno sconto, nessuna ruffianeria, ma irresistibile, devastante, buonissimo!
Cerco di descrivere in sintesi questo sorso (usando i verbi): lo annusi ed è penetrante, intenso, dritto alla sensibilità delle nari. In bocca esplode altrettanto: la lingua viene invasa dal balsamo mentolato, l'acido e il sale ti si attaccano alle mucose, e non ti resta che spremere l'acino forte sul palato e deglutire, rendendo così partecipi faringe e gola di tanta sostanziosa bontà.