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domenica 30 giugno 2013

Nespola




Matura all'inizio di maggio, il suo gusto è delicato e particolare, ha un fresco e spiccato aroma floreale, che persiste anche nei frutti più maturi. La tenue nota acidula, è dovuta al contenuto di acido formico e acetico.
In Sicilia è il primo frutto primaverile a colorare i banchi dei mercati.
Esistono due varietà di nespole ben diverse tra loro, entrambe appartenenti alla famiglia delle Rosaceae:
NESPOLA COMUNE
Mespilus germanica, di origine europea, il frutto viene raccolto in autunno, e diventa commestibile solo dopo la maturazione, che avviene dopo settimane di riposo sulla paglia in un luogo buio e ventilato. Il frutto acerbo ha un elevato contenuto di tannini, che lo rendono sgradevole al palato.
NESPOLA DEL GIAPPONE
Eriobotrya japonica, arrivata in Europa nel settecento, coltivata nel Mediterraneo e in California. In Italia è diffusa soprattutto in Sicilia, Nespola di Trabia, Precoce di Palermo, Nespola di Ferdinando e in Calabria.
Le varietà coltivate in Spagna danno frutti più grandi, dal peso di oltre 60 g, il colore arancio più pallido della buccia e la polpa è biancastra.
Le varietà Siciliane hanno sulla superficie esterna macchie brune e lievi ammaccature, imperfezioni che sono indice di maturazione. Il peso del frutto si aggira intorno ai 30 g, la buccia e la polpa hanno una tonalità aranciata più carica per il maggiore contenuto di carotenoidi. Hanno un sapore più zuccherino con sentori di vaniglia.
La nespola contiene molta acqua e fibre, 47 kcal per 100 g di parte edibile, vitamine B, C, carotenoidi, minerali tra cui rilevanti quantità di potassio, fosforo, magnesio e calcio.
Acquisto e conservazione
Frutto molto delicato, non si conserva a lungo in frigo e tende a oltrepassare velocemente il grado di maturazione, consiglio di acquistare solo le quantità da consumare nell'immediato.

Come avevo anticipato la mia passione ossessione per la Namelaka mi stimola a sperimentarne nuove varianti, l'ultima che ho elaborato, all'assaggio, ha superato ogni aspettativa!
Non siate suscettibili alle sfumature di grigio, il sesamo nero ha una caratterizzante nota di nocciola tostata, aumentarne la quantità solo ai fini estetici avrebbe compromesso l'equilibrio del gusto.
Cercavo una nota fresca, acidula e fruttata da abbinare alla crema e ho scelto proprio la nespola.
Essendo ricca di tannini tende facilmente a perdere il brillante colore, ma il problema si risolve grazie alla tenica utilizzata da  Fiordifrolla: la cottura in forno dei frutti a 120°C.
Ho decorato con dei cristalli di manna e semi di sesamo nero.

 Namelaka Opalys al sesamo nero e coulis di nespole


 Namelaka Opalys al sesamo nero
per 6 piccole verrines:

100 ml di latte fresco intero
5 g di glucosio
5 g di gelatina in fogli
125 g di cioccolato Opalys Valrhona 
(sostituibile con altro cioccolato bianco di qualità)
30 g di crema di sesamo nero (io l'ho acquistata qui)
200 ml di panna fresca

Mettere a bagno la gelatina in acqua fredda per 10 min.
Tritare il cioccolato.
Portare dolcemente a bollore latte e glucosio, aggiungere la gelatina e mescolare, fuori dal fuoco emulsionare il cioccolato e la crema di sesamo nero con il frullatore ad immersione, versando a filo la panna, evitando di incorporare aria.
Versare nelle verrines scelte, coprire con pellicola per alimenti,
lasciar riposare in frigo almeno 6 ore.
La Namelaka raffreddando gelificherà. 

Coulis di nespole
 
600 g di nespole
1/2 baccello di vaniglia Bourbon Madagascar
30 ml di panna fresca
zucchero a velo facoltativo

Preriscaldare il forno a 120°C in modalità statica.
Disporre in una teglia rivestita da carta forno la frutta lavata e asciugata, infornare per circa 30 min.
La superficie si scurirà, ma la polpa non subirà ossidazione.
Lasciare intiepidire, prelevare la polpa e porla in un contenitore dai bordi alti, aggiungere la vaniglia e con un frullatore ad immersione ottenere una purea.
Le nespole sono fibrose, ho dovuto aggiungere poca panna per rendere il composto più vellutato..
Una possibile variante potrebbe essere quella di utilizzare la pesca, in questo caso non sarà necessaria..
Versare un sottile strato sopra la namelaka.

Decorare con cristalli di manna e sesamo nero.

Rossana

venerdì 28 giugno 2013

bisogna sempre trovarsi nel posto sbagliato al momento giusto



Non ero uso recensire più vini nello stesso post, poi leggendo “neuroni sparsi” di Niccolò ho deciso che potrebbe essere una via per comunicare il mio errare (anche nel senso di sbagliare) fra vini e vitigni e luoghi e vigneron, con semplicità senza ricercare a tutti costi sensi che non siano i miei “sensi” e il mio umore.
Oggi vi parlo di tre vini degustati e bevuti con Gil Grigliatti, Vittorio Rusinà e altri commensali di grande sapienza , gentilmente offerti da Matteo Beraudo patron di  Casa Slurp.
Tre pezzi da novanta per i quali mi chiedo se sono stato degustatore all’altezza dell’opera!
Direi di no.
Ma tant’è che ero li e ho sbevazzato!
Come diceva Andy Warhol: “bisogna sempre trovarsi nel posto sbagliato al momento giusto o nel posto giusto al momento sbagliato”.
Infatti Vittorio ed io non eravamo stati invitati a questo lauto convitto ma capitando di lì al “momento sbagliato” siamo stati invitati a cotanto desco.

Binner 2007, cuvèe Beatrice.
Mai provato prima ma si sente il pinot d’Alsazia venire fuori chiaro e godibile, meno complesso, forse della Borgogna ma incredibilmente speziato e fresco quasi graffiante di una ammirabile dissetanza (cit).
Memo:
comprare un po’ di pinot noir alsaziano da tenere in cantina.
Vinificazione sui raspi.


Pacalet 2008, Aoc Gevrey Chambertin controlèe.
Decisamente un fuori classe di intensità e materia e profumi, un vino cangiante, instancabili le mutazioni nel bicchiere, decisamente più materico del Binner, fruttoso con balsamicità dispettose a fare capolino da lunghezze olfattive e di gusto siderali.
Vinificazione sui raspi.


Chateau Musar 2000
Mai assaggiato prima e me ne pento, è un vino del caldo (almeno per quanto riguarda la latitudine) ma non denso, Carignan e Cinsault lo smagriscono il giusto e lo portano in alto con sbuffi eterei.
Anche lui cangiante ed eterno nel bicchiere, potente e vagamente rude come le terre da cui arriva, vino di potenza nervosa e scatto di felino.
Vinificazione in cemento+legno+cemento+vetro.
Per me numero uno della serata.

