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lunedì 30 giugno 2014

Lo Spaccio Alimentare #piattidalode di Vittorio Rusinà


La gioia di trovare una pasta di farro di alta qualità, la monograno di Felicetti, perfettamente condita con verdure saltate e stracciatella pugliese fresca-fresca. 
Il tutto a Lo Spaccio Alimentare, davvero una bella sorpresa a San Salvario, innaffiato da qualche calice di timorasso di Daniele Ricci e sotto lo sguardo accogliente di chef Marco.
Voglio tornare per bere il Dolcetto di San Fereolo e per riassaggiare i buonissimi spaghettoni di Benedetto Cavalieri con le vongole, e i formaggi.




Lo Spaccio Alimentare, Via Belfiore 24, Torino
http://www.lospaccioalimentare.it

venerdì 27 giugno 2014

Brett is the Nu Hop(e)s # 2: Crooked Stave Hop Savant



Arriva da Denver, Colorado, la seconda birra dedicata ai ”brettamici del bar” di cui voglio parlare, trattasi di una Pale ale fermentata al 100% dai brettanomyces in enormi botti di quercia (foeders) dalla  Crooked Stave, birrificio conosciuto più che altro per la loro cantina ed il processo di invecchiamento delle birre, un breve sguardo al loro sito e capirete in un attimo di cosa sto parlando.
La Hop Savant si preannuncia, già dal nome in etichetta,  ricca di contributi dati dal luppolo, in questo caso Citra, Mosaic e Simcoe a cui si aggiunge un generoso contributo in dry hopping (luppolatura a freddo) diverso per ogni batch  che dà la sferzata finale all’aroma.
Nel bicchiere si presenta con un bel colore dorato, leggermente opalescente. La schiuma è bianca, fine e persistente.
 La componente aromatica è quantomai variegata  presentando dapprima  sentori di cereali e miele, dopodiché si vira sulla delicata presenza di fiori di campo.  Una nota agrumata e pepata prepara, poi,  il campo al contributo dato dal bretta che ha prodotto i tipici sentori leggermente stallatici, uniti ad una  consistente presenza citrica (lemony) e ad un tocco affumicato. La convivenza/lotta tra  dei luppoli così esplosivi e la presenza di lieviti selvaggi ha portato ad un caledoscopio di aromi molto ben delineati e decisamente accattivanti.
In bocca il corpo è abbastanza sfuggente, la carbonazione  media  e la birra si mostra decisamente meno complessa rispetto alle qualità aromatiche, ma ciò non è un male, anzi.
 Il gusto vira quasi totalmente  verso il fruttato esotico, il  pompelmo e il citrico, la nota acida data dal bretta è molto contenuta e rende la birra estremamente rinfrescante, il finale è molto secco, vegetale e persistente.
Una birra davvero ben costruita e dall’evoluzione interessante, se volete portarla a tavola consideratene la componente luppolata e la leggera acidità che comunque non si scontra con un amaro abbastanza importante, io la vedrei bene su delle verdure grigliate,  fritture e cibi speziati in genere. [deLa]



giovedì 26 giugno 2014

Ristorante Consorzio #piattidalode

di Vittorio Rusinà


Una cucina di frattaglie e trionfi di carni, crude, scottate e arrosto, penso mentre scorro il menù del Ristorante Consorzio in un giorno di inizio giugno a mezzodì, oddio che prendere che abbia sentori veg più vicini al mio mood attuale? Leggo gnocchi e sia gnocchi. Indimenticabili gnocchi di patate vere, senza farina, affumicati e conditi con fave, piselli e piccoli tocchetti di salame. Un capolavoro di equilibrio fra gli ingredienti, perfetta esecuzione, applausi alla cucina.

#piattidalode
Ristorante Consorzio, Torino



mercoledì 25 giugno 2014

I gioielli lattei della Val d'Erro

di Rossana Brancato



Se ne è discusso spesso al Bar, questi formaggi d’artista erano ai vertici della mia lista dei desideri, e quando Vittorio mi ha provocata con le foto non ho più saputo resistere…
Ha trovato il modo di mettermi in contatto con Patrizia Vanelli Cambiano, casara,  affinatrice di stile inarrivabile e Maestro Assaggiatore ONAF. 
Così in pochi giorni sono arrivati a me ;D

Territorio vocato alle eccellenze casearie il Piemonte, siamo nella valle del torrente Erro, nel comune di Malvicino. Il borgo Le Ramate si estende su un promontorio pre appenninico, lungo la Via del Sale che porta a Savona. Ricoperto da una ricchissima flora silvestre, castagno, rovere, sambuco, sottobosco di frutti rossi ed erbe officinali.

 


L’azienda Le Ramate nasce dal sogno di Patrizia e Massimo, che con l’etica del basso impatto ambientale, hanno negli anni costruito infrastrutture, casa, azienda e stalla senza soluzione di continuità con i boschi, integrandosi con la natura circostante.

Il latte di capra, rispetto al latte di mucca, ha un maggiore contenuto di calcio e di vitamina D, molto utili nel metabolismo osseo dei bambini, donne in menopausa e nell'alimentazione dell'anziano.
Contiene però basse percentuali di vitamina B12 e acido folico, ed è leggermente più calorico del latte di mucca intero, pur avendo meno colesterolo.

Regala formaggi di superiore complessità aromatica rispetto ai vaccini, grazie alla maggiore percentuale di acidi grassi a catena medio-corta, acido capronico, caprilico e caprinico
La differenza si apprezza maggiormente durante l’affinamento, quando i processi lipolotici liberano gli acidi grassi.
Per il basso contenuto di β-carotene i formaggi caprini hanno un peculiare candore, sono più digeribili per il minor diametro dei globuli di grasso, che proprio per le dimensioni ridotte sfuggono dalle maglie della cagliata, arricchendo il siero, che darà una ricotta più cremosa e ricca di sfumature di gusto.
Le cagliate sono più soffici e hanno una più elevata biodisponibilità degli amminoacidi.
La microflora superficiale oltre alle muffe bianche penicilliniche, con l’affinamento si arricchisce di lieviti e micrococchi, che conferiscono le colorazioni rossastre e grazie alla loro attività lipolitica e proteolitica, determinano la cremosità del sottocrosta e ampliano lo spettro polifonico dei sapori.


