Leggendo un’intervista di Maurizio Paolilli a Massimo Vincenzini il cui titolo è:”Gestire la complessità.” Porthos 36, pg.82.
Sono emersi tre+uno (molti di più in realtà per cui vi consiglio di leggerla) concetti che galleggiavano nella mia testa senza prendere corpo, come presenze di evanescenti fantasmi.
Il tema dell’articolo è la fermentazione e la comprensione delle dinamiche fermentative che i lieviti mettono in atto per trasformare il mosto in vino.
Il primo riguarda il metodo di ricerca, soprattutto i luoghi e modalità in cui fare ricerca.
Vincenzini con una affermazione che rasenta la banalità (ma non per chi affronta i problemi con fare iper-riduzionista) dice che le fermentazioni per essere comprese devono essere analizzate in cantina, dal produttore, nelle sue vasche e non in fermentini per micro vinificazioni all’interno di laboratori asettici.
Riporta quindi una quota importante di complessità ambientale (ecosistemi complessi), eliminando quelle innaturali rigidità inapplicabili nella realtà come le temperature controllate, l’assenza di contaminazioni, i volumi molto piccoli di mosto.
Il secondo è che i lieviti selezionati hanno scarsa affinità genetica con quelli naturalmente presenti in cantina e soprattutto essendo geneticamente identici tra loro appiattiscono la complessità del vino (producendo poca varietà di metaboliti) quando, addirittura, non siano scarsamente adatti a quella nicchia ecologica.
Secondo/bis il concetto di terroir (io direi territorio) dovrebbe inserire oltre a pianta, clima e suolo anche i lieviti.
Il terzo, che cavalca i dibattiti contemporanei, è una lapidaria affermazione che colpisce come un uppercut un po’ tutti i produttori sia gli esegeti dei vini naturali sia quelli con attitudini più tecnologiche.
Alla domanda di Paolilli se i produttori non si spaventino della complessità delle dinamiche fermentative che sta emergendo dai suoi studi e non preferiscano viceversa una maggiore semplificazione, linearità dei processi Vincenzini risponde:
“la conoscenza non può spaventare nessuno.
Solo l’ignoranza deve farci paura.”
Il quarto, aggiunto in corsa e non strettamente legato all’articolo riguarda la solforosa aggiunta che nel mosto blocca quasi completamente i lieviti non saccaromyces (che hanno grande importanza nell’inizio delle fermentazioni) e può indurre mutazioni genetiche nei lieviti saccaromyces.
Con una evidente perdita di complessità del vino finale.
Senza con ciò, armarci per intraprendere alcuna crociata, ci sono spunti su cui noi consumatori e voi produttori dobbiamo incominciare a ragionare, prima di scomodare parole ardue come territorio, terroir, tradizione.
Luigi
ti prego di leggere anche questo interessantissimo post di Armin. http://www.kobler-margreid.com/blog/2011/09/30/die-beichte_la-confessione/
RispondiEliminaNon mancherò, grazie per la segnalazione.
RispondiEliminaCiao Luigi, il mitico Mario Pojer prima di ogni vinificazione va in vigna, raccoglie alcuni quintali di uva che pigia separatamente e fa fermentare separatemenre,Poi li analizza e decide quale è quello più adatto per l'inoculo della macrofermentazione in vasca.così è giusto operare, bisogna solo poterlo fare!
RispondiEliminaCerto la pratica del pied de cuvèe può essere un sistema per scongiurare la criticità dovuta alla carenza di saccaromices all'inizio delle fermentazioni. Che tipo di analisi fà, lo sai?
RispondiEliminaUna volta partita una vasca il pied può essere evitato perchè l'inoculo ambientale è sufficientemente massiccio.
Caro Luigi,
RispondiEliminaCommento volentieri il post, ma soprattutto la conversazione che si è svolta ieri su TW tra te e Luca Ferraro aka @Bele_Casel, perché alcune cose non le ho capite proprio.
Luca su TW dice senza mezzi termini: “in vigna niente lieviti, mettetevela via”.