Kampai

Luigi

giovedì 27 giugno 2013

La rivincita del signor Martinotti. Bollicine, caprini e sottoli

























Ho quasi pudore nello scoprire che una tecnologia ultimamente un po’ bistrattata come quella delle autoclavi (perché è energivora e poi perché il must è la rifermentazione in bottiglia), possa, se ben gestita, dar vita a vini decisamente interessanti.
In alcuni testi di enologia (un po’ agè) avevo letto del metodo Martinotti lungo ma non avevo mai assaggiato niente che avesse subito una lavorazione del genere (permanenza in autoclave per più mesi al fine di rendere la presa di spuma più fine e far maturare il vino sulle fecce).
Il metodo Martinotti lungo è una follia economico gestionale perché tiene occupate per mesi delle autoclavi costose che possono essere utilizzate a forte rotazione (venti/trenta giorni) per produrre vini frizzanti.
Ebbene in un sol colpo a Vinissage ne ho assaggiati due, questa è fortuna non pensate?
In verità conoscevo entrambe i vini e entrambe i produttori ma mi era sfuggita la tecnica di produzione e il rapporto che essa ha con i risultati organolettici.
Il primo è un Durello l’”Omomorto” (non toccatevi mentre leggete) di Stefano Menti in quel di Gambellara (VI) che sta dodici mesi  in autoclave con batonage.
Il secondo è un frizzante di uve Timorasso il “Chiaror sul masso” di Cascina Carpini alias Paolo Carlo Ghislandi. In quel di Pozzol Groppo (AL) che passa dieci mesi in autoclave.
I vini sono esattamente come chi li produce verticale, fresco, sapidissimo, timido direi, il Durello.
Aperto, cremoso e leggermente opulento il Timorasso che ricorda certi Cremant du Jura.
Per entrambe è encomiabile la finezza delle bollicine e l’equilibrio generale della presa di spuma che esalta questi vini tutto sommato semplici ma non banali.


Entrambe sono ciò che io intendo per vini gastronomici, si esaltano con i cibi, prova ne è stata la colazione annaffiata dal Durello a base di pane, sottoli, olive e pollo organizzata da Marco de La Baita e l’aperitivo a casa con il “primo amore” formaggio caprino fresco di Patrizia Vannelli*
Kampai

Luigi

*una porzione residua di quel caprino, dopo due settimane di affinamento in frigorifero ha sviluppato sotto la crosta una proteolisi da manuale ed io ho aperto un altro Omomorto!

Ps
Vini da berne a secchi! Dite loro che li imbottiglino almeno in Magnum.

mercoledì 26 giugno 2013

Cyril Le Moing e la nuova esperienza del Cabernet Sauvignon della Loira. Di Riccardo Avenia





Un'etichetta esplicita, diretta, che rende bene l'idea di cosa ci ritroveremo nel bicchiere. Cyril Le Moing è un piccolo produttore della Valle della Loira, che coltiva poco più di tre ettari nel comune di Martigné-Briand, nella parte sud della distretto di Anjou. Patria d'eccellenza dello Chenin blanc, localmente chiamato "Pineau de la Loire". I pochi vigneti coltivati ad alberello, hanno un'età minima di sessanta anni e godono di un inerbimento spontaneo, ricreando così un ambiente concorrenziale per le piante ed idoneo al proliferarsi della vita. Terreni sani, che ormai da anni non vengono calpestati e costretti da pesanti trattori. I pochi trattamenti vengono effettuati solo con rame, zolfo e saltuarie tisane. In cantina, i processi fermentativi, avvengono spontaneamente: per i vini rossi, le fermentazioni sono a contatto anche con i raspi (la mia ultima fissa) ed invecchiano in piccoli legni usati. Senza nessun tipo di filtrazione, tantomeno aggiunta di solforosa. Questo Cabernet Sauvignon per il 50% proviene da viti di oltre ottant'anni che nascono su terreni drenanti, argillo-sabbiosi, con esposizione sud. Le uve vengono vendemmiate in piena maturazione, con rese per ettaro estremamente basse: 15hl/ha circa. Oltre a questa varietà, Cyril coltiva: Cabernet Franc, Sauvignon blanc, Chenin blanc e l'introvabile Grolleau noir.

Immaginatevi ora una passeggiata nel bosco dopo una pioggia estiva. Quella sensazione fresca, i profumi della terra, degli alberi e del sottobosco. Il gorgoglio, l'aria frizzante e quella leggera brezza generata da un rigoglioso ruscello. Quel vivo e silenzioso rumore, insieme ai tanti profumi che ti circondano. Questa è la rappresentazione che mi sono immaginato immergendomi mentalmente in questo calice.

Inchiostro denso. Ha un naso variopinto, con iniziali pungenze acido-vegetali. Si allarga dalle spezie tipo il pepe, alla marasca ed alla frutta rossa che ne consegue. Intenso, intrigante, una vera incursione nel bosco, tra muschio, erba bagnata, resine ed un carezza floreale che ricorda la violetta. China, liquirizia, cuoio ed un lieve ricordo di cioccolato fondente, apportati da un magistrale invecchiamento in barrique.

Il sorso è dominato dall'acidità, dal fitto tannino e da una netta sensazione ruvida, che ultimamente ricerco e mi fa saltare dalla sedia per la gioia (certamente in questo, il contributo lo danno anche i raspi). Saporito, gustoso. Una bevuta snella, rurale, per il convivio.

Così ho pensato: ma siamo sicuri che questo sia Cabernet Sauvignon? Perché da oggi li vorrei tutti i così. Non scherzo.

martedì 25 giugno 2013

Convivio cum/sine Vino. di Vittorio Rusinà



Ero seduto in poltrona alla #ddb Eroi della Barbera a TerroirVino quando d'improvviso guardando con tecniche dervisce i partecipanti e il tavolo ho capito che mancava una cosa fondamentale: il cibo...c'erano solo due cestini di pane e focaccia abbandonati in mezzo...se volevo che la degustazione delle ben 9 barbera proseguisse fino in fondo e desse lustro adeguato a tutte le barbera coinvolte (beh ero lì per quello) dovevo alzarmi e uscire a cercare cibo (fatto), farmi mettere paninetti al salame, torte di verdure e riso, pizze, grissini sui vassoi (fatto), servire il tutto più volte agli amici degustatori (fatto) ricreando il convivio che tanto può.
E' stato in quel momento che io, in genere menefreghista dell'abbinamento del vino con il cibo, ho capito che non si può più continuare nelle degustazioni a prescindere il vino dal cibo, è una cosa che vorrei si realizzasse anche nei banchi di assaggio nelle varie manifestazioni dedicate al vino.
Il mio consiglio ai produttori di vino è di aumentare il valore aggiunto dei loro banchi di degustazione, non basta più versare e spiegare il vino sorridendo gentili, occorre portare del cibo che esalti il vino che propongono...ecco allora la fontina di Aosta per i vini di montagna di Grosjean, i sottoli  (tipo quelli di La Baita) per le bollicine di Franciacorta, la culaccia di Langhirano per i frizzanti emiliani...e così via all'infinito.
Il cibo e il vino mai più separati ma insieme a dare risalto, a far comprendere che al di là dell'abbinamento azzeccato, il vino trova la sua massima espressione in matrimonio al cibo.
Ricordo in un passato non lontano splendide degustazioni di Barolo 10 e 20 anni organizzate da SlowFood dove l'unico cibo presente era qualche grissino, tutti noi si pativa la fame in nome di rigide disposizioni degli alti comandi :). Avevo amici degustatori che arrivavano alle degustazioni AIS e SlowFood con cibo nascosto nelle borse, degustatori non alle prime armi...che ricordi ho? ottimi vini ma ambienti poco conviviali.
Ho provato a consigliare ad alcuni produttori più cibo nei loro banchi di assaggio, ma fino ad ora senza successo...ok ho appena iniziato a "rompere",  ma credo fortemente che possa essere un valore aggiunto su cui investire nel prossimo futuro.
Vino e cibo mai più separati anche nelle manifestazioni, non stand separati ma uniti a far comprendere al consumatore finale che il matrimonio funziona, ogni tanto, alla grande.

