Stamattina un negozio di alimentari vicino a me ha esposto il cartello con l'annuncio che gli erano arrivate le "paste di meliga", nel mio cervello immediatamente è risuonata la parola tradizione, questo termine evoca in me sensazioni discordanti. Come si può dire che biscotti come le Melighe (fatte con farina di Mais notoriamente centro americano) facciano parte di un passato ancestrale se la materia prima è stata scoperta e coltivata in europa dopo la metà del 1700 circa. Bisogna quindi rivedere il nostro concetto di tradizione come corpus immutabile e monolitico di saperi e accettare che la tradizione muti per effetto dei rimescolamenti demografici, tecnologici, agricolo-colturali, per effetto delle mode e che le tradizioni si inventino per opportunità o per calcolo economico.
Il vino che è uno dei pochi prodotti agro alimentare antichi ancora consumato, in quanto la sua prima realizzazione è antecedente al 7000 a .c. e le viti (genere vitis, sottogenere vitis, specie europea, sottospecie sativa e silvestris) sono state addomesticate e allevate in area pontica (caucaso tra il mar Nero e Caspio) dai Georgiani e poi nella mezzaluna fertile dai Sumeri, dagli Ittiti, dai Babilonesi, dai Persiani, dagli Arabi e nell'area mediterranea dagli Egizi, dagli Ebrei, dai Fenici, dai Greci, dagli Etruschi, dai Romani e adesso dall'uomo moderno in Europa, Nord America, Sud America, Africa, Oceania e Asia, sembrerebbe essere portatore di una continuità che però è solamente formale.
Il vino di oggi non ha alcuna affinità con quello del passato (neanche così lontano) per almeno due motivi uno botanico e uno tecnologico-organolettico.
Quello botanico è duplice: il primo derivato dalle mutazioni degli organismi vegetali quando li si moltiplica e propaga (in particolare per via sessuale) per cui in 6.000 anni cosa sarà rimasto delle viti primigenie? Il secondo è un effetto collaterale di un afide Nord Americano, la Fillossera che verso metà 800 ha infestato il vigneto europeo, distruggendo ed estinguendo centinaia di varietà di vitigni che fino ad allora concorrevano nella produzione dei vini ed ha reso decisamente più complicata e destinata all'opera di scienziati-vivaisti la propagazione delle varietà, sradicandole dal loro territorio di appartenenza (uno dei primi casi di globalizzazione e di diminuzione della biodiversità, ancora oggi pochi vivai selezionano e moltiplicano cloni di vitigni anche molto lontano dai territori in cui poi vivranno), si è difatto interrotta la selezione massale delle piante e oggi molti vigneti nuovi sono composti da decine di migliaia di piante tutte uguali con il medesimo dna, uno scenario da film dell’orrore “l’invasione degli ultra-cloni”. Il radicamento territoriale dei vegetali non è pura poesia del terroir ma è un processo di adattamento all’ecosistema che incide anche sul corredo genetico della pianta, cambiandolo in maniera anche consistente per cui si può parlare di fenotipo invece di genotipo (il fenotipo è l’espressione del genotipo attraverso la lettura del dna da parte dell’ambiente, lettura parziale e selettiva per cui stesso genoma in ambienti diversi abbiamo diversi fenotipi).
Inoltre produttori, agronomi e sommelier sostengono che il portainnesto o piede americano influisca negativamente sulle caratteristiche organolettiche delle uve accentuando i toni vegetali aspri e legnosi, diminuendone la complessità, la persistenza e le potenzialità evolutive sia in bottiglia sia nel bicchiere. A causa di problemi di incompatilbilità biologico-vascolare fra innesto e porta innesto le viti non riescono più a vivere sino all'età di 70, 80 anche 100 anni momento magico per questi organismi che danno il meglio di loro dal punto di vista organolettico (per ironia i vini che potrebbero avvicinarsi di più a quelli dell'europa prefillosserica arrivano da nazioni senza tradizione vitivinicola come il Cile e l'Argentina che possono, per caratteristiche geografiche, impiantare vigneti franchi di piede).
Quello tecnologico-organolettico perchè i vini del passato erano prodotti con uve spesso immature con mosti diluiti dalla sovraproduzione di uva per ceppo, raramente le fermentazioni, incontrollate e piuttosto casuali, esaurivano gli zuccheri per cui si ottenevano vini con residuo zuccherino, acidità volatili alte, acidi fissi sbilanciati, poche sostanze coloranti, tannini verdi estratti dai graspi, ossidazioni importanti insomma dei vini instabili da bere molto rapidamente, talvolta per la stabilizzazione si ricorreva a pratiche per noi impensabili come la miscelazione con resine (esiste ancora oggi la retzina in Grecia), acqua di mare oppure il riscaldamento sia naturale al sole sia con bollitura, zuccheraggio e speziatura.
Oggi di quei vini rimane un’eco in prodotti di nicchia come la Malvasia Di Bosa, il Marsala, il vin Jaune del Jura (a base Savagnin), lo Jerez (Sherry), il vino di Malaga, il Porto, il Muscatel di Setubal, il Madeira, il Tokaj, la Retzina.
Tutti gli altri vini di adesso sono lontanissimi dai loro predecessori, le tecnologie e la conoscenza delle fermentazioni permettono la produzione di vini freschi, fruttati, concentrati, pronti al consumo ma anche piuttosto longevi e con profumi nitidi mai ossidati.
Il Mais “Zea Mais” in Messico e in centro America è coltivato da 5.000 anni (come l’uva in europa) ed ha subito un continuo miglioramento (ahimè sino alla industrializzazione) dal punto di vista della selezione varietale in base agli usi ed ai luoghi in cui veniva prodotto (dalle pendici montane, agli altopiani aridi sino alle foreste pluviali) ed è stato culturalmente e simbolicamente vicino alla coltivazione europea della vite. Da noi si stanno riscoprendo antiche varietà tipo il Mais ottofile diretto discendente delle cultivar Americane che ha caratteristiche organolettiche superiori agli ibridi moderni (ma questo è un discorso a parte ed è un terreno un po’ scivoloso che affronterò più avanti).
Tutta questa sparata primo per autocompiacermi e secondo perchè per amore dell’ossimoro ad un ottimo biscotto della (recente) tradizione si abbina molto bene un vino che è il più tecnologico e contemporaneo che ci sia: l'Asti docg o il Moscato d'Asti (la differenza sta solo nella pressione e nel grado alcolico 5 bar e 8% alcool il primo 1,5 bar e 5% alcool il secondo e un residuo zuccherino leggermente superiore). le paste di meliga legano magnificamente con la freschezza, l'effervescenza, la pacata dolcezza, la delicatezza gusto olfattiva del Moscato d'Asti.
Per un tuffo nel passato proverei a mangiare melighe e sorseggiare un Marsala Superiore oro “Vigna la Miccia ” di De Bartoli a 12/14°C
Per oggi può bastare.
buona bevuta e buona lettura
luigi
Nessun commento:
Posta un commento