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martedì 10 marzo 2015

Metti una sera per caso al Tabarro....

di Cristian Quarantelli

Ieri sera per caso al Tabarro ho scoperto tre vini fantastici grazie ai consigli dell'oste, persona squisita ma di cui ora mi sfugge il nome e per questo chiedo scusa, sempre gentile e disponibile pronto a farti assaggiare qualsiasi vino prima di farti scegliere il preferito. Il grande Diego ieri sera non era presente.

Il primo vino, un Syrah di Aldo Viola, di Alcamo... il vino che non ti aspetti... boom... la freschezza e l'eleganza del rodano e i profumi della macchia... il tutto fa da sfondo a una beva incredibile. Bellissima scoperta.


Il secondo vino un Corbières bianco a base grenache gris principalmente e un pò di grenache blanc di Maxime Magnon, un piccolo produttore della Languedoc. Questo 2013 è un vino da dimenticarsi in cantina, grandissima acidita, sorso pieno ma dritto come una lama.. i dodici mesi nel legno si sentono e si devono amalgare ma gia ora è un bicchiere di grande soddisfazione. La cosa che mi ha colpito particolarmente è il colore verde e limpidissimo del vino.



Infine l'ultimo vino, il più estremo, un vino che definirei "La Bella e la Bestia"... Il Roc di Domaine Vinci, dall'estremo sud della Francia a due passi dai Pirenei. Grenache e Carignan senza solfiti aggiunti... al naso ruggisce in bocca accarezza. Un vino sul filo del rasoio tra la bestialità dei profumi e l'eleganza e la ricchezza della bocca.
Assolutamente da vedere le foto sul loro sito http://www.domainevinci.com/




Insomma tre vini vivi, tre belle scoperte da approfondire.
A presto!
Cristian

TABARRO 
Mescita e dispensa - Posto di ristoro
Strada Farini 5/b - 43100 Parma
 




mercoledì 13 agosto 2014

Crozes-Hermitage 2011, Dard&Ribo #cartoline

da Niccolò Desenzani


Nonostante tecnicamente l'estate 2014 non sia mai esistita, facciamo finta che invece sia andato tutto come al solito e che sia giunto il momento di mandare le cartoline agli amici (nonostante io non abbia mai praticato).

Ero in Corsica per i canonici dieci giorni bel mare, buon cibo, posto del cuore, così lo conoscono anche le mie figlie, sto un po' con i miei genitori, ricarico le pile, cerco memoria di un fisico che fu, mi abbronzo per quel che posso (sapendo che durerà poco), faccio qualche immersione in apnea (in memoria dei vecchi tempi), provo anche a fare running (cioè vado a correre, ma oggi si dice così), cerco di immagazzinare quanta più luce, quanti più bei tramonti, quanto più sale di mare, quanto più buon umore e dolcezza da spendere con le mie donne (perché so d'essere un gran rompic...), tento anche di iniziare a leggere Foster Wallace... e la sera se riesco cerco forme di alcool memorabili.

È questo il caso. Una bottiglia che mi ha spiazzato per uno stile quasi rude, da una materia di grande finezza. Grande dinamismo nel bicchiere, acidità, tannini, ma soprattutto verdismi, verdismi, verdismi. Un po' alla volta si svela grande opera, un po' quadro d'avanguardia, finedelvinopiacioneadessosifasulserio. Già citato nel post di Luigi sul vino glocale e i matrimoni meticci, trovò il proprio completamento in una tajine di agnello. E lì, su un piatto di grande sapore e speziatura non forte, ma decisa, ha sbaragliato. Prova che il vero amore è tale indipendentemente dai pregiudizi che abbiamo su come debba comporsi!