immagine: Renato Guttuso, Il Convivio, 1973

lunedì 24 giugno 2013

Cherry passion


La ciliegia è il frutto del Prunus avium, albero appartenente alla famiglia delle Rosaceae, di probabile origine asiaica. Apprendiamo dal Naturalis Historia di Plinio, che fu il proconsole Lucullo ad introdurlo nel suo hortus, nel 60 a.C. e così si diffuse in Italia.
L'incantevole e poetica fioritura d'aprile è celebrata in Giappone con "La Festa dei Ciliegi" (in giapponese Hanami): sotto gli alberi in fiore, nei parchi cittadini, riuniti con la famiglia e con gli amici, i giapponesi godono della magnifica pioggia dei petali rosa (ciliegi da fiore) ; la festa dura per tutti i giorni in cui la fioritura è al suo massimo splendore, un tempo brevissimo, soltanto uno o due giorni.
Il fiore del ciliegio (Sakura) rappresenta l'anima del Giappone, il simbolo della fragilità, ma anche della bellezza dell'esistenza.
Ne ho goduto anch'io in Sicilia, i ciliegi da frutto che ho la fortuna di contemplare hanno avuto una ricchissima fioritura candida e hanno mantenuto la promessa di un eccezionale raccolto.























DalPrunus avium si ottengono le specie DOLCI: Burlat, Moreau, Giorgia, Van, Durone, Nero, Ferrovia e Lapinis;
mentre dal Prunus cerasus le ACIDE: marasche, amarene e visciole, (cito la celeberrima crostata di ricotta e visciole dell'antico forno Boccione, nel ghetto ebraico di Roma, nessuna particolare insegna, ma si distingue facilmente dalla coda...).
La maturazione avviene nel periodo compreso tra maggio e luglio.

Contiene l'80% di acqua, pochi zuccheri, tra cui il più rappresentativo è il levulosio, può quindi essere consumata anche dai diabetici.
Le kcal non superano le 40 per 100 g di parte edibile, è presente una piccola percentuale di proteine, fibre, potassio, fosforo, calcio, magnesio e ferro. Vitamina C, carotenoidi, e flavonoidi vasoprotettori.
La ciliegia ha proprietà depurative, diuretiche e lassative, la melatonina presente favorisce il sonno.
Anche il decotto dei piccioli ha proprietà diuretiche.
Oltre al consumo fresco, le ciliegia ha molti impieghi nel campo dolciario:
confetture, sciroppi, canditi, salse, sorbetti, chutney, mostarde, liquori e distillati ( maraschino, ratafià, kirsch, cherry brandy), crumble, crostate, semifreddi e clafoutis.
Abbino spesso le ciliegie al foie gras, tonno, ricciola e sgombro.
Acquisto
I frutti devono apparire sodi e lucidi, senza ammaccature, il picciolo verde e adeso al frutto.
Temono l'umidità del frigorifero, vanno conservati protetti de carta assorbente in un sacchetto per alimenti aperto alla sommità, e consumati entro 2-3 giorni.


C'è una delizia particolare che amo regalare e condividere con gli amici più cari, per Voi c'è anche la ricetta:



Macarons alla Namelaka Matcha e ciliegie 



 La pasticceria è la mia vocazione e ciò che più amo preparare sono i macarons.
Questa versione li vede protagonisti come dessert, farciti di Namelaka montata al tè verde Matcha, le cui note tanniche e acidule, lontanamente esperidate, enfatizzano l'aromaticità della ciliegia.
La Namelaka è una mia ossessione, letteralmente "crema cremosa", una consistenza sensuale che supera la mousse o la ganache: eterea se montata, fondente al palato gustata al cucchiaio.
Si presta ad essere modellata e la trovo infinitamente versatile.
La versione originale è stata messa a punto da un pastry chef giapponese della prestigiosa scuola Valrhona, di cui non conosco ancora l'identità.
Ho avuto modo di sperimentarla al cioccolato bianco, fondente, al Dulcey Valrhona, e ho in mente una variazione al sesamo nero. 
Segnalo l'interpretazione magistrale di Fiordifrolla ricca di vibranti accenti e preziosi stimoli sensoriali.
Può sembrare una creazione elaborata, ma prevede solo due preparazioni, che si possono anche anticipare al giorno prima di montare il dolce.

Utensili necessari:
Ciotola a bordi alti
Fruste elettriche o planetaria
Mixer
Setaccio
Spatola
Sac à poche
Placche da forno
Carta forno
Frullatore ad immersione


 Macarons

100 g di albumi
100 g di farina di mandorla
200 g di zucchero a velo
Un pizzico di cremor tartaro
10 g di zucchero semolato

Nel mixer frullare ad impulsi farina di mandorla e zucchero a velo, per pochi secondi, per non surriscaldare le polveri.
Setacciare.
Iniziare a montare gli albumi, aumentando la velocità e aggiungendo il cremor tartaro e lo zucchero semolato quando avranno assunto una consistenza spumosa.
Con una spatola amalgamare le polveri agli albumi in tre riprese.
Questa è la fase più importante, il macaronage, l’impasto dovrà avere la consistenza di “magma”, cadere a nastro dalla spatola.
(Video su Vine @LaViolettaCandita).
Se si spatola poco si otterrà qualcosa di simile a delle meringhe, se si esagera la massa assumerà una consistenza troppo liquida, non più utilizzabile.
La giusta consistenza permette all’impasto di autolivellarsi.
Pochage: con una sac à poche, con bocchetta liscia nº1, formare i macarons su carta forno, con cui avrete rivestito una placca da forno.
Potete aiutarvi disegnando delle circonferenze del diametro scelto su un secondo foglio di carta forno, da interporre tra la teglia e il foglio dei macarons, da sfilare dopo averli formati.
Per questa dose serviranno 2 placche.
Li ho ideati come dessert individuale, preferendo un diametro di 7 cm.
Croûtage: battere le placche sul piano di lavoro e lasciare che la superficie si asciughi parzialmente, da lucidi diventeranno opachi, toccandoli con le dita non saranno appiccicosi. Sarà necessaria circa un’ora.
Infornare nella parte bassa del forno, preriscaldato a 140°C, modalità ventilata, per circa 12 min.
Il tempo varia in base al diametro.
Dopo circa 4 min inizierà a formarsi la collerette, il classico merlettino di base.
Per velocizzare i tempi, è possibile infornare direttamente a forno spento, appena formati, impostando la temperatura a 50°C per 20 min, poi a 140°C per 10 min.
I macarons sono pronti quando si staccano perfettamente dalla carta forno.
Lasciare raffreddare mezz’ora prima di farcire.