Le Rubine sono tome gioiello artigianali, dal peso che si aggira sui 300 g, prodotte esclusivamente con latte di Camosciata delle Alpi aziendale. 
Le capre si alimentano brucando nei diciassette ettari dei pascoli, che si alternano tra prati e bosco.
Latte crudo di due mungiture consecutive, della sera e della mattina, caglio vegetale di cardo, sale e pH acido controllato, permettono a 22 ℃ la formazione della cagliata lattica, che non viene rotta durante la caseificazione.



Ho avuto modo di degustare alcuni dei formaggi aziendali, acquistati contattando Patrizia Vanelli Cambiano:



Primo Amore fresco è una robiola ideale anche da utilizzare nei dessert, data la sua delicatissima salinità. Esprime sottili note erbacee e di fiori di sambuco, ha una cremosità accentuata.
Dopo una ventina di giorni si struttura e si fa più burrosa, non perdendo spalmabilità. 
Una lievissima acidità suggerisce il binomio con ratatouille, peperonata, ortaggi caramellati o con pomodori estivi ed erbe mediterranee di cui ricorda le caratteristiche aromatiche.





Passione affinato 30 giorni, matura una consapevolezza avvolgente, come se ti stesse chiedendo di attendere, diventa persistente nei sapori e intensifica lo spettro aromatico.

Max Premier stagionato 60 giorni, è radiosa sinfonia che si svela generosa al palato. Sfumature sequenziali di erbe officinali, balsamiche di mirto e ginepro, e nella lunghissima persistenza si svela l’amara dolcezza della liquirizia.

Trovo ideale l’abbinamento con la vendemmia tardiva di Inzolia e Catarratto
dalle seducenti espressioni succose di albicocca candita, ananas, ginestra e vaniglia indiana, che ti sfiorano con le note balsamiche dei fiori di finocchietto selvatico e con un accento caldo e ambrato di pepe di Chiloé e del miele di borragine.




Gli abbinamenti aziendali suggeriti sono a mieli, composte di frutta, di cipolla e peperone.

Io li trovo espressivi e ideali in assoluta purezza.



Azienda Agricola Biologica Le Ramate

Località Ramate, 15015 Malvicino (AL)
tel. 0144 3400923  


La seconda foto è stata gentilmente concessa da Patrizia Vanelli Cambiano.



Rossana

martedì 24 giugno 2014

Galline uber alles!

di Andrea Della Casa

Negli ultimi 5-6 anni, causa la crisi che ha colpito le filiere suinicola e bovina, la produzione di carne avicola (da sempre la più economica delle tre) è aumentata del 30%.
Il settore avicolo è decisamente industrializzato: tra tutti gli allevamenti zootecnici, l’avicoltura è quello maggiormente dipendente dalle conoscenze scientifiche e tecnologiche, che hanno consentito il controllo di tutti i fattori di produzione.
La produzione del 90% delle carni e del 60% delle uova è in mano alle grandi multinazionali ad integrazione verticale, e i polli sono unità produttive e non esseri viventi con bisogni propri.
Forse anche per questo è uno dei settori in cui la legislazione in tema di protezione degli animali si è maggiormente espressa, fornendo direttive all’industria.
I moderni ceppi di broiler (pollo da carne) crescono molto velocemente, in un mese e mezzo il loro peso aumenta di circa 50 volte! Il pollo da carne (maschio) viene infatti macellato a 45-50 gg, quello da rosticceria (in genere femmina) anche prima. Ma va peggio al galletto che non passa il mese di vita, mentre i tacchini vengono macellati dopo 100-140 gg a seconda del sesso. Il cappone e le galline ovaiole sono i più fortunati: circa 5 mesi per il primo e a fine ciclo (che in genere dura 1 anno) pe le seconde. La produzione di uova dura infatti circa 1 anno e a volte, se le condizioni economiche lo permettono, si può fare 1 (o anche 2) ciclo ulteriore, con produzione ridotta ma di ottima qualità.
Proprio in merito alla produzione di uova siamo sempre affascinati da quelle confezioni che richiamano un allevamento a terra piuttosto che in gabbia, senza però sapere che la differenza tra le 2 tipologie è pressoché nulla. La direttiva CE cita infatti che per i “sistemi alternativi alle gabbie” il coefficiente di densità “non può essere superiore a 9 galline ovaiole per mq di zona utilizzabile”.
E anche da un punto di vista nutrizionale le uova da allevamenti a terra e in gabbia sono identiche.
Le cose cambiano invece se  l’allevamento è biologico o all’aperto (un allevamento biologico è SEMPRE all’aperto, viceversa un allevamento all’aperto non è per forza biologico) , ma solo se è ben condotto.
In questi casi sia il benessere dell’animale che la componente nutrizionale delle uova ne giovano.