Tanti saluti dalla Corsica!

venerdì 9 maggio 2014

Côte Rôtie 2004 - Jean-Michel Stephan

di Andrea Della Casa

Mai generalizzare. 
No global.
Arrivo tardi sul Rodano, dove il/la Syrah regna indiscusso/a e che con il mio palato ha avuto più scontri che incontri. Non tanti assaggi in realtà (principalmente cisalpini) ma quasi tutti con fatica mi stimolavano un secondo sorso. Pesanti, con un finale amaro spigoloso, cupo, incorruttibile. La beva era agile e spedita come un'auto con ruote quadrate.
Mmm...ripensandoci forse il paragone non è così appropriato visto che là sotto Lione il Serine (nome locale del Syrah) si sposa spesso ad altre uve per raggiungere un migliore equilibrio.
Comunque sia...nel giro di poco tempo arrivano una serie di assaggi che mi lasciano esterrefatto e mettono in discussione le mie idee frettolose.
La Meme di Gramenon e Les Champs Libre (Dard&RIbo + Souhaut) grazie al nostro Eugenio (di cui sospetto fortemente antenati avignonesi, non di Montepulciano però...) alle cene goliardiche e impareggiabili degli amici del bar, un Saint-Joseph di Hervé Souhaut a una degustazione di Les Caves de Pyrenes e, in ultimo,  un Cornas vinificato sui raspi di Domaine du Coulet (guarda caso sotto consiglio di tale Stefano Amerighi, uno che c'ha il manico per il Syrah) a Cerea.
Tutti da taggare tutti sotto le voci slancio, bevibilità, dinamicità.

Jean-Michel Stephan  (palatepress.com)
E allora scatta la ricerca compulsiva di vini rodanesi perché vuoi, devi tornare e veleggiare su quel liquido. E capita casualmente poi di trovarne qualcuno a un prezzo decisamente conveniente.
Come questo Côte-Rôtie 2004 (che se non erro dovrebbe essere quasi in toto Syrah, forse con poca aggiunta di Viognier) di Jean-Michel Stephan, vignaiolo della scuola di Thierry Allemand, Jules Chauvet e Dard et Ribo.
Circa 6 ettari a Tupin et Semons che lavora senza l'utilizzo di prodotti di sintesi. Macerazioni carboniche in cantina, nessuna aggiunta di solforosa né di altre sostanze chimiche.
 
All'apertura è decisamente contratto, con una leggera riduzione che riporta agli odori di chiuso, di cantina.
Poi comincia a svegliarsi, si distende e si esprime in tutta la sua grandezza esternando in primis quell' odore pungente e speziato tipico del vitigno.


Col passare dei minuti continua ad ampliarsi lasciando campo libero a delicati profumi floreali, di viole, e un turbinio di note ferrose, terra umida, castagne sotto spirito, aromaticità erbacee.
Grandissima dinamicità in bocca, evolve e muta ad ogni sorso.
Subito domina l’alcol che tiene sotto scacco il vino mandando sbuffi penetranti, poi cede alla distanza riprendendo il posto che gli spetta nell’equilibrio del bicchiere.
Rispetto agli assaggi di cui sopra questo ha più corpo, più sostanza, e pare un filo meno leggiadro (ma proprio un filino) forse anche per i due lustri sulle spalle.
Non pervenuto quel fastidioso amaro finale ritrovato troppo spesso nei cugini cisalpini.
La decisa pungente acidità supporta valorosamente questa materia ancora comunque giovane e assolutamente succosa, corroborandone quella bevibilità superba a cui accennavo prima. Allora tiro le somme, spannometricamente, senza sviscerare l'argomento più di tanto, e mi sovviene che...chissà...tutto questo slancio, questo nerbo, potrebbero anche essere favoreggiati da vinificazioni coi raspi (ove le condizioni lo permettano) e macerazioni (semi e) carboniche...