Per farcire:

300 g di ciliegie denocciolate e intere per decorare

Namelaka montata al tè verde Matcha

100 ml di latte fresco intero
5 g di glucosio
5 g di gelatina in fogli
125 g di cioccolato al tè verde Matcha
(sostituibile con 120 g di cioccolato bianco e 10 g di tè verde Matcha in polvere)
200 ml di panna fresca

Mettere a bagno la gelatina in acqua fredda per 10 min.
Tritare il cioccolato.
Portare dolcemente a bollore latte e glucosio, aggiungere la gelatina e mescolare, fuori dal fuoco emulsionare il cioccolato con il frullatore ad immersione, versando a filo la panna, evitando di incorporare aria. 
Lasciar riposare in frigo almeno 6 ore.
La Namelaka raffreddando gelificherà.
Montare con le fruste elettriche per circa 5 min,
inserire la massa in una sac à poche, formare dei ciuffetti su metà gusci,
disporre le ciliegie denocciolate, accoppiarli con i rimanenti gusci su cui avrete deposto un ciuffo di Namelaka e riporre in frigo fino al momento di servire.
Il riposo è fondamentale.
Permette ai gusci di ammorbidirsi e di fondersi all’assaggio.

Note
  • Senza frutta fresca i macarons possono essere conservati 2 giorni in frigo, o surgelati.
  •  Dalla qualità della farina di frutta secca e dagli albumi dipende la riuscita.
  • Gli albumi devono essere a temperatura ambiente e le uova utilizzate devono essere state deposte da almeno 3 giorni.
  • Non uso coloranti, se volete sceglieteli idrosolubili, consiglio il tè Matcha per ottenere un magnifico verde.
  • Il forno deve essere necessariamente ventilato, va bene anche un fornetto piccolo. La temperatura va messa a punto: non devono dorare.

P.S. Pronta a rispondere a tutte le vostre domande sui Macarons! ;D

Rossana

sabato 22 giugno 2013

Ho riassaggiato il Mounbè 2006 di Cascina degli Ulivi


E tutte le impressioni positive che avevo avuto non solo sono state confermate ma ho trovato che a distanza di circa quattro mesi ci sia stata una evoluzione positiva.
Eleganza e passo da campione.
Acido dolce tannino
In perfetta armonia, annegati in profumi di nobili terziarizzazioni
E grande piacevolezza gustativa
Kampai

Luigi


venerdì 21 giugno 2013

Lieviti e paradossi. Di Niccolò



Un argomento ricorrente del web enoico sono i lieviti.

Oramai siamo tutti altamente alfabetizzati in materia, ma un accordo fra fazioni è ben lungi dall’essere in vista.
Quando ciascuno di noi aveva sposato una posizione che pensava consolidata e argomentabile, ecco che arrivano i nuovi ribaltoni.

Dunque.

Le ultime dal fronte ci dicono che se vuoi veramente il terroir nel bicchiere, meglio usare i lieviti selezionati.
Che se vuoi limitare la solforosa in bottiglia, meglio usare i lieviti selezionati (qualcuno si azzarda a chiamarlo paradosso).
C’è di più perché la scelta dei lieviti selezionati in realtà non precluderebbe assolutamente la prosperità di altre famiglie di lieviti eventualmente presenti in zona (della massa al momento della pigiatura ndr).
Ulteriormente, una buona scelta del lievito non influenza né gli aromi né i sapori del futuro vino e, se inseguite il Vero Fine del Vino Naturale, l’Assenza di Solforosa, vi tocca rivolgervi ai lieviti selezionati che se la magnano tutta, altrimenti, anche se voi non l’avete aggiunta, potreste ritrovarvi con il nemico che rientra dalla finestra, come sottoprodotto dei vostri lieviti brutti e cattivi.

In pratica se volete il vino naturale dovete farlo con metodi tecnologici.

PS Nel frattempo mi disinteresso alla querelle e leggo alcuni interessanti risultati di confronto di digeribilità fra pane lievitato con saccaromyces cerevisiae selezionato e con lievito madre. Penso alle ottime baguette in franchising che si trovano in Francia, ovunque uguali, e ai pani da lievito madre, ovunque diversi. All’equilibrio fra lieviti e batteri acidolattici e ai residui di carbonica di Valentini…

E un dubbio cresce dentro di me: forse che la questione si giochi su altri fronti?

Ma se chi sostiene che i lieviti selezionati siano neutri e perciò lascino emergere varietale e terroir, poi dice che il lievito va scelto accuratamente, a me sembra che si contraddica: primo cosa vuol dire neutro? Rispetto a cosa? Secondo se esiste il Lievito Neutro perché uno dovrebbe scegliere oculatamente? E infine dunque se anche le varietà in bustina sono tante e ciascuna con differenti caratteristiche mi pare che ciò voglia dire che i lieviti sono caratterizzanti per il gusto del futuro vino e allora vogliamo caratterizzarlo con l’industria o con i luoghi e le proprie cantine*?

*Tra l'altro trovo illuminante il fatto che l'associazione lieviti batteri acidolattici che si realizza in alcune madri sia così stabile da preservarsi immutata per decine di anni anche in ambienti non asettici.

PS Chiedo venia per esser tornato sul tema dei lieviti a ridosso del post di Eugenio cui sono seguiti interessanti commenti, ma lo avevo scritto ancor prima di allora. Posso aggiungere che forse il tema meno menzionato, cui accenna Luigi nei commenti, è proprio quello dell'ecologia dell'ecosistema dove stanno i lieviti e i batteri. Senza dire che l'equilibrio naturale sia il Bene, c'è sicuramente da considerare e guardare con attenzione agli equilibri e alle associazioni raggiunti naturalmente in ecosistemi sani. Se è vero che il vino difficilmente si crea in natura, è altrettanto vero che la fermentazione esiste come possibilità implicita nell'ecosistema vigna-cantina e diventa esplicita non appena accettiamo che anche l'uomo ne faccia parte.

giovedì 20 giugno 2013

Lacrime di manna



"Come gocce di cristallo sollecitate da un'onda elastica, le stalattiti si incrinarono, comparvero delle linee di frattura; poi, o per un colpo di vento o per un improvviso incantesimo, simultaneamente i cannoli si staccarono dagli alberi e caddero nelle pale di ficodindia con un movimento soffice e rotondo."
Tratto da "manna e miele, ferro e fuoco" Giuseppina Torregrossa, Mondadori.

L'identità territoriale madonita si estrinseca in purissime lacrime di Fraxinus ornus.
Lacrime bianche
come gli stucchi del Serpotta che ti lasciano in contemplazione mistica, varcata la soglia della cappella di S.Anna, nel castello Ventimiglia.








Lacrime bianche
come la neve che in inverno rende quasi inaccessibile il buen retiro di Castelbuono,
paesino che richiama da tutta la Sicilia, appassionati d'arte, ornitologi, micologi, golosi che apprezzano i magnifici funghi del territorio, i salumi e le pregiate carni del suino nero dei Nebrodi.








                                                             





Lacrime bianche
come la glassa che avvolge i celebri panettoni, che il Maestro Nicola Fiasconaro porta in giro per il mondo e spedisce anche in orbita.





Lacrime bianche...
è così che vedo la manna che sgorga dalla corteccia 'ntaccata, mi chiedo se sia lecita questa pratica, passeggiando per i sentieri delle Madonie, dove magari hai la fortuna di incontrare Giulio Gelardi, in comunione coi suoi frassini.





