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martedì 10 dicembre 2013

urbanismi


Ho letto un po’ di giorni fa che dai primi del novecento in Italia, la superficie edificata del territorio è aumentata del 150% a fronte di un aumento della popolazione del 30%.
Qualche tempo prima avevo sentito che in base ad una ricerca è emerso che nelle periferie industriali il 30% dei capannoni e dei palazzi per uffici sono vuoti, inutilizzati (questa cosa è palese ad esempio passando in treno a Milano tra Porta Garibaldi e Rogoredo).

Le città un tempo crescevano su se stesse e consumavano poco terreno, un po’ perché le mura avevano un effetto di contenimento fisico e un po’ perché era sempre più conveniente riutilizzare le strutture esistenti che costruirne di nuove (erano tempi in cui i materiali da costruzione costavano molto di più del lavoro umano).
Oggi è meglio abbandonare un edificio e farne uno nuovo (meglio forse no, più economico e remunerativo si) così facendo chilometri quadrati di terra sono stati divorati dal cemento, dall’asfalto.
Un altro elemento (al quale oggettivamente è più difficile rinunciare) che distrugge il territorio e i paesaggi sono le reti viarie, le infrastrutture della viabilità.
Sono oggetti calati sul suolo da entità extraterrestri e sono incompatibili con il territorio, lo tagliano, sezionano, lo violentano quanto, se non peggio delle terrificanti conurbazioni semivuote che hanno lastricato l’Italia.
L’inquinamento acustico, luminoso e atmosferico che generano è alto e le strategie per limitarli sono solo dei palliativi macchinosi quanto inutili.




I motivi per cui si dissipa il suolo (che essendo un bene disponibile in quantità finite è a rischio di esaurimento) sono molti e legati alla riduzione della terra a bene economico (il suolo è ormai bene di consumo e non bene comune), al decadimento del valore dei terreni agricoli, all’aumento di valore delle superfici costruite (siano esse abitazioni, uffici, industria). La mercificazione del suolo non è nemmeno ostacolata (come i teorici urbanisti ipotizzavano) dalla politica, dal governo del territorio perché con l’escamotage degli “oneri di urbanizzazione” oggi “costo di costruzione” destinati in origine alle urbanizzazioni primarie e secondarie, i comuni fanno cassa. Quindi diventa fondamentale per loro vendere l’edificabilità dei terreni per tentare di ripianare i bilanci comunali (il più delle volte serve solo ad allontanare lo spettro del fallimento sino alle elezioni successive).
La terra però non è un bene di consumo rinnovabile, è vero che può essere riportato alle precedenti condizioni ma è necessaria una quantità di energia non rinnovabile altissima.

L’edilizia è essa stessa fonte di inquinamenti locali (sia nella fase di costruzione con l’inquinamento tipico di un cantiere edile sia più stabilmente con le falde deviate o interrotte, impermeabilizzazione del suolo, aumento del carico inquinante imputabile agli scarichi fognari, elettro smog, atmosferico) e esterne (sia nella fase di costruzione imputabile alle forniture dei materiali da costruzione e la loro movimentazione, sia più stabilmente con l’aumento del carico urbanistico delle aree urbane limitrofe).
Secondo me la ricerca attuale di naturalità è anche un tentativo di fuga da questa morsa di cemento e rumore che ci avvolge giorno e notte e pur di vedere un vigneto, un boschetto chiudiamo gli occhi e dimentichiamo i chilometri di guardrail, stazioni  di servizio, ponti, capannoni, periferie, orridi piazzali.
Anzi li fuggiamo e cerchiamo naturalità accelerando sui nastri asfaltatici nel tentativo, vano, di lasciarceli alle spalle e di raggiungere luoghi intonsi, senza la lurida impronta della civiltà contemporanea.



