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martedì 30 novembre 2010

brisaolavalchiavennaslinzigamagatellosottofesapuntaanca



Carrissimi
Come ho anticipato in vari interventi, un ispiratore del mio blog è stato Rosario Levatino, Palermitano dop, salito sino al Nord per rinfrescarsi dalle calure siciliane e ivi stabilitosi.
Cinque anni fà ha aperto un negozio di eccellenze gastronomiche a Torino in c.so Tassoni 59/d col nome di Sapori d'Italia.



brisaola sottofesa
Cinque anni travagliati sia per la posizione del negozio leggermente marginale rispetto ai flussi sia perchè ha dovuto costruirsi una identità e un repertorio consolidato di prodotti con un occhio ai prezzi perchè di fatto è un negozio di quartiere dove si fà abitualmente la spesa tutti i giorni.
La sua curiosità e un talento innato nel scegliere salumi di qualità mi ha riportato nel tempo a comprare prosciutti, salame, lonza, brisaola, mortadella, salsiccia molti di questi prodotti hanno almeno una promessa dei profumi e sapori d'infanzia. Ieri sera dalla vetrina ho intravvisto il filetto baciato, altra specialità impagabile dell’alessandrino di una bontà celestiale.
Rosario da un po’ di tempo si fa arrivare delle Brisaole della Valchiavenna di pregio, realizzate da carni fresche con procedimenti artigianali, con lieve affumicatura tipica della Valchiavenna e con tagli classici da un salumificio artigiano locale.
I tagli classici ci racconta Rosario sono il magatello, la sottofesa leggermente marezzata di grasso più intensa e suadente, la punta d’anca taglio classico senza grasso e la slinziga di piccola pezzatura da affettare a coltello a casa con gli amici e un bicchiere di vino.
La Brisaola della Valchiavenna è la più delicata e magra dei salumi crudi Italiani da pezzo intero, si trovano sensazioni di succulenza, tendenza dolce, grassezza, delicata aromaticità e delicata sapidità.
Qualora aggiungiate abbondante limone alla Brisaola nessun abbinamento con il vino può funzionare altrimenti gli abbinamenti della tradizione sono i vini giovani rossi a base chiavennasca (nebbiolo) della Valtellina.
Io ho provato in alternativa un Cirò rosato 2009 di Librandi giovane, profumato di frutti rossi con bocca moderatamente corposa e sgrassante.

Un Soave di Portinari 2006 Albare intenso con profumi minerali, frutta gialla matura, mandorla, sostenuto in bocca con alcool sugli scudi e discreta lunghezza ottimo sul sottofesa.



Un Maria Elisa Rosè di Negro 2007 Metodo Classico a base Nebbiolo con colore buccia di cipolla, fragrante intenso, affilato e sgrassante da sottofesa.



Un  Verdicchio di Matelica Collestefano 2007 vendemmiato senza surmaturazioni, intenso ma esile, verticale con acidità segnata e grande bevibilità.



una malvasia frizzante di Medici Ermete la Daphne 2009 splendido vino gastronomico aromatico, esuberante con delicato amaricante finale, da berne a secchiate, per me numero uno con la Brisaola.
Condite con olio Extravergine Foglini e Amurri da  Ascolana Tenera e abbinate il tutto a crostini di pane integrale.



buona degustazione
luigi                                                                                                                  

lunedì 29 novembre 2010

enotecabordoparadisodeibevitorimassavecchiaorangewine

E’ domenica, abbiamo lasciato il somellier di due anni e mezzo dai nonni (che verrano ricompensati con salatini e Zibibbo secco di Barraco e che volevano essere citati nel post).




Nevica, sembra destino che le nostre venute al Bordò siano segnate dal freddo e dal maltempo.
La prenotazione è stata persa.
Meglio! Ci mettono in vetrina in un salottino con poltroncine molto New York e vista sulla piazzetta Corpus Domini.
Il Bordò d’altronde è un Bistrot New Yorkese alla bagna cauda.
Carta dei vini eccellente, c’è molta ricerca e voglia di mettersi in gioco.
C’è tutto quello che avrei voluto bere in questi giorni.
Mi consulto con mia moglie poi con Chiara Bordonaro, cogito, mi dispero per le esclusioni e poi scelgo:

Massa Vecchia bianco 2005. Massa Marittima (GR)
Vermentino, malvasia di candia 13% vol.
Oro di colore, profumi di salmastro iodato su una struttura di erbe officinali in bocca è un vino fresco, con ritorni retronasali di Jerez, distillati e macchia mediterranea, con un velo tannico leggermente asciugante.
Non imponente nella struttura ma snello, sicuramente rinfrescato da una volatile alta e da poca glicerina (spesso i vini macerati e vinificati senza controllo delle temperature tendono a “smagrire” di glicerina che ci ricordano i microbiologi è un sottoprodotto della fermentazione indice di una sofferenza dei lieviti).
Vino complesso e complicato, vinificato in rosso con lieviti di cantina e macerazioni in fermentino tronco conico di legno e successisa maturazione in legni usati di varie capacità, rigorosamente non filtrato.
Discettavamo con Chiara Bordonaro dell’enoteca Bordò che è vino gastronomico, da abbinare al cibo, magari una trippa in bianco.
Con paccheri ai frutti di mare ci riporta a sensazioni di battigia e profumi di reti appena alate e sciabordio del bagnasciuga.
Un dubbio resta dopo aver bevuto tanti bianchi e aver parlato ultimamente con Luigi Boveri e Alvaro Pecorari che sono contrari alle macerazioni e ai lieviti di cantina.
Cosa si vuole dai vini bianchi?
Profumi?
Allora, forse, le macerazioni spinte e i lieviti di cantina (autoctoni) li mortificano.
Sapori?
Ma con cibo in bocca o da mera degustazione?
Se da degustazione solo, meglio i tradizionali più densi e glicerici.
Capacità di abbinamento?
Allora le lunghe macerazioni irruvidiscono la trama del vino, la struttura con meno glicerina lo rende più affine al cibo, lo sgrassano, lo contrastano con efficacia e lo integrano nella percezione organolettica.
Nel dubbio io ne bevo uno tradizionale alternato a un “orange wine” (come li definisce A.Scanzi mutuando il termine dagli anglofoni).