I frassineti, patrimonio forestale della Sicilia nord occidentale, oggi ridotti a pochi ettari, si estendono da Castelbuono a Pollina, in provincia di Palermo, là dove vola l'aquila Reale e all'orizzonte si stagliano le Eolie figlie del vento e l'Etna, per quanto sei in alto.
Sono frassinicoltori o sciamani i Mannaruòli?
Sicuramente stoici eroi.
Mantengono ancora in produzione il 30% dei frassini da manna rimasti, che nel secondo dopoguerra erano la principale fonte di reddito del territorio, oggi salvaguardati dal Presidio Slow Food "Manna Eletta delle Madonie".
Sanno incidere secondo schemi precisi, che vanno perpetuati negli anni, con un ritmo imperturbabile.
Possiedono competenze colturali che hanno radici ancestrali, sentono il vento, sanno individuare il preciso momento in cui intervenire, quando il frassino è carico della linfa che la torrida calura estiva cristallizzerà.
Solo la purissima manna colata, che non è venuta in contatto con la corteccia, forma il cannolo, la qualità più pregiata.
I Mannarùoli sono di certo custodi della biodiversità vegetale, contribuiscono a salvaguardare fauna, microbiologia del terreno e ad arginare il degrado del territorio.


Citata fin dalla medicina greco-romana e araba, la manna possiede blande proprietà digestive, emollienti, lenitive, rinfrescanti e lassative in dose da 10 g per gli adulti, solubilizzata in una bevanda calda, o sciolta in bocca come una caramella se è in forma di cristalli.
La mannite o D-mannitolo, ha un potere dolcificante molto inferiore rispetto al saccarosio, non altera il profilo glicemico e può essere assunta anche dai diabetici.
Tanti prodotti sono confinati solo nella memoria di alcuni, sarebbe giusto evitare che sprofondino nell'oblio.

Rossana


mercoledì 19 giugno 2013

Serragghia Bianco 2009, perla di Pantelleria di Andrea Della Casa


un dammuso a Pantelleria
Pantelleria è una bellissima isoletta a sud della Sicilia, un tempo famosa per l’ossidiana (vetro vulcanico che si origina dalla lava) ed oggi per il vino passito e i capperi.
La vegetazione locale è quella tipica mediterranea (lecci, corbezzoli, ginestra…) ed il paesaggio è caratterizzato dalla presenza di muretti a secco, anche di epoca romana, e da numerosi dammusi, piccoli fabbricati di architettura araba utilizzati come ricovero dai contadini quando rimanevano distanti dalle loro case vari giorni per lavorare nei campi.
Qui sull’isola le viti, piantate al centro di una piccola conca per proteggerle dai venti salmastri, hanno dimensioni molto ridotte (anche 30 cm di altezza).
L’Azienda Agricola Serragghia (il nome deriva dalla contrada in cui è sita l’Azienda ed è un termine locale che significa serraglia. La Serraglia è anche una valle che si apre tra le pendici del vulcano Gjbele e il mare rinomata per la ricchezza e la qualità del suolo) è ubicata proprio ai piedi del vulcano Gjbele, ad una altitudine di circa 350 metri s.l.m. . Qui si è deciso di coltivare il terreno avvalendosi dell’aiuto del cavallo, come un tempo si faceva su tutta l’isola. I vigneti sono impiantati su terreno vulcanico con elevata presenza di tufo, un suolo quindi fertile che ben si presta a trattenere l’umidità che non subisce l'utilizzo di concimi né antiparassitari, e il diserbo viene effettuato con soli metodi meccanici (zappe e decespugliatori). Tra i filari l’erba tagliata viene poi interrata per apportare sostanza organica al terreno e con la zappa si procede a formare quella conca (profonda circa 20 cm.) attorno al fusto della vite che la proteggerà dai venti e aiuterà a far confluire verso le radici l’acqua delle rare piogge estive.
La cantina  di Gabrio Bini è davvero particolare: senza mura né tetto, costituita solo da un cannicciato ombreggiante. Il vino viene conservato in anfore di terracotta di diverse capacità (da 250 l a 70 hl a seconda della fase di vinificazione), completamente interrate nel piazzale adiacente all’azienda.


Il Serragghia Bianco 2009, da uve Zibibbo fa vorticare all'interno della bottiglia numerosi corpuscoli, segno inequivocabile di una totale mancanza di filtrazione e si manifesta poi nel calice con tutta la sua velatura torbida. L'etichetta posteriore cita : "Non contiene solfiti".
Subordinato al potere aromatico del Moscato d'Alessandria si rivela chiaro un profumo agrumato pungente, e poi pera matura, bosso, albicocca, mandorla e una punta di miele delicato per un naso che a tratti è confondibile con quello di un sottile passito.
Il debutto al palato è morbido e avvolgente per poi chiudere con una acidità potente, prorompente, pompelmosamente amarognola che tende costantemente ad aumentare lasciando in bocca una memoria lunghissima. Mantiene qualche vivace sprazzo di carbonica e una lontanissima ombra di un gusto che fa pensare alle birre acide belghe a fermentazione naturale. E' uno di quei vini che io definisco "like a juice", non per sminuirlo o irriderlo, bensì per la sua polposità "dolcemente" fruttata e l'incredibile bevibilità che invitano continuamente alla mescita.
Abbassandogli di un niente la temperatura per me potrebbe diventare anche il protagonista di un grandioso aperitivo.

martedì 18 giugno 2013

SE NIENTE IMPORTA, PERCHE' PARLIAMO DI VINO NATURALE? (PARTE 2)


CAPITOLO 3SOLFITISMO E LIEVITISMO

Capita di andare nella mail e capita, a volte, di trovare delle cose interessanti. Come l'ultima lettera di Porthos. Che apre con la trascrizione della registrazione di una tavola rotonda su I Vini Senza Solfiti prodotti da Dart Fener Riccardo Cotarella (nota 1). 
E, poco sotto, ZAC... quei furboni di Porthos ci infilano una miniatura di Sandro Sangiorgi intitolata "Solforosa (Quasi) Zero". Leggetela. Si parla di equivoco, ignoranza, superficialità. Si parla di "...opportunismo con il quale alcuni enologi di grido hanno cambiato idea..." Sangiorgi parla di quel blackout del ragionamento che porta molti all'associazione "assenza di solforosa aggiunta=essenza della naturalità". Una medaglietta da mettere sul petto dell'industria per ricandeggiarsi la coscienza e ricompilarsi il curriculum in verde. E parla, puntualizza, dà la stoccata finale invitando a sviluppare la "...capacità di cogliere un vino sano." 
Ed è vero. L'aspetto della solforosa è uno e vale per uno (io ne scrissi qui). E' un ingranaggio tra i 100 per arrivare da qualche parte. Non innesca e non dimostra niente se non un'attenzione verso la salubrità del prodotto. E' una delle tante conseguenze di un pensare biologico/artigianale che vuole sanità e benessere per sé e per gli altri, di un ragionamento su cosa si vuole fare per produrre un vino sano, buono, col minor impatto possibile sull'ambiente. Una delle tante conseguenze. Come l'uso di lieviti autoctoni. 
I lieviti. 
Se ne parla meno o, perlomeno, c'è una percezione meno diffusa dell'importanza dei lieviti. Eppure importano. Eccome.