Ricordiamo però che le direttive CE valgono solo per  gli allevamenti di uova da consumo con un numero di capi maggiore di 350.
Ovviamente per le varietà ovaiole vien da sé che sono solo le femmine che interessano la produzione, i pulcini maschi risultano invece inutili in quanto non essendo specie da carne hanno anche un IPG (incremento ponderale giornaliero) e un ICA (indice di conversione alimentare) poco favorevoli per pensare di allevarli. Molto spesso vengono quindi eliminati brutalmente appena nati.
Speriamo, in un’altra vita, di non nascere polli.

lunedì 23 giugno 2014

Piccole note sul concetto di “tradizione” estensibile alla gastronomia, se ne abbiamo voglia

Rakib, foto courtesy Scannabue, Torino
La tradizione non può che essere un concetto che, a dispetto del credo comune, aborre ogni forma di “congelamento” di fissità anzi ha in sé il seme del cambiamento continuo, questo espediente di introitazione del diverso rende accettabili i cambiamenti, i quali entrano senza traumi nel modus vivendi di una comunità.
L’integrazione e l’aggiunta ad un corpus di comportamenti, rende sostenibili, domestiche, comprensibili le innovazioni (siano esse tecniche, sociali, culturali).
Si cerca  di inserire la novità nella continuità della routine, della vita.
Nessuno può definirsi autoctono al massimo è l’ultimo nella sequenza temporale ad essere in un certo luogo.
Questi pensieri mi sono tornati in mente guardando dentro le cucine dei ristoranti che frequento sia per piacere sia per lavoro.
Ormai la forza lavoro è multietnica anche nei locali in cui si fa cucina della “tradizione” (occhio che anche i prodotti alimentari che usiamo sono per lo più extraterritoriali e poco autoctoni a cominciare dalle patate, dal mais per finire alle faraone, i fagioli, le melenzane, i pomodori); sous chef del Bangladesh, Romeni, Albanesi, nord africani, sud americani, Giapponesi che hanno fatto un viaggio, tutto interno alle cucine, dal lavello dei piatti sporchi sino ai fornelli e alla ideazione di nuovi piatti.
In cucina esiste ancora una struttura a scalini dal basso verso l’alto e una organizzazione ad atelier e la conoscenza la si ottiene e la si consolida attraverso l’esperienza, l’osservazione, la copia, la prova e l’errore, un processo continuo di ricerca e apprendimento.
Ognuno porta qualcosa, qualche tecnica, qualche sapore.

Daniel, foto courtesy Pomodoro & Basilico, San Mauro Torinese
La cucina non è mai ferma.
Sperimenta e sperimenta anche il melting pot in cui la credibilità, l’autorevolezza è data non dall’essere autoctoni ma dall’essere “bravi”, creativi, disciplinati, veloci ad apprendere.
Il colore della pelle, i paesi natali importano poco o nulla.
Dobbiamo ragionare ogni giorno su questi concetti quando applichiamo i nostri modelli reazionari ed immobilisti di pensiero nei confronti degli “altri”.
E’ sicuramente una vita grama quella della cucina ma mi pare si eserciti una sorta di laboratorio dell’integrazione costruito sul lavoro, sulla condivisione, sulla fatica e sulle soddisfazioni umane e professionali.
Poche parole roboanti, poca retorica e molta umiltà.
Cosa penserà la gente quando uno chef di cucina straniero con brigata multietnica farà la migliore cucina di tradizione piemontese, lombarda, veneta, campana, siciliana, marchigiana…?
Kempè

Luigi



giovedì 19 giugno 2014

Cuvée Violette 2011, AOC Anjou, Clau de Nell, Anne Claude Leflaive



Cerea 2014, gran parterre di produttori francesi, casualmente capito allo stand di Clau de Nell (ahimè non conoscevo Anne Claude Leflaive) solo perché erano vicini ad un altro produttore dell’Anjou che in quel momento era impegnato (anche i suoi vini meritavano!).
Chiedo uno Chenin, mi rispondono con gentilezza che non ne fanno ancora, per ora hanno vigneti di cab franc e cab sauvignon e quindi me li fanno assaggiare: un franc in purezza e il Cuvée Violette un taglio cab sauvignon e franc.

Etonnant!
Boom! Mi scoppiano in bocca e nel naso.
Neri come inchiostro.
Polposi di cassis e fragole e more.
Setosi come la mica.
Untuosi come le argille umide.
Quasi piccanti.

Parlo con Mme Leflaive e le dico che mia figlia si chiama Violetta come la loro cuvée.
Mi in segue nel corridoio con una bottiglia in mano e mi dice che è, simbolicamente, per mia figlia.
Sono realmente commosso da quel gesto.
Poi scopro chi è la Mme Leflaive e mi sento ancora più fortunato e un filino maleducato per non averla ringraziata con il dovuto calore.

Oggi a due mesi di distanza l’ho aperta.
E ha fatto di nuovo BOOM!
Inchiostro di china, chutney di mirtilli e more e cassis.
Tannino liscio come il panno di un biliardo.
Lievi asperità linfatiche.
Una spremuta d’uva.
Glu glu

Ma come diavolo fanno a fare dei vini così ossimorici: tesi ma ricchi, opulenti ma scorrevoli, fruttosi ma terziari?
Per essere un vino di Mme Leflaive non sembra costare molto, circa 27,00 euro, se vi capita prendetene non vi pentirete.
Kempè

Luigi



mercoledì 18 giugno 2014

Brett is the Nu Hop(e)s #1 : Prairie Artisan Ales Funky Galaxy

di Diego DeLa


Parlando di questa Funky Galaxy, andiamo a toccare almeno due punti caldi nel mondo della birra artigianale contemporaneo. In primis ci troviamo dinnanzi a due fratelli dell’ Oklahoma che si definiscono gypsy brewers, ossia di birrai che non possiedono direttamente l’impianto di produzione ma si affidano a birrifici esistenti per la realizzazione materiale della birra, mentre loro lavorano solo sulla sulla stesura  della ricetta e sull’affinamento della birra prodotta contoterzi. Questo è un tema abbastanza scottante da quando, nell'ultimo mese, diversi produttori belgi ( ma anche italiani) hanno preso le distanze in maniera abbastanza dura da questo modus operandi che sta prendendo piede sempre di più a livello globale .
In secondo luogo, parliamo di quello che sta diventando il nuovo trend nel mondo della craft beer americana ( e quindi presto lo diventerà anche da noi) ossia l’utilizzo di brettanomyces ed altri lieviti “non convenzionali” nella fermentazione delle birre prodotte  (da qui il titolo di questa mini-rubrica).