martedì 4 marzo 2014

Faugères AOC, Clos Fantine 2001, Carole-Corine-Olivier Andrieu

di Daniele Tincati


Solitamente non scrivo di vini bevuti al ristorante o assaggiati al volo nelle fiere se non in modo marginale.
Un post dedicato, intendo.
Ma qui è diverso, perché diverso è stato il vino.
Questa bottiglia ha lasciato il segno.
Purtroppo non esco spesso a mangiare per cui, quelle poche volte, cerco di selezionare con cura il posto.
Nella mia ultima uscita al ristorante mi sono imbattuto in questo esemplare.
In una carta dei vini fornitissima, ma economicamente inarrivabile e che sta virando su scelte commerciali, sono riuscito a scovare questo "rimasuglio" dei tempi passati.
Tempi in cui i proprietari compravano a cuor più leggero di ora.
Il Clos Fantine 2001 mi ha aperto il cuore.
Non ho mai compreso e gradito troppo in passato i vini del sud della Francia, ma alcune ultime scoperte mi stanno facendo cambiare idea.
Colore granato scuro, con qualche lampo rubino.
Parecchia sospensione, del resto l'avevano appena prelevato dalla cantina.
Spesso chi serve il vino non ha la sufficiente preparazione per farlo.
Bastava un po' più di accortezza evitando di scuoterlo troppo.
Poi non mi hanno lasciato il tappo in tavola, ed è gravissimo.
Comunque la sospensione non mi da fastidio più di tanto.
Naso intenso, dove spicca immediatamente una liquerizia dolce.
I profumi varieranno molto durante il pranzo, calcolando che la bottiglia è stata aperta e non decantata.
Mora di gelso e ciliegia sotto spirito si alternano a note balsamiche, alla resina di pino e alla garrigue, arrivando alla pasta di olive.
Vado un po' a memoria, non avendo preso appunti, ma c'era tanto altro, nel mezzo.
Assaggio della medesima intensità, con acidità vivissima e sapidità intensa, da grande vino del sud.
Bocca calda, ma la beva è fluida, l'alcool, sebbene presente in discreta quantità, non disturba il sorso.
Il tannino è ancora ben presente e nervoso, manco fosse un vino di 12 anni.
la chiusura è lunghissima, in perfetta corrispondenza con i profumi.
Bevuta di un'armonia memorabile, come non ricordavo da tempo.
Come sempre in questi casi, la bottiglia arriva a finire, anche in due.




martedì 12 novembre 2013

La Syrah di Stefano

(di Vittorio Rusinà)



Sono io che ho incontrato gli amici del bar e non viceversa, sono io che attraverso questo contatto ho imparato ad apprezzare i vini autentici, la loro storia agricola e di cantina. Questi amici mi hanno dato tanto e questa bottiglia è lo stendardo di questa storia.
Nell'ultimo anno tanto ho sentito parlare da Luigi e Riccardo della Syrah di Stefano Amerighi, della sua bontà, della sua rarità, difficile da trovare in commercio (quelli che conoscono i segreti di questo vino quasi se lo contendono ancor prima che esca sul mercato).
Quali sono i segreti? La biodinamica come pratica agronomica, la pigiatura alla maniera antica con i piedi, la non filtrazione e il profondo amore del produttore per quest'uva dal nome orientale.
Questo è uno dei migliori vini rossi che io abbia mai assaggiato, di grande eleganza e con una beva stupefacente, una di quelle bottiglie "obbligatorie" nel percorso cognitivo di un appassionato di vini.
Qualche giorno fa di sera mentre esco da Fornovo mi raggiunge correndo Luigi "Vittorio tieni questa bottiglia, ho chiesto a Stefano di darmene una per te" mi giro e vedo la Syrah, una sorpresa questo dono inatteso come molti doni degli amici.
Porto a casa la bottiglia e religiosamente la ripongo in cantina, mi riprometto di lasciarla riposare qualche mese al buio e al fresco, ma d'improvviso viene questa sera, i figli e un loro amico, gli spaghetti alla chitarra e le patate al forno, non resisto e la apro, e lei si concede in tutta la sua bellezza e bontà, è la Syrah.

martedì 5 novembre 2013

Sierra du Sud 2011, Gramenon. Di Niccolò


Gramenon ha uno stile.
Forse è la terra dove sono le viti che dà una forte impronta.
Ma quando arrivo a bere questo Syrah ci sento l'eco delle Grenache, la stessa qualità di freschezza, di frutto e polverosità.
Questa bottiglia ha un'acidità molto particolare, mentolata, di erbe, di acino d'uva.
Capisco ciò che mi piace di questi vini: la capacità di mettersi a fuoco un po' alla volta, dopo l'apertura.
Il sorso diviene nitido; c'è insieme il sud che fa della florealità quasi un pot-pourri e una specie di vena glassata fresca che trasforma la decadenza in una spinta di piacevole balsamicità, rinfrescando la bocca e lasciando il sapore dell'uva sulle mucose.
La trama è per l'appunto polverosa e il sapore pieno e rotondo.
E l'equilibrio di questo bel Syrah si legge in filigrana nel sottilissimo residuo carbonico.
Perfetto e aereo fa vibrare i fiori quasi secchi e prende il volo la beva.