Detta così, mi permetterete entrambi, è un’affermazione non corretta. I lieviti sono dappertutto, come i batteri e tutti gli altri organismi invisibili che popolano la nostra atmosfera, trasportati dal vento e dagli insetti. Vivono nell’aria, nei suoli, nell’acqua, sulle piante, negli organismi animali, dovunque trovino condizioni adatte alla loro vita e riproduzione, e in particolari momenti, in concomitanza ad abbondanza di cibo, si concentrano proprio dove il cibo abbonda, cioè sulle piccole lesioni degli acini d’uva, a partire dall’inizio della loro maturazione.
I libri di enologia dicono che su un acino maturo vivono mediamente da 103 a 105 di individui, appartenenti a molte specie diverse: prevalentemente apiculati, candida, ed altri. Il nostro amico S. Cerevisiae, invece, è presente in numero estremamente limitato sull’acino, in numero superiore nel terreno, e colonizza prevalentemente gli ambienti di cantina perché qui trova le condizioni migliori per la sua sopravvivenza. Il che significa, come dimostrato da alcune ricerche (l’unico testo interessante che ho trovato in rete lo potete leggere qui: http://www.fedoa.unina.it/1664/1/Di_Maro_Scienze_Tecnologie.pdf), che è molto plausibile la teoria secondo la quale nelle fermentazioni spontanee intervengono, oltre agli apiculati all’inizio delle fermentazioni, sia i Cerevisiae del terreno che quelli di cantina, provenienti dal vigneto e poi installatisi negli ambienti di vinificazione (p. 13).
Nella mia ancora piccola esperienza ho utilizzato sia lieviti selezionati (parola che non mi piace, preferisco “industriali” perché riprodotti in laboratorio utilizzando un sistema industriale) che fermentazioni spontanee. Per un periodo ho lavorato “in condominio”, poi – negli ultimi tre anni – mi sono dedicata esclusivamente alle fermentazioni spontanee, partendo sempre da pied-de-cuve.
Il motivo è esclusivamente personale: il vino così ottenuto mi piace di più, per diverse ragioni:
1)a parità di zucchero contenuto nell’uva, la quantità di alcol sviluppato è inferiore, con residuo zuccherino mediamente compreso tra 1 e 2 g/hl;
2)i profumi sono più erbacei e meno fruttati, soprattutto nei bianchi;
3)fino a questo momento l’unico arresto di fermentazione l’ho sperimentato utilizzando lieviti industriali, e MAI in fermentazioni spontanee, che di norma sono molto più rapide e portano a secco i mosti, con conseguente diminuzione dei sentori di ridotto.
Fin qui la mia esperienza.
Alcuni mi hanno detto: evidentemente le tue fermentazioni sono influenzate dal fatto che in passato hai introdotto lieviti industriali in cantina, quindi non puoi parlare di lieviti indigeni nel tuo vino. Embè? A meno di non essere talebani dei vini naturali, veri o chessòio, fino a quando le fermentazioni spontanee influenzano la popolazione residente in cantina - qualunque origine essa abbia - e contribuiscono a rendere i miei vini “originali e speciali” (almeno per me) non mi sento macchiata di un peccato originale…
Per il resto, provate, ragazzi!
PS: nella formattazione del post è andato via l'apice: 103 sono 10 alla terza, 105 sono 10 alla quinta...
RispondiEliminaSarebbe utile, anche se magari non proprio corretto verso Porthos (ma credo che ci perdonerebbero) se potessi copiare un pdf dell'articolo, cosi da poterlo leggere tutti.
RispondiEliminaUltimamente ho studiato abbastanza la questione dei lieviti, sia per una tesina che ho fatto, sia perche' in cantina da un paio di anni non li usiamo piu' per la maggior parte delle uve (poi diro perche' non in tutte).
L'esperto di riferimento a livello mondiale sui lieviti e' Isak Pretorious, direttore dell'AWRI (che e' uno dei centri di ricerca, forse il piu' importante centro di ricerca sul vino al mondo, in Australia). Ha scritto decine di articoli scientifici "veri", molti dei quali sono disponibili on line.
Quando si parla di fermentazioni bisogna capire che non tutto e' ancora compreso, anzi direi abbastanza poco. Nel vino sono presenti 400/800 composti chimici, molti dei quali attivi in quantita' infinitesimali e molti dei quali si formano durante la fermentazione alcolica. E' importante capire che non tutti i lieviti naturali, che sono decine, attivi in diverse fasi della fermentazione, sono benefici. Alcuni possono avere impatto molto negativo sul vino, con formazione di odori sgradevoli, acidita acetiche elevate, fermentazioni bloccate, ecc.