La Funky Galaxy viene definita  Dark Farmhouse Ale, ci troviamo, quindi, nel campo delle birre d’ispirazione belga appartenenti alla famiglia (allargata) delle Saisons e viene rifermentata in bottiglia con due ceppi di bretta ed uno di lievito da vino.
Nel bicchiere il colore è marrone molto intenso, la schiuma è beige, finissima e molto persistente. Da un punto di vista visivo il bicchiere si presenta davvero bene.
Al naso si fa sentire subito l’apporto dei lieviti selvaggi con una predominanza di coperta di cavallo, muffa e sentori stantii, in breve però, la birra prende aria e gli aromi si aprono maggiormente rivelando la presenza di fieno, frutta esotica (molto) matura, uva spina a cui si aggiunge un tocco pepato ed un bel accenno tostato.

In bocca il corpo è esile, la carbonazione medio bassa e vi è un interessante gioco tra un fruttato esotico molto maturo dato dal luppolo galaxy, una nota decisa tostata ed un’acidità che pare radicata più nell'utilizzo di malti tostati in ricetta che al lavoro dei lieviti. Il tutto è ben strutturato ma alla lunga risulta stancante pregiudicandone la facilità di beva che in questo stile dovrebbe essere fondamentale, inoltre la presenza degli  8 gradi alcolici non aiuta.
Il finale è abbastanza secco e la persistenza vira su una sensazione salmastra.
Personalmente  la reputo una birra interessante, da provare almeno una volta, ma  che mostra il fianco alle critiche nel voler essere a tutti i costi una birra roboante, ricca di frutta, ricca di off flavous e ricca di tostature, in alcuni casi il detto "Less is more" calza a pennello.
[dLc]

martedì 17 giugno 2014

Riesling Kappelweg de Rorschwihr 2008, Vin D'Alsace AOC, Rolly Gassmann

di Daniele Tincati


La settimana scorsa avevo amici a cena e si fa una pasta asparagi e Prosciutto di Parma.
L’abbinamento classico altoatesino degli asparagi prevede il Sauvignon, mentre in Germania gli preferiscono il Riesling, quello delle versioni base, spesso trocken.
Non mi va il Sauvignon e non ne ho di tanto pronti.
Riesling tedeschi neanche l’ombra, ma ne ho in casa uno alsaziano.
Lo stappo.

Rolly Gassmann è un produttore poco o nulla conosciuto in Italia.
Chi mi ha regalato la bottiglia mi ha raccontato della biodinamica non certificata e dell’uso, in vigna, di preparati a base di erbe che producono in azienda.
Cure maniacali del vigneto ed attenzione in cantina.
Questo 2008, non appena aperto, lascia qualche dubbio sul tappo, rilevatosi poi infondato.
Se ne avessero usato uno a vite non ci sarebbe stato il dubbio.
Bello intenso fin da subito, senza ritrosie, ma un pò monocorde su note minerali, che più che minerali direi petrolifere.

Una vasta gamma di sentori riconducibili ai derivati del petrolio, dalla benzina al kerosene, passando per l’officina e l’olio motore.
Folate balsamiche che rasentano l’insetticida, piastrine per zanzare, piretro e olio di citronella.
Qualcuno abbozza l’odore di plasticoni da supermarket cinese, ma sarà stato l’alcool.
L’assaggio è però particolarmente gradevole, con un leggero residuo zuccherino, al di sotto dell’abboccato, a stemperare un’acidità viva ma non aggressiva.

I ritorni di bocca svelano i profumi del secondo turno, che sono più in linea con l’assaggio.
Infatti, svanite le esalazioni da raffineria iniziali, il ventaglio olfattivo si fa più gustoso, con note di agrumi, soprattutto cedro, susina gialla, cedro candito e punte balsamiche di erba Luigia.
Bello lungo il finale, pulito, giocato sugli agrumi.
Un vino double-face, dinamico, con una discreta beva, che si è abbinato alla perfezione al piatto.

lunedì 16 giugno 2014

Ho bevuto aceto, pagandolo per vino buono e, questa volta, mi sono profondamente seccato!

Ristorante interno giorno: leggo la lista vini e trovo Blancas Nobles di Barranco Oscuro (non ricordo il millesimo, perché l’arrabbiatura me l’ha fatto dimenticare).
Niccolò ne ha parlato bene.
Allora, sicuro di fare un figurone con un amico e incuriosito, la prendo.
Aspettiamo un po’ perché non era in temperatura, nel frattempo parliamo e mangiamo.
Arriva!
Con trepidazione annuso.
Azz!
Azz! 2
Azz! 3
Acetica alle stelle.
Roteo come un lanciatore di martello il bicchiere.
Aspettiamo, mi dico, non conosco questo vino ma certe volte l’acetica nei bianchi di BO (mi è capitato con il metodo classico) è border line ma poi si risolve e il vino si lascia bere.
Niente!
In bocca, in fondo alla deglutizione si sente l’aceto e la sensazione ritorna con un sbuffo pizzicante al naso e alla gola (nota1).
Non sono un tecnico ma la produzione di acido acetico avviene esclusivamente in presenza di aria ergo: la bottiglia incriminata è stata imbottigliata in cantina da una vasca con l’acetica alle stelle! (nota2).
Ed io pirla me la sono comprata per berla e non per condirci l’insalata.
E loro un po’ disattenti a commercializzarla (nota3).
Ed io ero un po’ alterato, infastidito.
Molto.
Kempè stoc…o

Luigi


Nota1
Giulio Armani dice “ebbene l’aceto non vi piace?”
In linea di massimo sono d’accordo con lui, oggi rispondo: “sì mi piace ma nel vino, in questo momento storico, per essere bevibile ce ne deve essere molto ma molto meno”.

Nota2
Se mi sbaglio spiegatemi come potrebbe essere successa l’acetificazione in bottiglia.