mercoledì 16 ottobre 2013

La Grande Colline di Hirotake Ooka. Di Niccolò



Cosa ci fa un giapponese fra le ripide colline del Saint Peray a sud del Nord della Valle del Rodano?
Titanicamente pianta barbatelle* che poi la pioggia gli spazza via, e nel frattempo mette in pratica in proprio la divina arte della vinificazione imparata in numerosi anni di apprendistato, prima nelle scuole di Bordeaux e poi a “cantina” da grandi vigneron.
Qualche vigna già ce l’ha o l'affitta o ne compra le uve, di marsanne e roussanne alla base del Saint Peray (AOC), e di altre tipiche della Valle, grenache e syrah. Ma non disdegna neppure il moscato di Amburgo, se si tratta di dissetare.
Ma io son qui a dirvi dei frutti rossi del suo lavoro, di un Saint Joseph e di una cuvée G, Grenache in purezza, e di un connubio fra i due che ormai ha conquistato le cave dell’esagono dove liberté-égalité-fraternité sono praticate attraverso la beva: Le Canon!

Il Saint-Joseph 2009, di impostazione molto classica, è sicuramente il più lavorato dei tre vini. La ricerca di un sorso profondo e balsamico, in mezzo alla speziatura del Syrah, riesce, ma rimane un po’ statico. Comunque un bel vino, che forse risente un po’ delle viti giovani e di qualche passaggio in botti leggermente più marcanti rispetto alle altre etichette.

La cuvée G 2009, ecco la Grenache. Al di là che io sia un fan del vitigno, che poi le viti siano già sui quaranta, questo è un vino per me davvero azzeccato. La leggera macerazione carbonica e probabilmente botti fortunate, portano nel bicchiere un sorso che declina la golosità del vitigno in un bellissimo connubio di acidità e sentori di cantina. Sì, muffe, per le quali ho proprio un debole. Dunque grande incisività e freschezza che spingono alla beva con quel giusto di ruvidità e a tratti qualche scossetta carbonica che dinamizza il sorso.

Le Canon Rouge 2012, il vin de soif di casa Ooka, è un connubio fra i due vitigni, vinificato con una straordinaria sensibilità e arriva nel bicchiere ancora scalciante. Un vino saporito e godurioso che persegue un’idea molto bella. L’equilibrio in movimento e la beva disimpegnata. Un gioiellino.

Tutti i vini di Ooka non vedono SO2 aggiunta e la vinificazione** è meticolosa per evitare inconvenienti. Questo lavoro si sente secondo me molto bene nel bicchiere dove la ricerca della giusta misura è percepibile. Tutti e tre i vini entrano nel corpo dando gioia e facendosi ben accogliere, questo anche grazie a gradazioni alcoliche basse, probabilmente figlie della macerazione carbonica, tuttavia utilizzata anch’essa in modo misurato.

* I terreni disboscati e piantati a vite sono nella zona AOC Cornas, appena sopra la famosa parcella Les Reynards di Thierry Allemand, di cui Ooka è stato allievo e collaboratore.
** Tutti i vini fanno cinque giorni di macerazione carbonica, cui segue un pigeage quotidiano, fatto proprio coi piedi, per dieci giorni. Il Saint Joseph poi fa due anni in barrique, mentre Le Canon fa solo vetroresina per sei mesi. La cuvée G sta in botte "quanto serve" (le parole sono di Ooka, riportate dagli amici di Jardin du Vin) e prima dell'imbottigliamento riposa anch'essa un po' di tempo in vetroresina.