Una volta capito questo, si deve anche ammettere che il vino e' un bene economico, e che il fatto di poter superare o limitare questo tipo di problemi nella maggior parte dei casi, e' stato un avanzamento importante dal punto di vista della tecnologia.
Fatte queste premesse, cosi' e' come la vedo io. C'e' un vino prodotto in modo industriale, che rappresenta la larghissima maggioranza di quello prodotto annualmente, che non necessariamente proviene da uve tutte al 100% sane e tutte al 100% mature, che viene venduto al prezzo che tutti noi vediamo nei supermercati, e che per molta gente va bene cosi. La tecnologia, e i lieviti, sono indispensabili per questo tipo di vino. Questo tipo di vino esiste, e io non ho nulla contro di esso, tranne il fatto che non mi interessa berlo. Ma se si ragiona un attimo, si ammette che centinaia di migliaia, se non milioni di agricoltori nel mondo, dipendono da esso per la remunerazione del loro lavoro.
Poi c'e' un vino piu' artigianale, che e' quello che interessa a noi. Li si possono, e probabilmente si devono prendere dei rischi. Le uve devono essere quasi perfette, e allora le fermentazioni spontanee normalmente non danno problemi, anzi, come gia' detto, possono aumentare la complessita' e il carattere del vino. Per questo io seguo questa idea.
Ritornando all'inizio, perche' non per tutte le uve? Perche' quando si vinificano 3000 qli di uva provenienti da parecchie vigne diverse, non tutte sono al 100%, e allora in questo caso non conviene rischiare ed e' meglio affidarsi a dei lieviti selezionati. Nessuno si puo' permettere di gettare un vasca da 100 Hl nel lavandino (per cosi dire), perche' ci dobbiamo vivere.
Per fortuna, con tanto lavoro, noi non abbiamo avuto problemi nel vinificare l'80% delle uve senza lieviti aggiunti, e almeno la meta' senza solforosa aggiunta, si tratta pero' sempre di scelte tecniche, e non di principio, perche' il principio che conta secondo me e' sempre quello di avere un vino corretto, e poi possibilmente tutto il resto (carattere, territorio, ecc.)
Marilena, Gianpaolo,
RispondiEliminagrazie del vostro intervento nel dibattito, sopratutto perchè siete due che avete esperienze con fermentazioni spontanee e a memoria siete gli unici che hanno esposto le loro tesi pro lieviti indigeni.
Io, ovviamente, non ho esperienze di vinificazione però dal punto di vista organolettico ho piano piano preso coscienza di una diversità sostanziale fra i vini ottenuti da fermentazione spontanea e quelli ottenuti con inoculo di lieviti industriali.
Semplificando sono gli stessi motivi per cui Marilena ha preferito intraprendere la strada "antica". Stessa via che battono Do' Zenner e Salvatore Marino a Pachino e anche loro dicono di aver avuto più problemi fermentativi con i lieviti industriali che con gli indigeni.
I rossi si smagriscono e si induriscono leggermente, hanno beva più fluida e semplice, consistenze meno viscose, alcolicità leggermente più basse. Profili aromatici forse meno fruttati ma più profondi e variegati.
Il rischio è che con l'idea attuale di grandi vini=grandi corpaccioni, glicerinosi e dolciastri questi vini gastronomici vengano sottovalutati dai consumatori meno attenti.
I bianchi è un mondo a parte e lì le sorprese sono tante perchè i lieviti indigeni modificano il profilo aromatico corrente delle varietà al punto di renderle irriconoscibili o quasi, questo per me è positivo e lo interpreto come la discesa del territorio nei sapori, profumi del vino. Il terroir che si affranca dal varietale ed è questo quello che cerchiamo tutti no?
Oggettivamente i consumatori medi non sono pronti a vini così diversi da quelli più tecnici, perchè il gusto attuale si è formato su questi ultimi.
Il lavoro dei prossimi anni sarà di aiutare i consumatori a comprendere che i vini possono avere profumi diversi da quelli a cui sono abituati e che non vanno interpretati come difetti.
Nell'enoteca di un mio amico assaggiamo in media un paio di vini riportati indietro come difettati e per noi non lo sono, hanno solo un profilo aromatico differente dall'equazione frutto fiore minerale.