Nota3
Eufemismo sarcastico.

venerdì 13 giugno 2014

VINO PER DEFICIENTI 1

di Eugenio Bucci


Ehi tu, lettore, 
no, non tu che sei capitato qui per caso da una ricerca errata su Google mentre digitavi vino+deficienti (cosa stessi cercando non lo voglio neanche sapere). Non mi rivolgo a te. Cioè, puoi restare tranquillamente. In fondo quello che sto per scrivere potrebbe servirti e se leggi alla velocità media di lettura sul web (che è moooolto veloce, appena dentro la soglia di percezione del testo), ci metteresti solo 2 minuti a finire tutto. Lo so che è il tuo tempo massimo di concentrazione. Non ti sto accusando. Anch'io faccio così. E' che nell'aria c'è un vago senso di solitudine. Perché sospetto che tu non ci sia già più. Te l'ho detto, fai come vuoi.
No, io parlo con te, lettore non occasionale. Che sei qui per tua precisa volontà. Perché su questo blog ci capiti spesso. Lo conosci. Lo ami, lo odi, ti lascia indifferente. Tutte e 3 le cose shakerate e servite fredde. O tiepide. O molto calde. Tu che leggi e intanto pensi "Vai al punto, cazzo, AL PUNTO!" Va bene. Sarò breve. Buffo detto alla riga 17.
Tu probabilmente bevi vino. Se stai ancora leggendo non c'è altra spiegazione. Oppure hai quella "pruderie" del tipo "Vediamo dove va a parare". Purtroppo andrò a parare sul vino. Niente porno o gossip. La cosa dispiace anche a me. Ma di vino parliamo. In pubblico. 
Comunque. Se bevi vino e frequenti questo posto, significa che sei un appassionato. Il tuo livello di passione sono fatti tuoi. Puoi essere un cane da tartufo o una spugna fradicia. Per me è ok. Questa cosa ti può interessare comunque. La cosa è che se bevi ("degusti" se preferisci), è assai probabile che non lo fai da solo. Non voglio neanche pensarci. Lo fai in compagnia. Con gli amici. Coi conoscenti. Con la tua donna. Col tuo uomo. E, magari, stai iniziando a condividere la tua passione. Fai le fotine delle etichette con lo smartphone, le piazzi su FB o Twitter o Instagram. Magari anche tu sei del "porno food&wine". Spii quelle degli altri. E commenti e vieni commentato.
Ora. Mettiamo che tu sia anche curioso e/o appassionato dei vini naturali. Massì, chiamiamoli così, siamo tra amici. Lo so, tu bevi tutto e non hai paletti mentali. A te piacciono i vini "buoni". Puro e semplice. Però facciamo finta che sei molto "dentro" il naturale. Vai alle fiere, sai mettere nella stessa frase corno e letame e dargli un senso compiuto. Non solo. Lo acquisti pure. Di tua spontanea volontà. E una cosa ti sarà capitata. Puoi essere mediamente o altamente o bassamente social. Ma almeno una volta sarà successa. Ci giurerei. Qualcuno ti avrà riso in faccia. Ti avrà detto qualcosa del tipo che cazzo bevi, quei vini puzzano, quei vignaioli ti fregano e "sanno" di fregarti, quei vini sono aceto neanche tanto buono, quei viticoltori sono adoratori di Steiner e Chtulhu e Barbanera, quei vini sono im-be-vi-bi-li. E avrà messo una  per stemperare la tensione. Ma non devi prendertela. Non è personale. Anche se sei vis-à-vis con un tuo (caro) amico e vedi una vena sul suo collo diventare grossa come un pollice. No. Quello (l'amico o conoscente o sconosciuto internauta) non ce l'ha con te. Ce l'ha con un'idea generale. Con una categoria di vini. Con una categoria di persone. Ad un certo punto, in un dato momento, deve aver incrociato un qualche vino naturale e deve aver sentito qualcuno parlarne e deve essersi sentito preso per i fondelli. O per il culo, se preferisci. Qualcuno o qualcosa deve avergli pestato un metaforico callo. Il vino puzzava come una fogna a cielo aperto. Il tipo parlava di cicli celesti e forze cosmiche strabuzzando gli occhi. Qualcosa del genere, non lo so. E si è sentito perculato. Ha pensato che lo stavano prendendo per deficiente mentre, in effetti i deficienti erano "loro". E così si ritrova a generalizzare. Generalizzare è brutto, siamo tutti d'accordo. Alle elementari se generalizzavi ti arrivavano dei tozzoni. Almeno dalle mie parti. Scuola staineriana. Generalizzare=cacca. Lo so io, lo sai tu, lo sa anche lui.  Bisogna distinguere. 
Comunque. Questo tipo che vi ha riso in faccia (metaforicamente o meno), ha sicuramente le sue ragioni. E, diciamo, ora come ora fatica ad approcciarsi ad una certa categoria di vini. E' capace di elencarti in ordine alfabetico i 100 difetti principali di certi vini. Tutte cose vere. E tu, magari, cerchi di ribattergli con i 100 e 1 pregi di certi vini. Per ogni difetto, ci metti un pregio. Più 1. Ma così diventa una guerra dei numeri. Che assomiglia a una guerra dei bottoni. Diventiamo tutto-chiacchiere-e-distintivo. E così mi è venuto in mente di fare una cosa. Una cosa più pratica. Più concreta. Forse. E' come se fossimo seduti di fronte. Io e te. E ti volessi offrire da bere. E so che sei uno difficile, che non vuoi roba "strana". E ho capito (forse) cosa intendi per "strana". E così punto sul sicuro. Non ti voglio mostrare i muscoli. Non ti voglio impressionare. Ti voglio bene e voglio che ti rassereni e voglio incuriosirti. Punto su una bottiglia che ti "deve" piacere. Che è piaciuta al 99% della gente a cui l'ho fatta bere. Alla casalinga di Voghera e al Master Of Wine.
Così ti verso questo vino e te lo presento. Questo è un "Vino Per Deficienti". Mi sto prendendo dei rischi, lo so. Cioè, non sul vino, quello è buono, giuro. Dei rischi con le parole. Deficiente nel senso di "deficere", mancare in qualcosa. E' chiaro. L'equivalente del "dummy" inglese. Che suona meglio. Che forse equivale a "tonto". Che forse si poteva dire "a prova di cretino". Ma deficiente mi piaceva di più, ha quel nonsoche di "mancanza da colmare". Noi della scuola staineriana non abbiamo paura delle parole. Ci siamo sentiti chiamare deficienti 100 volte. E siamo cresciuti.
Un Vino Per Deficienti è prima di tutto un vino buono. Buono nel maggior numero possibile di parametri. Pulito, equilibrato, consistente. Non un vino "cerchiobottista". Non un borghese piccolo piccolo. Non è un vino "bravo ragazzo", pulitino e un po' sciapo. No. E mai splatter, non "gioventù cannibale", un vino che non usa gli effettacci. Un vino che nella sua chiarezza e comprensibilità, nella sua grammatica ineccepibile e nella sua sintassi classica, riesce ad aprirti squarci inediti. Lavora sottopelle. Ha un sottotesto che suona davvero forte. Quasi impossibile non sentirlo. Un sottotesto selvaggiamente ancestrale, contadino e "naturale". Come facciano certi vini ad essere così non lo so. Mica li produco io. Però ci riescono. 
Un Vino Per Deficienti vorrebbe, dovrebbe essere anche una testa d'ariete. Scardina le difese, abbatte le barriere della diffidenza e apre nuovi scenari. Verso una idea di gusto e qualità diversi. Ti cambia e tu non te ne accorgi. Un vino tarlo. E ti ritrovi dal VPD al macerato 360 giorni, alla barbera puzzona ma così affascinante. Forse è troppo. Ma almeno instillare il dubbio. Questo sarebbe già tanto. Oppure uno può bersi il VPD e apprezzarlo e fare spallucce e tornare ad altro. Fate vobis. Peace & Love.
Il bello è che il mondo è pieno di VPD. E ci sarebbe da fare una guida. Tipo uno di quei libretti che vanno tanto adesso. "Wine For Dummies". Magari diventerà una rubrica. Magari no. Non ci allarghiamo.
Comunque, caro lettore esausto, ecco il primo Vino Per Deficienti.