venerdì 11 ottobre 2013

Dard & Ribo, Crozes l'Hermitage 2010


Eugenio Bucci e la sua capacità di comunicare con entusiasmo mi ha portato alla prima occasione utile ad assaggiare i vini di Dard & Ribo.
Anzi un vino di Dard & Ribo, perché una cosa che lui tace (come sempre quando una passione diviene una “insana compulsione con derive patologiche”) è il costo della bottiglia (a ristorante, a trovarla, non sotto i 35,00/40,00 euri; nelle enoteche sabaude: non pervenuta).
Devo dire che avevo una grande aspettativa sul vino di cotanti eroi.
Ero con Gil Grigliatti e siamo rimasti entrambi un po’ interdetti da un vino che per essere Francese aveva delle concentrazioni e delle fluidità un po’ estreme, non dico sciroppose ma sicuramente dense.
Delle freschezze acide c’erano e alleggerivano un po’ il corpaccione.
I profumi erano molto giocati sui sentori di olive e il suo patè, con scivolamenti verso erbe aromatiche del maquis ma sempre sentori caldi e di terra (non di per sé un male ma forse mi aspettavo levità).
Un po’ statico a nostro avviso, buono senz’altro ma meno elegante  di quanto mi aspettassi da una syrah di Crozes l’Hermitage.
Da riassaggiare (nel frattempo ho chiesto un fido alla mia banca).
Kempè

Luigi


Ps
Non fraintendetemi, non è che non mi sia piaciuto ma è un “buono con riserva di rivedibilità”.