La conversione bio dovrebbe iniziare dalle città, da noi, dai nostri comportamenti, dalle scuole, dalle università, dalle politiche e dai politici (completamente sordi a questi temi).
Chiediamoci dove finisce la spazzatura, i liquami, le carcasse dei mezzi trasporto, le macerie che ogni giorno una conurbazione produce (la natura non produce spazzatura!).
Una volta che ce lo siamo chiesti, proviamo a far qualcosa per migliorare i nostri attuali modelli di sviluppo.


  

2 commenti:

  1. Quello che scrivi Luigi è esattissimo, basta guardarsi attorno, anche nella mia zona considerata ricca, sono molte le aree industriali in disuso o dove i capannoni vuoti sono più di quelli ancora utilizzati.
    Dobbiamo ritornare alla difesa della terra, bloccare le nuove urbanizzazioni ed obbligare chi vuole costruire a recuperare l'esistente o, per lo meno, a costruire su un'area già precedentemente edificata.
    Solo cosi potremmo avere terra per coltivare qualcosa da mangiare.
    O vogliamo importare anche quello dalla Cina ?
    E comunque lo facciamo già !

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  2. Cercando scritti su Giuseppe Ratti ho trovato riportata questa sua riflessione che calza a pennello col post:

    Qualche anno fa l'edilizia era fiorente: si costruiva, vendeva, i prezzi salivano. C'era «fieno» per tutti, anche per il Comune, che infatti poté realizzare roba significativa. Si costruiva molto perché mancavano case, non per la popolazione reale, ma per quella teorica, che è molto più grande. Case reali per abitanti teorici (per sapere di queste due popolazioni, rivolgersi al Comune).
    Ma cominciava a scarseggiare il terreno edificabile e il Comune pensò di rendere edificabili dei terreni agricoli, nelle frazioni; nacque così la Variante Frazionale al PRGC. Ma per questa variante occorreva il PAI, che segnala dove ci sono rischi idrogeologici; il PAI non c'era ancora e per la variante si dovette attendere.
    Nell'attesa il Comune preparò due nuove varianti pertinenti; con l'una consentiva il raddoppio, in campagna, di piscine, garage e cantine; con l'altra rendeva edificabili i propri terreni destinati ai servizi (per venderli poi all'edilizia). In più si occupò dei negozi; infatti, anche questi mancano, non per la popolazione reale, che ne ha già fin troppi (tant'è che molti chiudono), ma per quella teorica. Se ne faranno alcuni, grossi, persino un villaggio di negozi; saranno fuori città, dove c'è posto; ci si arriverà in autostrada, o con bus elettrici. Sarà una festa, comprare.
    Finalmente è arrivato il PAI ed il Comune torna alla Variante Frazionale; prepara un progetto e lo presenta nelle frazioni. Quei di Variglie si sono riuniti, han visto il progetto ed han detto: noi una casa ce l'abbiamo già; una seconda la prenderemmo, ma al mare; se però c'è gente da fuori che ne ha bisogno, facciamogliela pure; diteci solo più o meno quanti sono; e che sia gente reale. C'erano anche due consiglieri comunali; uno di loro dice subito che lui, uno che vuol casa in campagna, ce l'ha; un altro di sicuro ce l'ha il suo collega, che ne ha sempre avuti; un amico o parente anche l'assessore; andiamo avanti, è così che si fa: prima la domanda, poi l'offerta. Uno dei presenti invece era del tutto contrario; io, ripeteva, sui miei prati voglio vedere soltanto le mie vacche al pascolo. Si vede che a Variglie c'è ancora un contadino con le bestie. Vedremo come andrà a finire. Mentre il Comune era indaffarato per l'edilizia, sull'edilizia è arrivato il maltempo; che minaccia anche il commercio. E' il fieno che scarseggia oggi, un po' per tutti, anche per il Comune. Ed infatti dal municipio escono «muggiti e grugniti» significativi. E' facile capire che ci vuole una nuova variante. Variante ?
    Giuseppe Ratti

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