Solobianco 2013- Tenuta Terraviva (Trebbiano, Malvasia, Chardonnay)

A me sono sempre piaciuti questi nomi. Solobianco. Semplicemente Uva. UvaeBasta. Nientepopodimenocheuva. Acchiappano. Se fossi il loro copywriter, mi bacerei in bocca (i copywriter tendono all'amore unidirezionale e impossibile). Sono nomi che trasmettono un'idea di semplicità, naturalezza. Zero trucchi e zero inganni. Il gesto antico di un prodotto della terra, pigiato, lasciato riposare e imbottigliato e portato sulle nostre tavole felici in un pranzo di primavera tra bambini che corrono e coppie che si amano. Un idillio alla Mulino Bianco. Difatti, un idillio solitamente industriale/consumistico/borghese/matusa. Però mi piacciono.  Cioè, fanno il loro sporco lavoro, mi piacciono a livello subliminale, li leggo e Bum!, sono acchiappato. Copywriter, mi freghi e mi fregherai sempre.
Ma il nome non è tutto. Chiaro. E' un contenitore (più o meno) bello da riempire. Il Solobianco 2013 te lo riempie tutto fino all'orlo. Nomen omen. E Tenuta Terraviva una di noi. Scomponiamolo in due parti. Non che il vino sia scomposto. Anzi, ogni componente rema dalla stessa parte. Ma noi scomponiamolo. Parte a) o dell'equilibrio: come si diceva, Solobianco fa della semplicità d'approccio la sua macro-arma, quella che impatta immediatamente chi lo assaggia. L'effetto Wow! del primo impatto. Semplicità derivata da un equilibrio virtuoso tra componenti dure e morbide. Il che significa impatto al naso senza sbavature che siano pungenze o mollezze. Primariamente intenso e fruttoso senza effetto caramella. Intenso e pulito dove la mano enologica sembra intervenuta solo per pulire l'acino e passartelo da mordere. In bocca. Dove ritrovi tutto il naso e qualcosa di più. La dolcezza, una composta acidità, perfino un qualcosa che è un ricordo di tannino, una componente rugoso che innerva il sorso.
Parte b) o e-adesso-qualcosa-di-completamente-diverso: dove l'effetto Wow! non svanisce ma, anzi, raddoppia. Perché in mezzo a tutto questo equilibrio/immediatezza, a questa beva da pilota automatico, a questo Trangugia-E-Divora,  ad un certo punto scatta la 5a marcia. O il 6° senso. Col passare dei minuti, col vino che si arieggia e si scalda, tutto diventa più complesso. Parte un sottofondo, il sottotesto di cui si diceva prima. Una nota speziata e terrosa. Che non è ossidazione. Il vino rimane saldo e dritto. Un rimando alla lontana a certi macerati non estremi. Quel richiamo a una fragranza bucciosa che non copre niente ma accompagna e innalza. Uno strato che si sovrappone all'altro. Vuoi della dolcezza? Dai un morso a questa pesca matura. Vuoi un tocco di asprezza per ripulirti la bocca? Beccati 'sto alkekengi. Vuoi pure l'esotico? Un pizzico di cannella e chiodo di garofano. 
E così ci ritroviamo un vino a buccia di cipolla. Multistrato. Multitasking. Il mio e tuo drink vigoroso. Un vino per deficienti. Un vino per me e per te.