venerdì 19 luglio 2013

SETE di Eugenio Bucci


C'è un uomo seduto davanti a me e più che un uomo sembra un manzo abbattuto e più precisamente un boeuf tué dato che mi trovo nel sud della Francia e, ad essere pignoli, sulla riva sassosa della Promenade Des Anglais di Nizza. L'orario deve essere qualcosa tra le 14 e le 15 di inizio luglio il che implica, nonostante il clima mite e un tasso d'umidità intorno al 40%, un leggero principio d'insolazione e una capacità di lettura della realtà prossima allo zero.
Mi spalmo uno strato di crema solare protezione 100 della linea Nivea Bronze che inquietantemente ha la consistenza del grasso di foca e d'istinto faccio per alzarmi e ricoprire di Bronze il tizio/manzo che mi pare al giusto punto di cottura e mentalmente penso che vino potrei abbinarci, quando il tizio si tira su remando nel ciottolato e sceglie una postura totemica. La rifrazione atmosferica produce sulla visuale un effetto gas lacrimogeno e dilata i confini del tizio che dallo stato di manzo passa a quello di toro. Capisco che è francese, e più precisamente franco-gallo, dai baffi a manubrio che sono una roba che solo un manzo/toro/gallo può portare, a parte un mio amico di Faenza il quale, in effetti, è manzo e pure toro e porta le magliette da marinaio e ascolta la Piaf e Trenet. Il tizio apre un tascapane che suppongo essere il suo e butta dentro una mano del diametro del mio petto e tira fuori una baguette intera. La baguette è tagliata a metà e farcita da quello che sembra essere il bottino del furto ad una gastronomia e con alimenti che spaziano per tutto l'alfabeto gastronomico. Il tizio, che, per completare l'animalario, suda come un porco, trasmette un vago senso di languore e inizia a mordere lo sfilatino/missile. A metà merenda, un meccanismo di autoconservazione fa si che il tizio ributti una zampa nel tascapane e tiri fuori una bottiglia di plastica con dentro un liquido viola-tannino che riconosco, nonostante il sole sia una croce inchiodata sul lobo frontale, come vino rosso. Il leggero Mistral spegne il suo soffio rinfrescante (?) per un attimo e il tizio si attacca alla boccia riducendone il contenuto a circa il 50%. Poi fa "Aaahhh..." e si pulisce i mustacchi.
Così ho capito finalmente cosa sono i vin de soif.
Poi sono svenuto.
Poi la sera mi sono ripreso.
E ho iniziato a bere. Perché avevo soif. Sete. 
Sono entrato nei bar à vin, bistrot, enoteche, restaurant, brasserie, paninoteche (no, quelle no), e dicevo "Soif, soif, soif..." Una parola jolie, delicata, semplice. Come un soffio. Volevo quei vini che sono come un soffio, che rispondono ad una precisa domanda in precisi momenti della giornata. Fame? Mangiare. Sete? Bere. I vin de soif che scorrono, scivolano, rinfrescano, che male che vada non urtano e non infastidiscono e si misurano in nanosecondi e non in minuti, che bene che vada sono annichilenti e stordenti e sono un ascensore ultraveloce vita terrena/beatitudine e ridicolizzano il formato da 0,75 litri.
Ecco il mio 48 Hour Wine Party.
La Part Des Anges è un'enoteca carina e, chiaramente, definirla carina è una minchiata qualsiasi detta per tenere un profilo basso rispetto a quella che è una specie di miniera d'oro del vino e, più specificatamente, naturale (termine che in Francia viene usato per quello che è, ossia un termine), un posto che al solo pensiero mi produce una singolare ipersalivazione pavloviana e mi riporta all'ultima sera quando ho salutato Olivier, il mio Willy Wonka personale, e cazzeggiando ubriaco con lui ho premuto due dita sul petto e tentato di contattare una Enterprise della mia fantasia per far teletrasportare tutto a casa.
Olivier, nei due giorni di quasi campeggio nel suo locale, mi ha fatto assaggiare:
Lard, Des Choix 2011. E' il bianco di Les Champs Libres. Grenache Blanc e Grenache Gris. Questa azienda/progetto di René-Jean Dard e Hervé Souhaut ha prodotto un capolavoro di cui scrissi qui. Col bianco si viaggia su rotte più consolidate, si vola più basso. Citrico al naso con qualcosa di dolce in sottofondo che con l'aria vira verso il candito. In bocca manca di grip, acidità e dolcezza glicerica non arrivano a fondersi, qualcosa di minerale arriva nel retrogusto e allunga discretamente la beva. Semplice e un po' furbo, discretamente consistente, discretamente equilibrato, discretamente piacevole: un discreto 80/100 e io ho ancora sete.
Così proseguiamo il nostro Tour De France (nota 1) in una regione che, come dire, gli appassionati stanno montando e montando come una torre di Mont Blanc, una regione, la Loira, sempre più taggata con vino+naturale+figo, una regione con una squadra di produttori giovani belli e baffuti da riempire un album Panini. E di vini buonissimi.
Hervé Villemade è uno di loro (a parte i baffi che, inspiegabilmente, non porta) e come rossi vinifica Pinot Nero e Gamay perlopiù in uvaggio. Ho assaggiato i due Cheverny base, quelli da sete (appunto), partendo col Le Litre 2009 che è una bottiglia buffissima e mi ha fatto dire: "Toh, il Litrozzo francese!", e Olivier ha detto "Si, Le Coste e Antonuzi", e, insomma, Italia Francia una-faccia-una-razza. Le Litre è leggero, un rosso/rosato quasi trasparente, e tutto un cestone di roba verde la naso, peperone, clorofilla, geranio (tanto geranio), tutto molto fresco ed easy, e la bocca ci va a ruota, freschezza e consistenza minima e sorso ampio e disimpegnato. Lo Chevergny 2011 gli assomiglia molto. E' il fratellino che gioca a fare il fratellone, quello più serioso e accigliato. Aggiunge qualcosa in peso e aromaticamente il verde si condisce con una discreta pepatura, il nerbo acido si fa sentire e irrigidisce leggermente la beva. Ma va bene così, questa è una gita fuori-porta su una 2 CV, per i viaggi seri si prega da passare oltre. Rispettivamente e rispettosamente 83/100 e 82/100 perché in fondo la sete mi sta passando.
Ma non mi è mica passata.
Dove eravamo? Loira? Roba da dilettanti, bisogna andare in Jura per capire la nouvelle vague enologica. O meglio, bisogna andare da Jean-François Ganevat. C'è un sito di un tizio che gira in moto per tutti questi ragazzoni e fa un sacco di foto e assaggia e ci racconta: qui è il turno di Ganevat. Mi era già capitato di assaggiare delle batterie dei suoi vini. E, credetemi, il termine batteria rende poco l'idea avendo deciso il nostro Jean-François di imbottigliare quasi ogni singola parcella (quasi filare, direi) dei suoi 8,5 ettari che finiscono così polverizzati in 30/35 cuvée tra Chardonnay, Savagnin, Poulsard, Pinot Nero, Trousseau, etc etc. Una specie di delirio da microvinificazione. Ma mi mancava il Poulsard Cuvée L'Enfant Terrible. La 2011 è durata in tavola all'incirca 23 minuti (nota 2) e intorno al 21° minuto si è creata un'enorme tensione tra me e la mia commensale e si è sfiorata la rissa fortunatamente rientrata decidendo di versare gli ultimi cl. in un bicchiere comune dove si sarebbe attesa circa un'ora per valutarne l'evoluzione. E noi stavamo lì, a fissare quel colore tenue, un torbido quasi-rosato, a ripensare a quell'odore, quella speziatura fine con fruttini rossi croccanti, a quel sapore che è un rollercoaster in bocca, una dinamica di sapori che parte dolce, poi rilascia un filo di tannino, poi una ola di sapori, poi l'acididità perfetta, nitida e non aggressiva, che pulisce e allunga il sorso. Ecco, un giro vicino alla fine della sete, un giro da 93/100.
Ma la sete è strana. Ti sembra di non averne più e poi, all'improvviso, TAC! 
Rieccola.