Massa Vecchia bianco è ovviamente un vino giallo “orange Wine” e arriva dalla Toscana anzi dalla Alta Maremma a Massa Marittima (GR), l’azienda è fieramente biologica a ciclo chiuso.
Il vino è buono ma come tanti della nouvelle vague corre sul binario a fianco (convergenze parallele?) degli altri ed è difficile (per i bianchi sopratutto) dare un giudizio.
Bevetene poi mi fate sapere.


Luigi


P.S:
uscendo, mi porto via l’Ageno de La Stoppa e il Langhe Bianco di Nicoletta Bocca.
Vi farò sapere.
Volevo prendere anche il Sacrisassi bianco ma la vergogna e la pecunia mi hanno fermato.  


sabato 27 novembre 2010

franciacortadocgsatenchardonnayenricogattierbuscobrescia

Carissimi
Dopo la cena a base di Champagne e Foie Gras ho avuto delle derive scioviniste, quindi sono sceso in cantina e ho lungamente spulciato tra le riserve spumantistiche (ahimè sempre più scarne) tricolori.
Ho prelevato con un certo imbarazzo e dispiacere l’ultima bottiglia di Franciacorta docg Satén 2004 di Enrico Gatti, Erbusco (BS).



Degorgement gennaio 2008.
Salgo in casa, i salatini erano pronti, stappo senza botto, bottiglia inclinata, tappo perfetto conferma mia figlia (due anni e mezzo e una esperienza da sommelier scafato), drop stop (io, confermo, sono un pervicace fautore dell’attrezzo in questione).
Verso, spuma non abbondante, perlage fitto, colore intenso giallo paglierino, uno spettacolo, naso di fascino, complesso, non lievitoso ma vino sul serio, minerale, profondo, fresco.
I quasi tre anni di separazione dai lieviti gli hanno giovato e non poco, si è evoluto con sicurezza assumendo colori e profumi adulti.
Per essere un Satén di solito giocati sulle morbidezze a cominciare dalle bollicine (pressione inferiore 4,5 atm), dal vitigno Chardonnay che ha geneticamente dei componenti aromatici che terziarizzano verso profumi vanillo-burrosi e dalla latitudine di produzione era ancora incredibilmente fresco, secco, giovane con una struttura ossuta ma importante giocata su binari paralleli di asperità organolettiche e vaghe promesse di morbidezza.
Minerale, leggermente lievitoso e agrumato in bocca snello, sapido e sgrassante, ricorda la Francia.
Bravo Enrico.
Peccato fosse l’ultimo.





Note di produzione dal sito aziendale:
costo sui 18 euro.
100% Chardonnay
Vinificato al 50% in fusti di legno usati e 50% in acciaio 6 mesi di permanenza sulle fecce.
Presa di spuma dalla primavera dopo la vendemmia per almeno 36 mesi e tre mesi di bottiglia dopo il degorgement.
Nessuna notizia sul dosaggio del liquer d’expedition.


Luigi



mercoledì 24 novembre 2010

champagnefoiegrasdoieperigordvalleedelamarnemeunier

Quelli che… lo sciampagn ma bello secco mi raccomando lo bevono sul dolce o ieh.
Quelli che… amano il Bloc de Foie Gras d’Oie e sotto sotto si sentono dei truci assassini ma lo mangiano lo stesso e godono o ieh.



Ieri sera, colpo di mano etico, salasso pecuniario e torno a casa con un vasetto di Foie Gras, d’oca ca va sans dire.
La gestione delle criticità casalinghe stempera i sensi di colpa, degli involtini di sfoglia tiepidi con salsiccia di Bra (cosette che crea Andrea Perino di via Cavour 10 a Torino, vi consiglio anche la focaccia romana a lievitazione acida, uno sballo) smorzano la fame lupina e in men che non si dica il pan Brioche è caldo e il vasetto freddo di Foie è in tavola.
Meno male che mia figlia è vegetariana con derive vegane, per cui assaggia ma non mangia il prodotto sublime dell’infamia.
Io mangio e mia moglie pure, con gusto e scarsa moderazione. Il dubbio lancinante è cosa bevo su questo splendore?
Ho preparato dal pomeriggio (e qui cadono le attenuanti generiche, è omicidio premeditato signor giudice) lo Zibibbo 2009 di Barraco, un Riesling Vdt del 1998 e su consiglio dei produttori di Champagne un Demi-Sec 1° cru, elaborée en foudre de chene in quel di Avenay Val d’Or da Yves Ruffin un viticulteur agrobiologist récoltant manipulant con tre ettari di vigneto nella Vallèe de la Marne (doveroso per chi non bazzica di vini sottolineare che il Demi Sec indica un dosaggio di zucchero di 33 fino a 50 g/l, un vino amabile).
Bolle per festeggiare ma ammetto che un dubbio sulla scelta enoica, aleggiava nella mia mente.
Stappo senza botto, bottiglia inclinata, tappo perfetto conferma mia figlia (due anni e mezzo e una esperienza da sommelier scafato), drop stop (io sono un pervicace fautore dell’attrezzo in questione).



Verso, spuma abbondante, perlage fitto, colore intenso oro verde uno spettacolo, naso di fascino, sentori di pietra focaia caramellata in scatolino di legno per sigari, con gocce di whisky, composta di frutta e leggero rancio.
La migliore scelta che potessi fare morbido ma con spina acida a rinfrescare e sgrassare, fustiga con l’acidità e le bollicine l’untuoso e blandisce con le morbidezze zuccherine e il corpo la tendenza dolce e l’amarognolo del fegato.
Rischio la banalità dicendo che è uno dei migliori abbinamenti mai provati (da me ovviamente e da mia moglie in subordine, con il diritto a dissociarsi), non c’è la stucchevolezza e/o l’aromaticità eccessivi dei passiti che talvolta mortificano la delicatezza del fegato né l’eccesso di durezza di un bianco secco che può far emergere l’amarognolo.
Demi sec a litri e Foie Gras a chili ma non ditelo agli animalisti.
Se proprio non ve la sentite provatelo con una torta di mele o una torta paradiso, non è la stessa cosa ma val bene una messa.
In precedenza avevo bevuto il Veuve Cliquot  Demi Sec ma l'Yves Ruffin mi è sembrato nettamente più complesso strutturato e godibile.
Lo Champagne Yves Ruffin in questione l’ho comprato a Briancon al comptoir Bio al prezzo di 26,00 euro.
Avenay Val d’Or è nella vallée de la Marne a pochi chilometri da Ay zona famosa per il Pinot Meunier e lo Chardonnay  che si è adattato molto bene a queste condizioni climatiche estreme.
I vini di Ruffin si affinano tutti in legno, alcuni in rovere (chene), alcuni in acacia (anomalo in Champagne), fanno la malolattica ma non si sa nulla del dosaggio di expedition.