giovedì 12 giugno 2014

Banco a Torino

di Vittorio Rusinà


Banco io pensavo fosse da un'altra parte, cioè di fianco al Consorzio e di fronte al Banco dei Soldi e invece no, non era lontano ma era nella via dei Mercanti di fronte a quello che era (non c'è più) uno dei più vecchi ristoranti cinesi di Torino.
Un tratto di via tranquillo, quasi appartato rispetto alla confusione delle vie vicine del centro. Tavolini all'esterno ok, ma il pezzo forte è il bancone su cui appoggiarsi grazie ai trespoli, bere, mangiare qualcosa (cucina sempre aperta, caso rarissimo) e parlare con i vicini o con i "banchisti". 
L'altra sera ci faccio un salto con gli amici Patrick Ricci che al lunedì è di festa e Luigi Fracchia, una cosa buttata lì all'ultimo minuto (io ero già seduto a cena a casa con un bicchiere di Particella 928 fresco davanti al piatto quando d'improvviso squillò il telefonino...il resto è questa storia qui). 
Ai tavoli all'esterno riconosciamo Guido Zampaglione di Tenuta Grillo, via a stappare insieme un suo Sauvignon, il Solleone (in sintonia con il clima) ed è subito un "banana matura, pera, pera, un filo di ananas" urla Patrick (è alla fine del corso di primo livello amicidelbar, bisogna capirlo). Di fianco a Guido c'è anche Igiea la signora del riso dei Beni di Busonengo, interessante soffermarsi tutti insieme a parlare della coltivazione del riso, del trapianto delle piantine, dell'uso indiscriminato di fitofarmaci, dell'acqua che dovrebbe essere sorgiva. Poco più in là c'è anche Eugenio Signoroni uno degli artefici della Guida alle Birre d'Italia di Slow Food con lui e altri si chiacchiera di lambic e acidità varie, ben presenti qui da Banco (gran numero di bottiglie di Cantillon sugli scaffali) insieme a due spine in questo momento dominio di Montegioco.
Sul vino non si discute, gran vini naturali anche rari come lo Zibibbo Integer di Marco de Bartoli che beviamo a ruota del Solleone insieme a un gran piatto di formaggi che sono uno dei punti di forza del Banco.
La serata si conclude con l'acidità tagliente di tre calici di L'Insolite, da uve chenin, Loira.
Gran posto Banco, posto per tante cose, non solo per pranzare o cenare, ma anche per comprare specialità gastronomiche fresche, bere una birra, un calice di vino, un lambic, lo spaghetto di tarda sera, la merenda, due chiacchiere con Andrea e Pietro che si alternano alla guida di un posto che non tarderà a diventare punto di riferimento, la stoffa, e anche qualcos'altro, c'è.

Banco, Via dei Mercanti 13f, Torino
http://www.bancoviniealimenti.it/




mercoledì 11 giugno 2014

Una birra per l’estate : Saison Dupont

di Diego deLa  



Con il caldo ormai arrivato, è giunto il momento di sbizzarrirsi in bevute all’insegna della leggerezza e della freschezza d’animo. Partiamo con una tipologia classica ossia le Saisons,  birretradizionali della Vallonia (Belgio), infatti è proprio nei dintorni di Heinaut dove i lavoratori stagionali erano soliti dissetarsi nelle lunghe giornate di lavoro nei campi con queste birre dal contenuto alcolico moderato. La loro razione giornaliera era, di diritto, di cinque litri, considerate però che l'acqua per dissetarsi era scarsa in estate e questa birre erano ampiamente sotto la gradazione media delle altre birre belghe.

La produzione di questa tipologia di birre rappresenta una tradizione molto radicata nella zona, si pensi solo che chi non aveva gli strumenti per birrificare si faceva ospitare o affittava l’attrezzatura dai vicini di fattoria e le Saisons venivamo preparate in inverno con il materiale disponibile in fattoria, la base di malto e cereali tendeva a variare con gli anni e gli andamenti dei raccolti.  Il lievito utilizzato era, ed è, un ceppo particolarmente caratterizzante e dalle capacità di attenuazione incredibili (l’attenuazione  riguarda la capacità del lievito di fermentare gli zuccheri presenti nel mosto e nel caso dei lieviti saison non di rado si supera il 90%).

Questa di cui stiamo parlando è l’interpetazione  di casa Dupont, ed  è diventata negli anni  il metro di paragone  per questo stile che nel frattempo è stato codificato, per rimanendo uno stile aperto alle più disparate interpretazioni, basti vedere l’invasioni di Saisons/Farmhouse Ales americane che vanno in botte e fanno uso di lieviti selvaggi oppure che utilizzano cereali e ingredienti inusuali.

Nel bicchiere il colore è dorato, tendente all’aranciato, la schiuma è bianca, fine e molto persistente.

Al naso è tutto un caleidoscopio di aromi, vi è un attacco di miele millefiori, polpa di pesca, un bel aggrumato, fiori bianchi e il tocco magico del lievito che riesce a donare sentori rustici, legnosi, di cantina e pepati.

In bocca, la musica non cambia, il corpo è esile, la carbonazione medio-alta; aggrumato, speziato e pepato accompagnati da  un leggero tocco acidulo rendono la bevuta deliziosa e rinfrescante. Il finale vira sull’erbaceo da luppolo ed è secchissimo invitando alla beva.

Un capolavoro di bevibilità ed equilibrio, birra che rifermenta ed evolve in bottiglia, semplice e nobile allo stesso tempo, un classico imbattibilie.
Molto volubile nell'abbinamento, la consiglierei in abbinamento con formaggi stagionati, caprini, carni bianche e, per chì ama sperimentare, legumi.

[deLa]

martedì 10 giugno 2014

Un po’ di Francia nel bicchiere, parlando del più e del meno con Patrick Ricci al Banco vini e alimenti

Mi è sempre piaciuto avere delle posizioni iconoclaste e ho sempre guardato più ai cattivi maestri che agli insegnanti.
Per cui la pomposità dell’approccio “colto” al vino mi irrita, ne leggo una volontà di erigere barriere fra savant e non savant, con tutto il corredo di linguaggio tecnico e spocchia. I corridoi veronesi del Vinitaly sono la casa preferita dai soloni paludati in giacca e cravatta regimental che si aggirano come papi etilici seguiti da codazzi di groopies e lacchè e da produttori e distributori che ne baciano la mano.
Dispensatori di sapere, scrigni di conoscenza, difesi da spocchia e alterigia.
Comunque sia, qualche giorno fa in attesa di Patrick al Banco vini e alimenti ho organizzato un piccolo viaggio in Francia.
Nel bicchiere naturalmente!
Una degustazione da strada.
Molto rilassante.
Molto stimolante.
Inizio piano, incuriosito dall’Insolite che anni fa non mi aveva convinto.