E l'oasi al termine della sete doveva essere nella fortezza di 2 supereroi. Dard & Ribo. Con le annate nuove fresche fresche di consegna. Come sempre, l'odioso motociclista/blogger ne ha scritto (qui), per cui vi risparmio la pappardella su cosa, dove e come lavora. Tanto solo Syrah fanno di rosso. A partire da C'est Le Printemps 2012. Che è l'etichetta base del duo, piante giovani che vengono dalla Mercurol meno vocata, metà in botti vecchie, metà in acciaio, imbottigliata in marzo e, voilà, E' Primavera. Quando apri una bottiglia di Dard & Ribo, è come se loro ti guardassero dall'angolo mentre versi il vino e iniziassero a dire: "Bevi, bevi bevi!". E' quello che vogliono. Vini da bere, da godersi nell'immediato e si fotta tutto il resto. Vogliono vedere che finisci la bottiglia e in fretta. C'est Le Primtemps va più che mai dritta al sodo. Colore violaceo, frutti rossi a go go, nessun legno a interferire ma solo speziatura ed erbaceo dell'uva, discreta consistenza e acidità. Non un vino lungo, niente rarefazione. Un solido vin de soif che mantiene quello che promette. Un 86/100 e carpe diem.
Il Crozes-Hermitage 2011 è il passo successivo. Dove la materia diventa più complessa. Il salto di peso specifico delle uve porta ad una sensazione tattile di maggiore densità e innerba il frutto, lo  inspessisce ampliandone spettro e qualità. Sempre col loro french touch, sempre dalla parte del velluto, sempre con una bella-e-buona acidità ad evitare di sedersi. Un 2011 che non raggiunge le vette della 2007, a cui manca lo scatto finale del godimento totale. Però saluto Dard & Ribo con la bottiglia vuota, scrivo su un foglio 89/100 per non farli incazzare, un rapido cenno d'intesa e alla prossima boccia.
Che è il Crozes-Hermitage Les Rouge Des Baties 2011. La cuvée di vigne vecchie. E qui la domanda che ci si fa ogni volta, si amplifica: ma come fanno? Come fanno a ottenere un frutto così netto, fragrante, pulito, e, allo stesso tempo, a far si che il tutto appaia naturale, terrigno, dinamico? Come fanno i loro vini ad essere chirurgicamente perfetti e quasi misticamente rarefatti eppure capaci di farti trovare quella sbavatura al punto giusto? Perché Les Rouge Des Baties è come una monocromia di Mark Rothko, un Rumore Viola che racconta di cielo e terra e luce, il colore puro, essenziale e monolitico eppure così fragilmente umano. Un frutto Syrah al punto di maturazione perfetto e una nota sanguigna di sottofondo. Un sorso a tuttotondo che si increspa appena, come un mare calmo e la brezza che ne arriccia le punte. Tutto si gioca sull'equilibrio, sulla materia, sul dolce/amaro in luna di miele. Perché questa non è poesia. E' un reportage sullo stato dell'uva a Mercuriol, Rodano, Francia, Terra, Universo.
Elogio dell'(im)perfezione, 95/100, e au revoir, soif.