Bonne degustation

Luigi

lunedì 22 novembre 2010

BIO BIO

bio bio... che?
vado avanti imperterrito con la serie di approfondimenti sul bio logico e dinamico.
buona lettura.


6)Carissimi,
l’ultimo intervento, vi giuro!, e sarà sulle fermentazioni e gli affinamenti altre spine nel fianco del mondo enoico (non solo Bio) contemporaneo.
Prima di arrivare ai mosti premetto che è ormai è invalso l’uso di vinificare in “rosso”, ossia con macerazioni più o meno lunghe del mosto-vino sulle bucce, anche i vini prodotti da vitigni bacca bianca e questa tecnologia è stata reintrodotta principalmene dai vignaioli naturali, al più i timidi optano per macerazioni pellicolari o criomacerazioni sicuramente più delicate.
Forse è bene che vi ricordi che il vino è il risultato della fermentazione alcolica di mosto d’uva, durante questa fase funghi microscopici detti lieviti si nutrono di zuccheri, glucosio e fruttosio, sali minerali e danno come residuo alcool, anidride carbonica, glicerina, sostanze aromatiche.
I lieviti in varie fasi della fermentazione per via diretta o enzimatica, inoltre, agiscono sui precursori aromatici già presenti nelle uve e scindono i legami con gli zuccheri complessi, così il tipico sentore vegetale del cabernet sauvignon, del sauvignon blanc diventano percepibili mentre le uve di provenienza sono neutre.
I lieviti anzi le loro spoglie (fecce nobili) contengono, inoltre, sostanze che inibiscono lo sviluppo di batteri o lieviti indesiderati, una sorta di antisettico naturale. Per contro stimolano l’azione positiva dei batteri lattici che sono gli artefici della seconda fermentazione (una stabilizzazione biologica del vino) detta malo-lattica, fenomeno spontaneo che abbassa il contenuto di acido malico sostituendolo con il lattico che è un acido più “dolce” e gradevole del primo.
Le fecce nobili secondo alcuni produttori, sottoposte al fenomeno di autolisi apporterebbero minerali, estratto secco e nuovi profumi al vino per cui le si lascia nelle vasche e si fa una operazione detta di batonage, ossia si intorbidisce il vino agitandole e favorendone l’intimo contatto con il liquido.
I lieviti responsabili della fermentazione sono principalmente i Saccaromyces Cerevisiae (è una bieca semplificazione infatti si cominciano a studiare l’Hanseniaspora uvarum, Lodderoromyces elongisporus e Candida zemplinina), classicamente si sosteneva fossero presenti sulle uve, ormai si è certi che non si può parlare di lieviti di vigna ma di cantina.
Nelle cantine, in maniera incontrollata sono proliferati negli anni ceppi di lieviti (anche decine, vista l’alta variabilità genetica) che si inoculano spontaneamente nei mosti.
Da parecchi anni gli enologi per evitare le complicazioni derivanti dalle fermentazioni spontanee hanno sostituito i lieviti naturali (talvolta ingestibili) con degli inoculi, detti pied de cuvèe, di fermenti industriali controllati e tutti dello stesso ceppo.
Questa prassi è profondamente disapprovata dai viticoltori naturali i quali sostengono che sia necessaria una sinergia, una coevoluzione fra le uve, il mosto e i lieviti che determineranno il vino.
Recenti studi di microbiologia (sempre lei!) hanno rivelato che i ceppi in cantina sono instabili e sono funzione di parecchie variabili tra cui le condizioni climatiche, le temperature, l’umidità per cui i lieviti dell’inoculo naturale varieranno, sia come distribuzione quantitativa dei ceppi sia come sequenza con cui condurranno la fermentazione. L’inoculo naturale è composto, inoltre, da una moltitudine di lieviti, molti dei quali potenzialmente pericolosi, altri apparentemente inutili.


La fermentazione è condotta da svariati ceppi ad ondate successive e parrebbe che questi  lieviti “leggano” meglio le caratteristiche del mosto-vino in quanto coevolute nello stesso ambiente.
Il lievito industriale, deterritorializzato e standardizzato  “legge” sempre le stesse pagine del mosto-vino e ne ignora altre dando origine a prodotti più standardizzati, si esclude ,inoltre , la presenza di quei lieviti apparentemente inutili che però potrebbero arrichire (ad esempio per via enzimatica) il mosto-vino.
La risposta dell’industria è stata quella di selezionare i ceppi caratteristici delle varie aree produttive e riprodurli e quella studiare nuovi prodotti “miscela” (cioè composti da più ceppi) che si devono inoculare direttamente in tutto il mosto e non si può provvedere alla moltiplicazione in cantina con la pied de cuvèe, ciò vuol dire maggiori costi e maggior presenza nel mosto-vino di elementi estranei come i sali di ammonio necessari ai lieviti.
Il mosto-vino è un ecosistema che ha difficoltà a metabolizzare le addizioni di sostanze esterne, fatica a trovare un equilibrio interno e ciò può determinare anche uno squilibrio del vino finito o come nel caso dei sali aggiunti con i lieviti ad un deficit organolettico (diminuzione dell’effetto tampone).
Forse hanno ragione i vignaioli naturali, anche se bisogna ammettere che gli aromi fermentativi hanno durata breve ma non si può escludere che i lieviti naturali così compositi ed ancora sconosciuti apportino microelementi che abbiamo visto spesso danno “macro qualità” ai prodotti agricoli, nel sostenere che i vini ottenuti con lieviti industriali non sono complessi e sono standardizzati nel gusto.