Ne prendo un bicchiere e annuso, due parole al banco con Christian Bucci (l’importatore di cotanto vino) e poi a degustare “scientificamente” nel dehor per godere del primo caldo e delle bellezze a passeggio (spettacolo discreto ma nulla da paragonare al defilè di modelle che ci ha riservato la visita a Milano da Vinoir!).
L’Insolite 2013 di Domaine des Roches-Neuves, Saumur è una lama affilata, lo Chenin che mi piace, zero ossidazioni, freschezza citrico balsamica, sale e residuale florealità (è giovanissimo!).
Mi seggo nel dehors e assaggio, pesco due nocciole incrostate di spezie piccanti, mi alzo e annuso, faccio due passi e roteo il bicchiere che esplode in un luccichio colpito da un raggio di sole (Patrick è in ritardo!).
Mi distraggo al passaggio di…
Ops! Il vino è finito e…l’ho bevuto tutto.


foto di Pietro Vergano

Ci mettiamo a tavola e ordino il secondo passo in Loira il Petit Buisson 2012 di Thierry Puzelat, Clos du Tuè Boeuf, un sauvignon della Touraine.
Curioso, atipico, bei profumi quasi resinoso-mentolati ma cade un po’ in bocca, manca di freschezza di scatto e la sapidità è un po’ imbrigliata da ossidazioni zuccherose. Intanto parliamo e mangiamo e anche questo secondo vino sparisce insieme ad un polpo alla gallega (ah! I vini galleghi di Muradela).
Non pago voglio fare ancora un giro in Francia, intanto la discussione langue e lo struscio pure, decido per un salto in Borgogna, a Chabis dai coniugi De Moor con l’Aligotè plantation, che assaggiai la prima volta da “Rino” a Parigi ma ormai Giovanni Passerini ha chiuso e il Plantation mi ha un filino deluso così come il Petit Buisson d’altronde.




Seduti nel dehor ce la scialiamo al sole, con un venticello fresco che ci accarezza ma è ora di tornare a lavorare, un caffè* e via!
Kempè


Luigi

*ottima arabica di Lady Caffè, qui al Banco si beve uno dei migliori caffè di Torino.

Banco vini e alimenti.
Via dei Mercanti 13/f
10122 Torino
http://www.bancoviniealimenti.it/



lunedì 9 giugno 2014

Erba Brusca a Milano

di Vittorio Rusinà


Una volta era tutta campagna qui, una frase che sembra impossibile a dirsi nell'immaginario che si ha di Milano e invece, qui sul Naviglio Pavese, al confine, è realtà, più di quanto avrei immaginato.
Io, sinceramente, pensavo che Erba Brusca fosse un posto da super-fighetti e invece, sorpresa, è un posto easy, molto rilassante e almeno a pranzo piatti con prezzi abbordabili.
A sera con il buio e le candele deve essere un posto assai romantico.




Dopo un lungo periodo ritrovo Danilo Ingannamorte uno dei migliori uomini di sala e esperti di vino che io conosca, uno che sa bilanciare abbracci e riservatezza, sempre disponibile a soddisfare i capricci di una banda di hippie come siamo noi amici del bar (hai 2 grandi glacette per il vino? hai ancora calici? possiamo stare qui fino alle 16?) in compagnia di Stefano Borsa di Pacina e di Francesco Maule che danno un certo smalto al gruppo.


Anima della cucina di Erba Brusca è Alice Delcourt che ha portato a Milano, dalle sue esperienze americane, il concetto di farm-to-table. Qui ho mangiato una delle tre migliori insalate della mia vita di appassionato gastronomo, qualcosina arriva dall'orto del ristorante, in any case si fa attenzione all'acquisto di verdure all'esterno e questo si sente nel piatto. La maggior parte della critica presta attenzione a come vengono cucinate le carni, io invece penso che bisognerebbe prestare maggiore attenzione all'uso dei vegetali e della frutta, alimenti con cui è più difficile bluffare, la qualità è subito tangibile.


Super anche il risotto con salsiccia che credo sia uno dei must del locale, la tartetatin di "vere" cipolle di Tropea, ah ho scritto "vere" perché di recente in un locale di Torino decantato dalla critica ho mangiato una tartetatin con "finte" cipolle di Tropea. Molto buoni anche i formaggi, ricotte e mozzarelle, next time mi dedicherò agli stagionati. Colpo al cuore il dolce, trovare il banana-bread  in carta non è cosa di tutti i giorni, accompagnarlo con La Sorpresa, da uve passite, di Pacina, un vino che credo ritroverò in Paradiso, cosa ancor più rara.



Erba Brusca in poche parole: una gran bella sorpresa in una Milano che non ti aspetti.

Vini a cura di Luigi Fracchia, Mauro Cecchi, Francesco Maule e Stefano Borsa (grazie di esistere!)

San Leto (2009), etichetta verde (timorasso), Carlo Daniele Ricci, Costa Vescovato (AL)
Giallo di Costa 2010 (timorasso macerato), Carlo Daniele Ricci, Costa Vescovato (AL)
Arneis Docg 2012, Cascina Fornace, S. Stefano Roero (CN)
Mario’s 39 2011, Trebbiano d’Abruzzo Doc, Terraviva, Tortoreto (TE)
Luì 2011, Montepulciano d’Abruzzo Doc, Terraviva, Tortoreto (TE)
Pacina 2010
Secondo di Pacina 2012
Sassaia 2013 La Biancara
Pietrobianco 2013 Portinari




Erba Brusca è a Milano in Alzaia Naviglio Pavese 286
www.erbabrusca.it