SOTTOCAPITOLO 1: E ADESSO QUALCHE ESEMPIO PER CAPIRE MEGLIO DI COSA SI PARLA E DOVE ALLA FINE SE NE CAPIRA' MENO DI PRIMA
Qualche anno fa ero ad una verticale di un vino che amo molto in un posto che amo molto e con presente il produttore (a cui voglio molto bene). 10 annate dalla prime prove da garage alle ultime bottiglie fatte sempre in garage ma con maggiore consapevolezza. E almeno 3 campioni assoluti, parametrizzati sopra i 90/100. Vini prodotti in biologico fino a un certo punto e poi in biodinamica. Vini che conoscevo discretamente bene essendomi scattata una sorta di Sindrome di Stoccolma dalla prima volta che ne assaggiai una bottiglia. Ma di cui non avevo sviscerato fino in fondo le evoluzioni produttive. Cioè, andavo in cantina, giravo per le vigne, assaggiavo dalle botti, pensavo/dicevo "Questo è buono, questo meno, questo te lo rubo dopo averti colpito in testa...", cose così. Ma quella sera il produttore è stato presentato alla sala, ha salutato e ha iniziato a spiegare com'è arrivato a fare vino e quali tortuosi percorsi ha seguito. Gioie, affanni, paure fottute. Guardare l'uva e scagliarle un martello e dire: "Perché non mi parli?" Pensare: "Che bella uva. Adesso solo io posso mandare tutto a puttane." E viene fuori quello che per lui è stato il salto decisivo. Il suo triplo carpiato. Il passaggio alla biodinamica e ai lieviti autoctoni. Inizia a parlare della prima volta che non ha usato quelli selezionati. Che possono essere tuoi buoni amici, quelli che ti rendono la vita facile, che ti prendono da parte e ti dicono che ci pensano loro, che non ti devi preoccupare, che puoi andarti a fare un giro. "Facciamo tutto noi", ti dicono. Questi amichevoli lieviti selezionati sono belli e bravi, ti fan partire la fermentazione, ti seccano tutto in un secondo, ti mettono il vino su un vassoio d'argento. E hai bisogno d'altro? No, perché se vuoi, ti aggiungono anche qualche aroma. Vuoi più banana? Meno banana? Che ne dice il signore di un bel tripudio di frutta tropicale? La mettiamo?
Dietro una cosa facile, c'è facilmente una fregatura. Così ha pensato l'agricoltore che è in lui. Si è informato. Ha chiesto. Ha osservato. E un anno ha deciso. Basta aggiungere lieviti. Ha pigiato l'uva e si è messo ad aspettare. E si è quasi letteralmente cacato addosso (=molto spaventato). La fermentazione partiva e si fermava. Lui con la bustina dei lieviti amici in mano. "Usaci", gli dicevano. Ma lui ha resistito. Ha dormito poco. Si è grattato tanto la testa (adesso è quasi calvo). Ha calcolato mentalmente quanti ettolitri di quasi-vino avrebbe buttato nel cesso. Il giudizio su sé stesso oscillava tra il genio e il coglione. Ma alla fine è partita (la fermentazione). E dopo tanti anni era lì a raccontarci il lieto fine. E di come i vini fossero migliori. Più ricchi. Più stabili. Di come quel salto nel vuoto (metaforico) fosse stato importante concettualmente e materialmente. Ora era un viticoltore più felice.
Applauso. Poi torno sui vini, me li ringollo tutti e faccio i miei conti. E il grafico mentale della serata portava a questa conclusione: 2 su 3 dei vini migliori erano dell'era pre-lieviti autoctoni. Ho scrollato le spalle. Mica si può capire tutto subito. Anzi, mica si può capire tutto.
Qualche anno dopo. Sono a cena con Kurni, Kupra e Casolanetti. A me Kurni piace tanto. A volte tantissimo (2004 e 2005). A molti non piace. Lo stappano solo per il gusto di berne un goccio, fare la faccia schifata e buttarlo nel lavandino. Qualcuno mi ha detto che fa così. Mi ha detto che è tanto, troppo. Che è dolce. Che costa troppo. Che non è fatto per essere bevuto. Che sembra olio-motore. Che è proprio il concetto che è sbagliato. Che con un po' d'acqua gassata va giù meglio. Sono gusti. Preferiscono l'eleganza. Che non è chiaro cosa sia. Forse l'equilibrio. Forse la sottigliezza. Forse qualcosa che non ti turba. Forse una cosa con meno sapore, un buco con del pensiero attorno. Non lo so. 
Casolanetti è un Mago Merlino. Però meno quello della Disney e più quello di Excalibur. E' un chimico new-age. Sa un sacco di roba. Beve il mondo e Kurni vuole conquistare il mondo. Vuole giocare in Champions League, anche se viene da una zona che è (era) serie B. Eccheccazzo, se fai un lavoro e ti piace, dovrai avere qualche ambizione. 
Comunque. Si parla di reazioni chimiche. Di cosa ti piace bere. Di legni. Di Rodano. Di solfiti. E di lieviti. E dico di quel produttore amico e del passaggio agli autoctoni. E butto lì la cosa dei vini buoni coi selezionati. Casolanetti dice: "Attenzione!" Se Casolanetti dice Attenzione, io sto attento. Il fatto è che il passaggio ad un uso dei lieviti autoctoni non è automatico e, soprattutto, non avviene dal mattino alla sera. I lieviti sono tenaci. Sono bastardi. Possono rimanere nell'ambiente per anni. Possono incrociarsi e rimanere attivi. Sono come gli acari: non li vedi ma ci sono. Mica che ti rovinano tutto. Non c'entra. Si ricombinano. Ma a volte pensi che non ci sono più. 
Ma porcaccia la miseria. Ho pensato. E adesso che si fa? ho detto.
Niente. Ha detto Casolanetti. Bevi quello che ti piace.
Tanto le chiacchiere stanno a zero (solforosa).

CAPITOLO 4TERROIRISMO: PENSIERO E AZIONE

Torniamo sull'eleganza. E' una bella parola. Fuffosa. Cioè, morbida e generica. Ci si può infilare dentro quello che si vuole. Mica da tutte le parole. E l'altra parola fuffosa è terroir. Ne scrissi già qui (sono molto soddisfatto delle 3 ore che persi a fare l'immagine a inizio post). Facciamo del casino e infiliamoci dentro anche le parole territorio e tradizione. E' chiaro, sono la sacra Trimurti del vino. Le mischiamo tutte insieme e ci aggiungiamo un viticoltore virtuoso ed ecco fatto il vino. Cioè, mancano le uve. Quelle uve che tradizionalmente stanno in quel territorio e che si esaltano nel terroir. Che da decenni stanno lì. Una zonazione pre-scentifica, la pratica empirica che ha portato quella uva ad esaltarsi in quella zona. Che bello. 
Ma c'è un problema. Il problema è che siamo in Italia. Mica in Francia (nota 2). Noi, che per mentalità cementificheremmo pure i parchi nazionali e le lettiere per i gatti. Noi che dalla fame vera del dopoguerra siamo esplosi selvaggiamente e abbiamo fatto tante cose belle, un frigorifero in ogni casa e la Dolce Vita. Che le industrie andavano che era una bellezza e gli imprenditori giravano con borsoni pieni di lire. Che la modernità s'era conquistata a bastonate e Big Pharma diceva Spruzza Produci e Crepa e il contadino moderno spruzzava e spruzzava e spruzzava. Che dalla fame è un passo arrivare alla bulimia. Che si è spiantato tutto lo spiantabile e si è macchinizzato tutto il meccanizzabile. Che vecchio era una parolaccia e s'è sputtanato un patrimonio di vigne storiche nel nome dell'iperproduzione. Noi che siamo quelli dell'Iper e dell'Ilva.
Ma, stranamente, qualcosa ne è uscito vivo. Qualche territorio ha preso bastonate su bastonate ma ha resistito. Che strano. Il territorio è una tegna. Qualche uomo ha iniziato a ragionarci sul territorio, sulla terra. Raggiunto un colmo, si è iniziato a svuotarlo. Qualcuno ha iniziato a studiare e qualcuno è andato solo a sentimento. Qualcuno ha salvato vecchi vigneti. Ha pensato prima di tutto a ridare vita alla terra. Ha pensato al gesto più antiretorico che potesse fare e quel gesto era la preservazione di un territorio, anche solo di un giardino. Forse si è solo rotto le balle di tutto. Forse è solo quello sapeva fare.
E se gli chiedi, Cos'è il territorio?, prima ti racconta cos'era quel posto in cui sta lui qualche anno fa e sembra tutto un horror giapponese, e poi ti parla di cosa è adesso e vedi una luce in fondo al tunnel. Vedi una prospettiva e vedere una prospettiva a volte è grasso che cola.
Il territorio non è niente. La tradizione non è niente, non qui, non dopo quello che è successo. E' qualcosa che IO definisco col mio lavoro. Il terroir siamo io e le mie vigne. Ecco cosa ti dice.