Non è finita! Dove mettiamo il vino per il suo necessario affinamento? (abbiamo  già ignorato dove è avvenuta la fermentazione! Vasche in inox termo condizionate o no, fermentini tronco conici in legno, vasche in legno aperte stile Bordeaux, vasche in cemento etc.).
In un articolo recente sulle foreste di querce francesi dalle quali si ottengono i legni delle barrique emerge che il consumo è praticamente raddoppiato e gli attuali paladini della botte piccola, i Bordolesi, fino a dieci, quindici anni fa usavano legni vecchi e sostituivano solamente quelli esausti, ora ogni cuvèè che si rispetti viene “aromatizzata” in barrique  100% nuove con livelli di tostature e legni diversi.
L’argomento è veramente complesso e in realtà riguarda tutto il fronte enologico e non solo i “naturali”  versus “convenzionali”, come ricorderete è ormai una quindicina di anni che si dibatte sull’uso del legno piccolo per l’affinamento.
A riguardo un grande vecchio, l’enologo Giacomo Tachis (malgrado sia stato uno dei primi ad utilizzare la barrique) ricorda che la funzione dei vasi vinari è quella di stabilizzare il vino, non aromatizzarlo. Va fatta subito chiarezza l’inox come stabilizzatore è controverso perchè innesca le correnti galvaniche, è impermeabile all’aria ed è sensibile agli sbalzi termici.
Molto meglio ma ormai poco usate sono le vasche in cemento perchè permettono una buona microssigenazione, sono elettricamente neutre e hanno una grande inerzia termica.
Vanno bene tutti i vasi vinari in legno.
Nella permanenza in botte il vino si microossigena, stabilizza i coloranti (antociani), si defeca illimpidendosi insomma il vino tende a raggiungere un equilibrio e come ci dicono i microbiologi (sic!) le aggiunte esterne come tannini esogeni sia liquidi sia estratti, deacidificanti o acidi, nutrienti per i lieviti perturbano l’ecosistema in maniera anche significativa e solo grandi mosti-vini riescono a metabolizzarli.
Le barrique (mediamente 225 litri di capacità) fino al 2° passaggio rilasciano quantità di tannini molto significative e da quando è invalso l’uso di tostare le doghe in fase di assemblaggio della botte anche una notevole quantità di composti aromatici (causa poi dei profumi di torrefatto, pane tostato, cioccolato, cannella etc).
La barrique, inoltre, microssigena con più efficacia e rapidità (a meno di non usare il microssigenatore a candele di ceramica porosa)  e polimerizza gli antociani (coloranti) con catene più corte quindi più solubili e stabili di ogni altro vaso vinario; quindi il vino matura prima e ha un colore più intenso.
Il grande inganno perpetrato nei confronti del consumatore è quello di usare ed abusare delle Barrique tostate per aromatizzare il vino come se fosse un vermouth.
Le botti grandi, dai 1000 litri in su sono più spesse quindi meno porose, meno efficienti sui coloranti, non rilasciano tannini né composti aromatici; il risultato è un vino sicuramente più vero che sa di vino (nel bene e nel male) e che ha un colore un po’ scarico quindi un po’ meno a la page dal punto di vista commerciale.
Il Nebbiolo a noi tanto caro è uno dei vini che più di altri si è giovato dei servigi delle barrique per assumere un aspetto (aspetto non sapore!) moderno di grande concentrazione e colore profondo.
Queste osservazioni sono quelle che spingono solitamente i produttori naturali e quelli sinceri ad abbandonare le barrique a favore di botti grandi, del cemento e ora, su impulso di Josko Gravner, di grossi otri di terracotta interrati come si usava fare in Georgia culla della viticoltura.
I “naturali” cercano con ogni mezzo di evitare l’omologazione anche organolettica per promuovere un legame etico con la terra e il vino, di sicuro il loro non è un calcolo economico, gestire aziende naturali è più complesso e ci va grande sensibilità a fronte di costi maggiori e ricavi che non li compensano.



vino consigliato il Tenores 2005, Tenute Dettori, Sennori (SS)
da uve cannonau in purezza allevate ad alberello sardo con fittezze tra 5.000 e 7.000 ceppi ettaro non irrigato a Badde Nigolosu comune di Sennori (SS). Il territorio è collinare a 250 m slm compostao da terreno di roccia calcarea color crema sferzato dal vento di maestrale. Vinificato e affinato in cemento ha colore granato scarico, profumi intensi e complessi, corpo possente, alcool sovrabbondante 17% vol, caldo ma non bruciante, una volatile alta lo smagrisce e lo riporta sulla terra. Non è per neofiti. Verrebbe voglia di dire che è un vino vero senza nessun maquillage, vero sapore di territorio. Da bere almeno una volta nella vita. Io lo ho adorato. Altri non lo sopportavano.

Per chi ama leggere consiglio:
J. Nossiter, “Le vie del vino. Il gusto e la ricerca del piacere.”, 2007, Torino, Einaudi

G.Ascione, “Amico legno”, su Bibenda n°33,  febbraio 2010, pg 72





Per oggi può bastare.
buona bevuta e buona lettura
luigi                                                                                                              

sabato 20 novembre 2010

lisnerisalvaropecorarisanlorenzopinotgrigiosauvignon

Lis Neris alias Alvaro Pecorari il Friuli in un bicchiere.



Antefatto:
il 18/11 c.a. Alvaro Pecorari ha organizzato presso la sede AIS Torino una degustazione di suoi vini: tre Pinot Grigio, tre Sauvignon e due blend.
Tenterò di offrirvi un sunto dell’incontro che è durato quasi tre ore senza cali di tensione, sbevazzando assai bene e in ottima compagnia.
Leggo dalla guida che Alvaro Pecorari (personalità estroversa e passionale) ha alle spalle studi da architetto (si vede dalla grafica molto cool delle brossure) ma meno male che ha lasciato ad altri quel mestiere e ha preso le redini della azienda di famiglia.
Settanta ettari recitano le note informative, una enormità di piante (circa 350.000 pensate potarle tutte più volte l’anno), di terreni, di braccianti, di atrezzature in sintesi di responsabilità.
Il territorio, tema caro ai produttori, ai somellier, meno ai consumatori  è nella valle dell’Isonzo in provincia di Gorizia, un altopiano triangolare con Cormons, Mariano del Friuli e San Lorenzo Isontino come vertici, sub pianeggiante  composto da ciotoli di origine glaciale del quaternario, caratterizzato alla profondità di 4/5 metri da formazioni di lastre di conglomerati di pietre e calcare (una sorta di calcestruzzo naturale) che apporta alle radici che lo raggiungono minerali e riserve d’acqua.
Terreno povero e drenante capace di fare da volano termico (i ciottoli tendono a scaldarsi di più e a cedere il calore più lentamente della terra), temperature diurne mediterranee, mitigate dai venti freschi dei balcani che si incuneano dalla valle del Vipacco, l’Adriatico li vicino a mediare tutto senza l’inerzia elefantiaca del Tirreno che arroventa e non fa scendere le temperature neanche la notte.
Alvaro sei in paradiso, di cosa ti preoccupi? le piante in ambienti del genere tendono con l’andare degli anni a stabilizzare la crescita vegetativa e esplorano con continuità il terreno sotto di loro, innescano processi di simbiosi con il consorzio microbico che c’è nel terreno, protendono i pampini verso il sole senza arroganza, disciplinate, producono meno e lo portano a maturazione in tempo, si fondono con l’ambiente e diventano specchio del terroir.
Quindi come facevano gli antichi, noi dovremo parlare di San Lorenzo o Val d’Isonzo bianco senza preoccuparci delle cultivar che avete messo a dimora, perché noi beviamo il terroir e non la varietà.

