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mercoledì 23 gennaio 2013

Serragghia Rosso 2010, Giotto Bini di N.Desenzani



Giusto pochi giorni fa parlavo in un post di come un equilibrio fra la riconoscibilità e l’espressività fosse spesso alla base di vini riusciti e mi son ritrovato a bere il Serragghia Rosso 2010 di Giotto Bini.
Da un inedito blend di catarratto, pignatello (perricone) e fanino, un vino senza solforosa, che viene vinificato interamente in anfore dapprima fermentato a cielo aperto e poi lasciato tre mesi sulle bucce.
Insomma il classico processo georgianlike, Gravnerlike, alternativo figo.
Che in questi anni ha spaccato i bevitori in schiere che si accapigliano per affermare se questi vini siano buoni o ciofeche.
Io che sono fottutamente votato, spesso mio malgrado, alla saggezza penso che la risposta sia, ahi noi, “caso per caso”.
Ebbene, tornando al Serragghia, lo ammetto, non mi è piaciuto. O meglio, non mi è dispiaciuto, ma, considerando che costa solo tra i 40 e i 50 eurini avrei chiesto qualcosa di più.
Molto di più.
Indubbiamente estremo nell’espressività, a mio parere diviene irriconoscibile: nei vitigni, la provenienza, lo stile del vignaiolo.
Un generico maceratone in anfora.
Certo la salinità, l’acidità e il tannino restituiscono un vino di grande impatto, ma mentre svuotavo questa bozza, peraltro salubre e a suo modo piacevole, pensavo:
che occasione persa!

2 commenti:

  1. Nessuna menzione per il retroetichetta? Ho visto quella del Serragghia Bianco che potrebbe essere un esempio da imitare o se non altro da cui partire per guardare con fiducia al futuro del vino di qualità.

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    1. Manco a farlo apposta questo Rosso non ha la retroetichetta dettagliata tanto decantata. Solo info burocratiche.

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