CAPITOLO 5: DEGUSTAZIONISMO ED SENSAZIONALISMO

Chessò, a me piacciono le chiavi a brugola, vado matto per le brugole (e, di conseguenza, sono matto e basta), le brugole sono la mia grande passione e so che è una passione minoritaria, cioè, lo so che siamo pochi, ma tant'è, vivo quasi per le brugole e vado ogni mese nella mia edicola preferita e mi faccio dare la mia rivista preferita, "Brugola Oggi", e sono tanto contento perché ci sono tanti approfondimenti e interviste a chi fa le brugole e recensioni, un sacco di recensioni di brugole. Ma poi un giorno apro la rivista e scopro qualche articolo di colore, gossip e minchiate varie, e penso che intanto deve essere dura fare del gossip sui produttori di brugole ma, dopotutto, non c'è niente di male, magari lo fanno per ampliare il pubblico che di soli amanti delle brugole non si vive, pazienza, salto quelle pagine e vado al sodo, alla ciccia, alle recensioni, voglio sapere le ultime produzioni, voglio i soliti test di resistenza e i giudizi, e il brugolista che è in me ha un leggero moto di sconforto perché sono state quasi tagliate, ridotte, messe in fondo, emarginate. "Ma che succede?" penso mentre sfoglio il giornale sul cesso (=toilette).
Ecco. Sostituite Brugola con Vino e Edicola con Web e continuate a chiedervi "Ma che succede?".
Se lo sono chiesto in questo post anche i ragass di Slowine. La loro domanda ha una base di partenza opposta ma l'approdo è uguale. Dicono, noi pubblichiamo tante cose tra cui tante degustazioni ma questi assaggi acchiappano poco, le leggono in pochi e non ci sono commenti (ed è un vuoto pneumatico quando succede, ma, riflettendo, scatta la nota 3) e non capiamo perché, forse perché le riunioni di redazione si svolgono da ubriachi, ma non è questo il punto e noi vogliamo saperlo il perché, come dire, assaggiare vini e spiegarli è una parte discretamente importante di un sito che parla (appunto) di vino. E per non rompersi la testa contro un muro a forza di pensarci, hanno democraticamente pensato di chiedere dei pareri a dei masticatori di web, a gente che c'ha i tabulati coi contatti-al-minuto sotto il cuscino e qualche calcolo l'ha fatto e s'è dato una risposta. La prima risposta è quella che vale e la prima risposta è quella di Alessandro Morichetti di Intravino. Morichetti parte col botto: "Le note d'assaggio in senso stretto sono mediamente poco interessanti." Il botto mi è arrivato in piena faccia. E' che sono un feticista delle note d'assaggio. Naturalmente Morichetti articola il suo pensiero e io sono già in posizione fetale a proteggermi: "Aiutano uno spunto preciso, una dritta [...] Funzionano assaggi particolari, batterie miste [...] Se tu autore stimoli, toccando qualche corda che mi interessi pur non avendo magari assaggiato il vino, io lettore raccolgo l'invito [...] E' molto importante dare un taglio immediatamente percepibile da parte del lettore..." Poi ci sono altri. E un altro passaggio che mi ha fatto scattare un campanello. Ed è Franco Ziliani che dice, tra l'altro: "[...] da me forse la gente si attende il sangue e quando parlo bene di una cantina il dibattito si ammoscia." Ziliani passa per uno incazzoso, uno che ti aspetteresti in pantacalze e camicia a sbuffi per sfidarti a duello all'alba. Uno che ha una riconoscibilità gustativa ed è una cosa enorme al giorno d'oggi, anche se i suoi parametri non sono i miei. E qui riflette sulla pruderie e sul sensazionalismo, sul fatto che sul web è meglio (è meglio inteso quantitativamente) dare mazzate e usare il sangue come esca per il pubblico/squalo.
Tutto ciò ha un fondo di verità e stimola . 
Ricapitolando: ci si chiede se è vero che parlare di vino bevuto interessi meno del vino parlato; si riflette su come attirare visite e/o commenti; Morichetti dice che bisogna stimolare stimolare stimolare (è il verbo dell'anno in un mondo supposto ad encefalogramma piatto) toccare qualche corda, e la corda da toccare può essere un vino famosissimo o sconosciutissimo o valloacapire, e ci vuole un taglio percepibile e il taglio percepibile sarà lo stile (fresco, disincantato, agile, stringato, non matusa); Ziliani constata che quando picchia, c'è il picco; gli slowiners fanno mea culpa sui termini astrusi e complicati e cercheranno una via lessicale e contenutistica che possa piacere di più e, magari, sono pronti ad inserire le valutazioni, le faccine, massì, pure i voti se servirà a mantenere più alta la soglia dell'attenzione che sul web (questo non lo dicono ma scommetto che lo pensano) è quella di un bambino affetto da ADHD.
Insomma, ci si chiede un World Wine Web For Dummies. E io, nell'autorevole rappresentanza di me stesso, ci metto la faccina: da lettore lo stimolo mi arriva quando si parla di produttori e di vino e dalle due cose capisco come lavora il primo e com'è il secondo, altrimenti sul gossip e la presa per il culo (=ironia greve) lo stimolo mi porta dalle parti della toilette; lo stile per me è tutto perché lo stile è il veicolo culturale dell'interlocutore e se lo stile non è solo una cortina fumogena prodotta dall'ego, allora va dritto al punto e rende piacevole e chiaro il concetto (e mi vanno bene tutti, dal neo-minimalismo al reportage poetico, dal barocco al classico, anche la slenzuolata descrittiva); se allo stile si unisce l'autorevolezza (vedi cap. 2), ti leggerò sempre e seguirò i tuoi consigli per gli acquisti; a me piacciono i termini astrusi e complicati e come diceva un mio caro professore prima di bacchettarmi le mani, se non capisci una parola e ti senti un cretino, può anche darsi che quella parola sia sbagliata in quel contesto o sia usata a sproposito o sia solo uno sfoggio onanistico di bravura, ma nella maggior parte dei casi non è così e basta un vocabolario e vedrai che sentirsi un cretino può essere un'occasione di arricchimento; e si, viva la squola e rivoglio i voti.