Alvaro Pecorari


Giochino pericoloso, come ogni estremizzazione, che però ci permette di mettere sotto il naso il suo Sauvignon e non sentire l’archetipo aromatico della varietà ma il profumo del suolo, dei minerali, del vento, del sole e delle erbe spontanee dei vigneti.

Alvaro ci tiene così tanto al legame con il terroir che ha interrotto da anni il diserbo chimico, lascia l’interfilare inerbito e recide con una lama le radici avventizie superficiali che nulla apportano alla trama minerale dei vini.
Valuta la maturazione polifenolica e aromatica con la gas cromatografia? No. Assaggiando ogni giorno l’uva.
Incredibile per una società che ormai delega tutto alla scienza, nella pia illusione che dia delle risposte.
Se l’uva è “buona”, si vendemmia.
Nel dopo vendemmia Alvaro sterza e ha una deriva tecnologica (bisogna rendergli atto che ne è convinto e i risultati sono lì a testimoniare che un po’ di ragione ce l’ha), vinificazioni in bianco senza macerazioni (però lunghe permanenze anche dei vini base sulle fecce fini, good job Alvaro!), lieviti selezionati, azoto, fermentazioni e maturazione a temperature controllate in vasche termocondizionate (per la sua e la nostra serenità ha installato pannelli fotovoltaici che erogano circa 2/3 del fabbisogno di energia elettrica dell’azienda).
Unica concessione ai metodi d’antan è la maturazione delle selezioni che avviene in Tonneau usati per 10 12 mesi con batonnage.
Il  mosto-vino viene messo in botte a fermentazione alcolica ancora in corso e la finisce in legno.
Alt! i puristi del vino frenino gli ho chiesto che botti usa e lui mi ha detto che sono di quarto passaggio e quindi, come ci conferma G.Tachis, la cessione di polifenoli esogeni e sostanze aromatiche è nulla.
I vini quindi si microssigenano e compiono una maturazione ossido riducente che stroncherebbe molti prodotti e invece esalta le qualità dei vini di Alvaro.
Mi si perdoni un inciso un po’ tecnico, i vini bianchi solitamente non amano le maturazioni in presenza di ossigeno perché è una molecola molto aggressiva e tende a degradare i polifenoli e altri coloranti con gravi conseguenze per i vini, nel caso di Lis Neris (sebbene non sia l’unico) il processo di maturazione è assorbito con naturalezza e porta il prodotto a vette gustative inimmaginabili.
Malgrado lo strapazzo i vini hanno colori carichi ma non ridondanti con una spina di verde che ravviva e tonifica, sono brillanti anche se l’acidità non è l’unica arma al loro arco.

Longevità, parola oscura ai più quando si parla di bianchi, ebbene come i borgogna i vini di Alvaro sono pure longevi e raggiungono la mezza età con una freschezza atletica che forse non hanno nemmeno da giovani.
Il ragazzo si è messo a fare vini bianchi, buoni, di terroir, che danno il meglio dopo anni di bottiglia mentre i consumatori chiedono l’esatto opposto!
Ama le sfide e noi con lui abbiamo incrociato i calici.

Abbiamo degustato:
Pinot Grigio 2009, Gris 2008, Gris 2003, Confini 2008 (vendemmia tardiva di pinot grigio, traminer, riesling).
Sauvignon 2009, Picol 2009, Picol 2001, Lis 2006 (pinot grigio, chardonnay, sauvignon).



Tutti i vini degustati a mio avviso sono caratterizzati (forse per caratteristiche varietali ma io amo pensare che sia per influenza del terroir) più che dalla acidità, dalla mineralità prorompente quasi caustica che ha bisogno di un po’ di tempo per educarsi e ammorbidirsi.

I base sono ottimi ma dopo aver messo il naso nelle selezioni li dimenticherete.

Gris 2008 (fermentazione e affinamento in tonneau) infanticidio! Minerale con toni idrocarburici in sottofondo, mandorla al naso e in bocca, grasso ma con una spada amarognola che vivifica, complesso.

Gris 2003 (fermentazione e affinamento in tonneau) malgrado l’annata bollente il vino è appena pronto per il consumo, ha toni opulenti, una deriva burrosa con memorie di vaniglia e caramello al sale, frutti maturi, forse pepato, sfaccettato in bocca l’ammandorlato sorreggeva un corpo importante ma agile, lunghissimo e complesso.

Confini 2008 vendemmia tardiva di pinot grigio, traminer, riesling (fermentazione e affinamento in tonneau).
Ottimo forse un po’ internazionale, molto aromatico con frutti tropicali, litchie, salvia, in bocca un bel corpo, sapido da abbinare a noodle saltati nel wok con pollo, maiale speziati e lemon grass.



Premessa i sauvignon di Alvaro sono potenti di una mineralità sapida, per nulla varietali, comunque freschi (ma non con la spina acida dei Bordolesi), con polposità masticabile di pesche gialle mature, avvolgenti.

Picol 2009 (fermentazione e affinamento in tonneau) infanticidio! Profumi intensi di agrumi, di pesca, di erbe officinali, quasi balsamico, minerale in bocca lungo, avvolgente, caldo, “pescoso”.

Picol 2001 (fermentazione e affinamento in tonneau) il mio vino: mou come fondale con memorie di agrumi canditi, forse mentolato, idrocarburi, mineralità prorompente, intenso, complesso in bocca lunghissimo e suadente da abbinare al baccalà mantecato.