Forse.

Nota 1: ironia della sorte, il vero e proprio Tour De France 2013 era a Nizza in quei giorni con tutto il baraccone di atleti dall'abbigliamento imbarazzante e le pupille dilatate, di pulmini giallo canarino che sparano a anta-decibel qualcosa di incredibilmente simile a una cassetta Bimbo Mix, di gente con un badge al collo grande quanto un polmone e un teleobiettivo da Dumbo, di famiglie franco-galle con la più alta percentuale di baffi a manubrio che abbia mai visto, di ondate variabili di misto sudore-fritto-salsedine-canfora-ciclamini-merda, di souvenir e gadgets, di ciclisti della domenica (anche se era, in effetti, martedì) decisamente sovrappeso e letteralmente collassati su biciclette ultraleggere in carbonio monoscocca, di uomini/sandwich in forgia di gallo o cellulare, di tonnellate di carta, flayers e promozioni e pubblicità e 3x2 e menù fissi e carta carta carta...
Nota 2: facendo un rapido calcolo, L'Enfant Terrible è costato €35 che divisi per i 23 minuti necessari alla sua assunzione da parte di 2 adulti consenzienti, porta al dato di €1,521 al minuto (ossia, €0,7605/minuto per persona), dato che non so bene da che parte pigliare e che, indubbiamente, dovrà essere ampliato con altre variabili come lo stato psico-fisico, le condizioni atmosferiche, la disponibilità finanziaria e altro, tra cui, non ultimo, il grado di piacevolezza. Una volta messa a posto la formula, credo che ne verrà fuori una roba interessante. Vi farò sapere.

mercoledì 28 novembre 2012

Les Traverses VdF 2011, L’Anglore di Eric Pfifferling




Non vorrei essere tacciato di francofilia enoica.
Però Les Traverses VdF 2011, L’Anglore di Eric Pfifferling, che abbiamo bevuto Tirebouchon ed io.
Era molto buono.
Di una bontà fresca e superficiale.
Glu glu.
Si intuiva comunque una struttura e un anticipo di profumi d’evoluzione che promettevano molto.

Pietro Vergano del Consorzio ce lo ha consigliato e ci ha detto:
“Sono l’unico in Italia ad avere i vini di Pfifferling”
Rincara.
“Ho fatto mille chilometri in un giorno per andare da lui e mi ha dato solo 24 bottiglie! Comunque è il re della macerazione carbonica!”.

Eric Pfifferling a Tavel (Aoc communale dedicata esclusivamente ai rosè), vendemmia poi lascia una notte le uve in cella frigorifera, poi le mette in cemento e le satura di CO2 e le lascia macerare per tre settimane.
Poi unisce le masse, aggiunge 1,5 gr/hl di So2 (non aggiungerà più So2 in nessuna fase) e affina in barrique usate, nessuna chiarifica né filtrazione.
Tavel è nella Vallée du Rhone del sud, vicino a Chateauneuf-du-Pape, una zona in cui la quantità di cultivar utilizzate è la più alta di Francia, un vero problema memorizzarle, un peccato non sperimentarle.
Da quà verso il mediterraneo e la Spagna il syrah comincia a cedere il passo alla grenache, alla mourvedre, al picpoul, al cinsault, al carignan...
Nel Les Traverses ci sono syrah al 70% e grenache al 30%.
Mi aspettavo una preponderanza di frutto, invece no.
Un pochetto c’è ed è croccante ma non invasivo e unificante.
Bisogna aspettare che si apra.
Poi compare il pepe, le spezie e una nota affumicata di incenso.
Untuoso, rinfrescato da una sensazione vegetale di raspo.
Bizantino.
Anche se si sa che:
Bonne degustation

Luigi

Poscritto
Sono sempre più convinto che la quasi assenza di solfiti (esogeni) renda i vini, delicati forse ma questa è cosa da tecnici, soprattutto molto espressivi e molto complessi e comunque godibili sin da giovani.
Sono sempre più convinto che i vignaioli francesi sui "vin de soif" siano ere geologiche avanti a noi.