Nota 1Un uomo/gatto che vogliamo ricordare per le sue 7 vite, un piccolo Buddha capace di reincarnarsi in qualsiasi cosa nell'arco dello stesso mese (giorno), Mister Merlot, l'uomo che trasforma l'opinione in un disturbo bipolare, che prima smutanda chi non mette solfiti e poi si fa fotografare sorridendo mentre fa un rogo di solfiti, l'enologo italiano più famoso del mondo e di questo gli siamo grati (davvero), uno sdoganatore del vino italiano. Cioè, di un certo tipo di vino italiano, dimostrativo e da competizione, hulkizzato e rassicurante tutto insieme. Fate i compiti a casa il prossimo week-end: mandate affanculo il mutuo e comprate un Terra Di lavoro, un Montevetrano, un Montiano, un Sangiovese Avi, un Aglianico Contado; riempite il frigorifero; spegnete il telefono e mettetevi comodi; versate i vini; cercate di finirli entro domenica notte. Buona fortuna.
Nota 2: i mangiarane e la loro grandeur carogna capace di infiocchettarti per bene della merde e di vendertela per qualche migliaia di euro, grandeur, però, che ha un'altra faccia della medaglia e cioè la valorizzazione dei patrimoni, e in questi patrimoni sono compresi da un sacco di tempo anche le vigne risparmiate così dalla furia modernista e studiate per benino, magari sparandoci sopra paroloni e fumo ma intanto le vigne sono là e molto più che da noi.
Chiamatela lungimiranza o puzza sotto il naso, il risultato non cambia.
Nota 3: bisogna capire il vero senso dei commenti e il senso del bisogno di commenti. Uno scrive una cosa e parte la saga del commento e a volte sembra un redditometro sulla popolarità (tanti commenti=tanta gente che mi legge). Ed è una cosa mediamente piacevole ricevere riscontri che non siano i freddi numeri di una statistica di visite. Uno ti dice Bravo, mi hai fatto riflettere e tu rispondi Grazie sono qui per questo, e va bene. Uno ti dice Cane, cambia mestiere e tu dici Grazie e ti appelli al 1° emendamento e lo distruggi con la tua sottile ironia o maledici lui e la sua famiglia per 3 generazioni. Normale dialettica da web. Ed è una cosa ancora più piacevole quando arricchisce, stimola il dibattito (come siamo anni '70), mette un circoletto rosso su un errore o un errore di interpretazione, quando da A porta a B e capisci che un testo, anche solo un piccolo post, quando è fatto bene, è una struttura rizomatica, innesca cortocircuiti di pensieri che portano in mille direzioni. 
Con questo, a livello generale, la struttura post→commento→controcommento è mediamente sfibrata passando dal cordiale scambio di saluti autoreferenziale all'invettiva anonima, è un open space di gente mascherata che regredisce al livello del nessuno-mi-vede-e-allora-faccio-il-cazzo-che-mi-pare (e la cosa non è così, come direbbe Rodotà, non esiste anonimato reale sul web a meno che tu non sia l'hacker degli hacker). Così, per sport (appunto), leggetevi qualcosa su Gazzetta.it e immergetevi in quel gran puttanaio che sono i commenti, con un moderatore che sarà 24/24 al bar a cazzeggiare o nessuno lo ha informato che è lui il moderatore, con tutti che si dicono le peggio cose, Ribaldo93 che inveisce contro Juvedoc70, avvocati in gabardine a cui parte un embolo nel cervello e iniziano a sfanculare dei ragazzini o forse degli altri avvocati con nickname assurdi, qualche timido delirio su chi si dovrebbe comprare la Salernitana. Lo chiamano Spicchio delle Mie Brame del Paese Reale. 

domenica 16 giugno 2013

KF [kitchen fight]

 
Guernica, Pablo Picasso.

Tramontato l'intrattenimento pirotecnico del flambé al tavolo, 
chiusi in cantina i carrelli dei dolci e dei formaggi (inaspettato avvistamento l'ultima volta qui assortito tanto da soddisfare i tutti i miei capricci), 
sparite anche le esalanti pietre laviche e le architetture in bellavista.
Tanto altro è mutato nel panorama della ristorazione italiana negli ultimi vent'anni: 
la panna è rimasta ai dessert, le marinature non si fanno più negli acidi ma a secco in sale e zucchero, si rispetta la stagionalità, il prezzemolo ha lasciato la scena decorativa a germogli, zeste di agrumi e fiori eduli.
Cannelli, sifoni, termometri, macchine sottovuoto, abbattitori e forni a vapore sono i nuovi strumenti cult.
Il rispetto per le fibre delle carni è diventato etica.
Bandite le braci,
tutto viene imbustato in polietilene, aspirato e cullato per ore da tiepide acque, abbattuto e tenuto in stand by,
fino alla rigenerazione pre servizio, magari due giri in microonde, rispettosamente a vapore, o velocemente in padella per un'accattivante rosolatura.

Innovative tecnologie che mantengono salubri gli alimenti, al riparo da contaminazioni e moltiplicazione microbica aerobia, fissano i colori, preservano dall'ossidazione e le caratteristiche organolettiche, ne condensano i sapori e i profumi.
Il sottovuoto nulla può contro le spore di Clostridium botulinum, prima del consumo gli alimenti dovrebbero subire pastorizzazione.

Ma qualcosa forse si è perso:
"l'elemento croccante" oggi si aggiunge, la glicazione proteica (reazione scoperta nel 1912 dal chimico francese Louis Camille Maillard) ha come corollario l'imbrunimento tipico della crosta del pane o della rosolatura e lo sviluppo di sapori e aromi caratteristici, dovuti anche ad intermedi di reazione, che identificano il sapore di prodotti da forno, carne e pesce.
Si guadagna una consistenza e una succosità delle carni impossibile da ricreare altrimenti.


L'avanguardia molecolare non esiste senza texturas, esercizi che sfidano le leggi della fisica, allusivi, strabilianti, a volte infantili e ludici, forse per far leva sulla memoria sensoriale.

Solo pochi grandi Chef riescono a conciliare ciò con il rispetto degli ingredienti, preservandone l'identità, riducendo al minimo manipolazioni che ne stravolgano i connotati.

A questo si contrappone un ritrovato desiderio di prendere contatto con la materia alimentare.
Sarà che in periodi di crisi si riscoprono i valori, sarà che siamo un popolo geneticamente di gusto esigente, ma alle insane insalate in busta rispondiamo con l'orto in vaso, andiamo a caccia di uova di pollastrelle felici, aborriamo il pane che arriva stantio a cena adottando il lievito madre, bandiamo le merendine industriali e cerchiamo frutta maturata sull'albero e ortaggi poco fotogenici ma dal sapore autentico.

Ci sono esigenze organizzative, gestionali, operative che rendono la tecnologia alimentare imprescindibile nell'alta ristorazione, necessaria per la replicazione esatta e per il mantenimento degli standard.
Da una cena gourmet pretendiamo emozioni sensoriali e viaggi pseodolisergici.

Della cucina espressa resta l'olografica memoria degli effluvi che ti accolgono sulle scale di casa, che attivano le papille gustative e l'appagante rilascio di dopamina.

Negoziati aperti tra estro inventivo e tradizioni gastronomiche che il mondo ci invidia.

Rossana