Lis 2006  blend di pinot grigio, chardonnay, sauvignon (fermentazione e affinamento in tonneau).
Memorie di Francia con la vaniglia e l’humus dello chardonnay, il burro, un po’ di affumicato, frutti maturi, in bocca rotondo, grasso, lunghissimo e pacificante.

luigi


P.S.
stamattina a pubblicazione avvenuta su "bevo dunque sono" di Roger Scruton, edizioni Cortina ho trovato una definizione calzante con i vini di Alvaro Pecorari.
"Per apprezzare il Borgogna (il vino di Alvaro) com'è veramente bisogna lasciarlo maturare per almeno cinque anni, dopo di che nella bottiglia ha luogo una strana trasformazione; il vitigno lentamente arretra lasciando in vista prima il villaggio, poi il vigneto e da ultimo il suolo."



venerdì 12 novembre 2010

londrachablisaisfrenkimonteedetonnerredrouhinsestriere

Carissimi,
mentre scrivevo il post dell’11/11/2010 ho ricevuto una mail di Francesco Marchio nella quale rispondeva ad una mia richiesta di  sua collaborazione nella stesura e ricerca di temi da proporvi.



Nella mail mi ha ricordato che stava cercando lavoro nella capitale della perfida Albione (Londra) e durante il colloquio, gli avevano chiesto lumi su uno Chablis  Montèe de Tonnerre che lui conosceva perché sostiene essere citato su un testo dell’AIS.
Nulla da eccepire, Londra è un paradiso in terra per i gastronauti enofili (contando su cospicue finanze), i Farmer market domenicali sono bellissimi, il Borough market il sabato e la domenica è un luogo incantevole, il formaggiaio Neal’s Yard Dairy  e la Fromagerie di Marylebone sono luoghi dai quali non si riesce ad uscire, il supermarket del bio Whole Foods Market merita una ispezione accurata, il reparto alimentare e le enoteche di Harrod’s, di Harvey Nichols e di Fortnum and Mason sono cose che noi umani non abbiamo mai visto, senza nulla togliere a certi Fish and Chips di Greenwich, a certi Gastro-Deli di periferia, a certe macellerie o enoteche di cui non ricordo più il nome.
L’unico rammarico è che “Frenki”  e con lui tanti altri, con l’accanimento che mette in ogni impresa avrebbe meritato un più fertile terreno a casa sua.
Che possa la perfida Albione forgiare un nuovo gioiello, nemo propheta in patria (tantomeno a Torino e aree limitrofe).
Come avevo già detto della serata del Bordò (peraltro consigliata proprio da Frenki) frasi slegate, eventi casuali in certe condizioni agglutinano senso e organizzano, momentaneamente, la casualità del flusso vitale.
Londra, Chablis, elogio dei vini bianchi (il mio post del 10/11/2010 che lui ha citato nella mail), cantine dismesse da ristoranti patrii in difficoltà, emigrazione di ritorno, Sestriere.

Un flusso che senza pudore definirei Joyciano ha cristallizzato senso alla mia cena del giorno prima a base di trota affumicata con olio extravergine di Foglini Amurri, insalatine di Cesana autoprodotte e Chablis del 2001.

Il mio Chablis è di Joseph Drouhin (negociant eleveur a Beaune, Cote d’Or, Francia) ed è del 2001, non proprio recente e proviene dalle cantine di un ristorante di Sestriere (Frenki ha lavorato per un po’ al colle), chiuso da qualche anno, datomi da Luciano Lantelme (che prima lavorava a Sestriere e domani apre il ristorante les ISCLES a Cesana T.se in via Ortigara 17. In bocca al lupo!) anche lui emigrato per anni a Londra. Tombola!



Joseph Drouhin è una portaerei della Borgogna decine di cru selezionati tra Chablis, Cote d’Or, Cote Maconnais, Beaujolais.
Questo vino malgrado sia un vino base a dispetto della considerevole età (il sito ufficiale ne consiglia il consumo entro cinque anni) ha ancora emozioni da regalare, l’acidità e la mineralità dello chardonnay di Chablis (qui usano un clone della Vallèe de la Marne resistente ai freddi della regione la più a nord della Borgogna) è presente e ha mantenuto fresco il vino con due sensazioni parallele e inscindibili: una florealità, frutto (pompelmo e sferzate citrine), mineralità fresche versus sentori evoluti di mou, affumicati, burro, croissant insomma ancora ottimo.
Riassaggiato il giorno dopo aveva perso molto naso. Peccato.

Buon viaggio Frenki
luigi

giovedì 11 novembre 2010

patatepotatoespommedeterrekartoffelnsolanumtuberosum

Montagna, montagna e ancora montagna nel mio cuore, davanti agli occhi e sotto le suole delle scarpe.
Non pago della fatica delle camminate ho preso in "affido temporaneo" un orto in paese che ormai catalizza le mie giornate di relax.


In un orto c’è sempre da fare e la natura poi di solito ti premia.
Di solito ti premia ma non sempre, con me il dio maya delle patate (Solanum tuberosum) si è accanito con una applicazione e metodo che hanno del diabolico.
Nell’orto il primo e il secondo anno sono venute male, colpa della scabbia (mi hanno detto i testi e gli esperti) dovuta al terreno infestato di micosi.
Non mi sono perso d’animo e ho cercato un luogo vocato (come direbbe un giornalista enogastro) sino a che un povero ignaro villano, mi ha ceduto parte di un campo a 1500 m slm in frazione Bousson (TO), vista splendida sulle cime innevate, lariceti, praterie di graminacee, sole, vento incessanti e caprioli che osservavano al di là della rete.
Avevo prenotato una sedia all’olimpo dei coltivatori di patate.
Con grave disappunto del legittimo proprietario avevo anche tempestato il campo con cartelli indicanti le cultivar messe a dimora (bonnote de noirmoutier, mayan gold, la ratte, charlotte, institut de beauvais), un “cimitero” a dire dei bifolchi.
L’attacco frontale degli ironici montanari mi aveva convinto sulla bontà delle mie scelte e sulla mia superba capacità di coltivatore controcorrente.
Mi sono spezzato la schiena per diserbare, a mano of course, per rincalzare le file (avevo sovrastimato le quantità) e per raccogliere prono nella terra basaltica e ghiaiosa i maledetti tuberi.
Pessimi anche stavolta, piccoli e di scarsa conservabilità.
Consultatomi con l’ortopedico, dopo una risonanza che sentenziava ernia discale s5 in d4 (come a battaglia navale) abbiamo deciso che le patate non erano affar mio.
Mi restano le insalate, gli zucchini (questi mi vengono benissimo), i broccoli (alti e bassi) ma le patate ho deciso di comprarle anche per porre fine agli sfottò degli indigeni.
Ho cercato un pusher di tuberi, fino a che ho trovato un vero poeta delle “Solanum tuberosum” uno dei pochi che non ride quando gli cito i nomi delle cultivar più strane anzi di solito dice che le ha già provate in campo.
Il nome del dio maya delle Alpi Cozie è Giuliano Vitton maestro di sci e agricoltore in Sauze d’Oulx (TO) 1.500 m slm, negli ultimi anni è stato coinvolto in una sperimentazione sul recupero di una cultivar storica della valle, la Piatlina di Cesana.
La Piatlina non la trovate perchè ha rese agronomiche ridicole e pezzatura piccola (forse è ancora virosata e non riesce a produrre) e poi è ancora nel protocollo sperimentale (io la assaggerò per voi e vi relazionerò).


Giuliano Vitton
Bisogna premettere che le cultivar di patate oggi coltivate, anche in montagna, sono per lo più frutto di recente selezione ad opera dei semenzieri spesso stranieri e, per esigenze commerciali, sono divise in classi di farinosità A, B, C dalla A compatta da forno sino alla C farinosa da frittura e purèe.
Le vecchie cultivar se ne fregano altamente delle nostre classificazioni e hanno talvolta caratteristiche intermedie in funzione anche dell’ altitudine a cui sono cresciute. Le patate di montagna comunque sono sempre più piccole, compatte e saporite delle omologhe di pianura.
Praticamente non esistono più le varietà italiane che si erano coevolute nel nostro territorio, si tenta ora, con risultati alterni e forse un po’ nostalgici di recuperare quel patrimonio di biodiversità.
A Torino al museo della frutta trovate delle maquette in gesso di decine di cultivar (rosse, gialle, bianche, viola, bicolore, sferiche, oblunghe) ormai scomparse che erano coltivate sul territorio piemontese.

Giuliano Vitton produce, per il nostro solluchero, una serie di varietà che meglio negli anni hanno dato prova di adattarsi alle condizioni pedoclimatiche dei suoi campi in alta quota rigorosamente non irrigati:

- La Ratte  (1870) patata francese piccola affusolata, gli anglofoni le chiamano “finger potatoes” tipica dell’arco alpino e della Mittel Europa, classe A, pasta gialla, compattissima, da forno, ecellente al vapore da abbinare alla Raclette.
- Corne du Gatte (1850) “finger potatoes” anglo/belgo/tedesca buccia rosa, pasta giallo chiaro,  classe A, compattissima. In edizione limitata, buonissima.
- Roseval (1950) francese buccia rossa, pasta gialla, forma ovale, classe A/B, ottima al forno, in padella home style e al vapore.
- Bintje (1905) olandese, pasta giallo chiaro, classe A/B, fritta, purèe, gnocchi
- Rossa di Montagna tedesca buccia rossa, pasta gialla, classe A/B multi uso sapore squisito eccellente nelle vellutate o nel preburgiu.
- Agria (1985) tedesca, pasta gialla, classe B, multi uso.
- Vitellote antica varietà francese a buccia viola intenso, polpa bluastra, classe B/C, molto scenografica usata per gnocchi colorati, fritta, al vapore. Sul sapore sospendo il giudizio.
Il nostro prode tiene le scorte di tuberi nelle cantine e nella stalla di una vecchia baita nel centro storico di Sauze d’Oulx (TO), la sola visita di quei luoghi merita il viaggio.
La Tartifla du Sauze di Giuliano Vitton, Via Assietta 11, Sauze d'Oulx tel 0122 858456 cel 339/4994794
Attenzione alla ZTL, informatevi prima di forzare i blocchi stradali!


Domenica scorsa dopo l’ennesima visita a Giuliano abbiamo preparato due merluzzetti in padella con capperi e pomodori secchi, accompagnati da piccole Roseval con buccia, passate in padella.
Il pesce dalle carni bianche, eteree a scaglie saporose si abbinava perfettamente con la compatta polpa delle patate dai sapori delicati di castagna.
Un pranzo del genere meritava un vino altrettanto “artigianale” come il bianco di Gaspare Buscemi, “Braide della Venezia Giulia”  IGT 2004, pinot grigio, chardonnay, sauvignon verduzzo friulano imbottigliato il 28 luglio 2005. Vinificato con sistema artigianale. 12,5 % vol.
Giallo paglierino intenso, profumi dolci di fiori, miele, mou, frutta matura, caldo in bocca con acidità delicata, mineralità discreta, sapido quasi salino, intenso, lungo con finale leggermente ammandorlato.
Un matrimonio d’amore.


per chi ama leggere consiglio:
M.Borgia e R.Caramiello,"Le Patate della Montagna Torinese", Torino, 2007, Neos edizioni


per chi crede di poterle coltivare:
naturwuchs catalogo on line di semi tuberini
luigi

mercoledì 10 novembre 2010

c'è post per te

C’è post per te
Se viene a cena una/o che beve solo bianchi d’annata leggeri e secchissimi?
Il giorno prima postatele/gli questo testo, forse non cambierà idea ma probabilmente non lo/a dovrete più invitare, gli “esperti” si seccano ad essere contraddetti.

Carissime,
la mia predilezione è per i vini bianchi, per cui ogni volta che gli amici enotecari mi dicono che fanno fatica a venderli non di annata e che la vendita di splendide e tonificanti bollicine si interrompe a gennaio, rimango perplesso e vagamente contrariato.
Il giusto atteggiamento sarebbe “non bere vini d’annata” (ad esclusione dei novelli e dei frizzanti naturali dolci, anche se certi moscati evolvono positivamente nei due anni successivi) perché:

1) possono essere organoletticamente sbilanciati per non avere ancora smaltito a livello bio-chimico i traumi della produzione e del trasporto.
2) anche chi usa poca solforosa la adopera proprio in fase di imbottigliamento per stabilizzare il  prodotto durante lo stoccaggio, il trasporto e la vendita. La solforosa dà forti emicranie che la permanenza in bottiglia mitiga (attenti ai Sauternès hanno quantità mirabolanti di solforosa).
3) anche vini apparentemente semplici, con un minimo di affinamento in bottiglia accrescono lo spettro aromatico e lo complessificano unendo ai profumi e ai sapori frutto-floreali, degli inizi di terziarizzazione con accenni minerali e/o speziati.
4) negarsi la sorpresa e la gioia di aprire un cotes de Bourdeaux bianco (Sauvignon e Sèmillon) vieilles vigne del 1999 perfettamente integro con acidi e profumi nel posto giusto, fresco e complesso e minerale e dannatamente giovane al punto di credere di aver perpetrato un infanticidio.

Natale sta arrivando e vi consiglio di regalarvi e regalare delle bottiglie o meglio dei Magnum (l’affinamento è migliore se la dimensione del contenitore è grande) di vino bianco che aprirete come minimo il prossimo anno, meglio ancora se le dimenticherete in cantina per un paio di anni o più.
Come scegliere le bottiglie migliori per goderne in futuro? un rapido vademecum.

1) Selezionare vitigni con propensione all’invecchiamento e non sono pochi: Chardonnay, Sauvignon (Loira e Bordolese), Pinot nero e meunier (vinificati in bianco negli Champagne e nei metodi classici), Pinot bianco, Chenin Blanc (Loira), Riesling, Sylvaner, Timorasso, Ribolla, Friulano (Tocai), Garganega (Soave e Gambellara), Lugana, Verdicchio, Pecorino, Trebbiano d’Abruzzo (Bombino), Vernaccia, Greco di Tufo, Fiano di Avellino, Carricante, Grillo, Moscato d’Alessandria (zibibbo), Moscato Bianco di Canelli.
Sappiate che ne ho dimenticati tanti e che gli stessi sopra elencati concorrono non solo singolarmente ma anche in blend di grande interesse.
2) Se il produttore fa una versione base e una selezione o una riserva… prendetene una per, non è detto che minor costo minor soddisfazione. Le riserve dovrebbero invecchiare meglio anzi quelle di alcuni produttori, spesso sono tanto deludenti nei primi anni, quanto inebrianti durante la maturità.
Alcuni fanno un solo vino e ci liberano dal dubbio.
3) Comprate sempre due o tre bottiglie per seguire l’evoluzione del vino nel tempo e non abbiate paura ad eliminare dalla cantina produttori anche di blasone se non vi piacessero i loro prodotti, beviamo vino non etichette.
4) Non fatevi illudere dai bianchi con passaggi in Barrique spesso sono tutti uguali: miele, vaniglia, dolcezze e glicerina, il retro di una pasticceria. Forse invecchiano ma non evolvono.
5)  Puntate su vitigni, regioni, nazioni emergenti se siete accorti potrete costituirvi una cantina di tutto rispetto con poca spesa, il bello dei vini bianchi è che hanno un rapporto qualità prezzo decisamente sbilanciato a favore della qualità.

Non fatevi mancare uno Jerez Manzanilla Fino.
Non fatevi mancare uno Champagne Blanc de Noir.
Non fatevi mancare un Marsala superiore.
Non fatevi mancare i bianchi Friulani della novelle vague, sembrano immortali.
Non fatevi mancare  un Riesling Alsaziano, uno Tedesco (Rheingau o Nahe) sono immortali.

L’unica certezza è che raramente rimpiangerete di aver aperto una bottiglia troppo tardi, sarà sempre il contrario.

L’unico avvertimento che mi sento di dare è che in questi ultimissimi anni alcuni produttori sono ritornati ad una vinificazione dei bianchi con macerazioni a temperatura ambiente, anche prolungate, fermentazioni con lieviti indigeni, sosta sulle fecce; tecniche da vini rossi ma mentre in questi gli effetti di eventuali esasperazioni sono compensati da una naturale robustezza dei mosti-vini, molto ricchi di antiossidanti naturali e tannini. I vini bianchi (direi gialli quelli che nascono da queste tecniche) più fragili hanno capacità intriseche minori di resistenza, per cui la sensibilità del produttore è fondamentale, bisogna interrompere le macerazioni al tempo giusto, valutare e seguire le temperature di fermentazione (molti volutamente non le controllano), travasare nei tempi giusti.
Altrimenti il rischio (in realtà duplice perché in questa fase i produttori lavorano per affinare le tecniche, noi consumatori per affinare il gusto e adattarlo ai nuovi vini) è di avere nel bicchiere liquidi con colori forti dal giallo paglierino carico all’ambra, con profumi intensi ma scontrosi, marcati dalla volatile (acido acetico) e dai profumi ossidativi, rudi anche in bocca, tannici (con tannini amari e persistenti mutuati dalle botti).
Quindi anche nell’ipotesi che siate voi quelli sbagliati (quantomeno in ritardo di preparazione), assaggiate e valutate ogni vino, in particolare quelli più “naturali” soprattutto se ne volete comprarne una cassetta.
Vi dovete sicuramente abituare a profumi e sapori un po’ diversi, meno freschi e più “cimiteriali”, fiori appassiti e secchi, frutta molto matura in particolare scorza di agrumi amari, erbe officinali, macchia e pineta mediterranea con sentori di resine e spezie, fieno ed erba secca. Vini che possono reggere l’abbinamento con carni bianche e formaggi non troppo stagionati.

Produttori di bianchi della nouvelle vague di cui ho assaggiato i vini:
Nino Barraco grande il Grillo e lo Zibibbo, Marsala (TP);
Salvo Foti  con il vinu Jancu, Randazzo (CT);
Frank Cornelissen con il Munjebel, la Solicchiata (CT);
Skerk con la Malvasia Istriana e il Sauvignon buonissimi, Duino Aurisina (TS);
Ronco Severo con il Ronco Severo bianco, Prepotto (UD);
Camillo Donati con il suo Sauvignon frizzante, Arola (PR).

Produttori di bianchi tradizionali che mi hanno dissetato in questi anni:
Piero Cane con il Marcalberto, S. Stefano Belbo (CN);
Enrico Gatti con i suoi Franciacorta, Erbusco (BS);
Collestefano con il Verdicchio di Matelica, Castelraimondo (MC);
Fattoria San Lorenzo con il Verdicchio dei Castelli di Jesi Vigna delle Oche, Montecarotto (AN);
Monte Tondo con i suoi Soave, Soave(VR);
Torricino con i suoi Fiano di Avellino e Greco di Tufo, Tufo (AV);
Pietracupa con i Fiano di Avellino e Greco di Tufo, Montefredane (AV).


Abbinamenti consigliati: Tonno di coniglio con crostini caldi e un metodo classico Marcalberto di P.Cane.
Un classico sotto Natale il bloc de Foie gras e un passito tipo il Sauternes, il Caluso, il Grillo di Barraco.
Per gli amanti delle ostriche provate l’abbinamento con un Jerez Manzanilla Fino.
Un Sauvignon di Skerk e caprini semistagionati.





Per oggi può bastare.
buona bevuta e buona lettura
luigi