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lunedì 23 giugno 2014

Piccole note sul concetto di “tradizione” estensibile alla gastronomia, se ne abbiamo voglia

Rakib, foto courtesy Scannabue, Torino
La tradizione non può che essere un concetto che, a dispetto del credo comune, aborre ogni forma di “congelamento” di fissità anzi ha in sé il seme del cambiamento continuo, questo espediente di introitazione del diverso rende accettabili i cambiamenti, i quali entrano senza traumi nel modus vivendi di una comunità.
L’integrazione e l’aggiunta ad un corpus di comportamenti, rende sostenibili, domestiche, comprensibili le innovazioni (siano esse tecniche, sociali, culturali).
Si cerca  di inserire la novità nella continuità della routine, della vita.
Nessuno può definirsi autoctono al massimo è l’ultimo nella sequenza temporale ad essere in un certo luogo.
Questi pensieri mi sono tornati in mente guardando dentro le cucine dei ristoranti che frequento sia per piacere sia per lavoro.
Ormai la forza lavoro è multietnica anche nei locali in cui si fa cucina della “tradizione” (occhio che anche i prodotti alimentari che usiamo sono per lo più extraterritoriali e poco autoctoni a cominciare dalle patate, dal mais per finire alle faraone, i fagioli, le melenzane, i pomodori); sous chef del Bangladesh, Romeni, Albanesi, nord africani, sud americani, Giapponesi che hanno fatto un viaggio, tutto interno alle cucine, dal lavello dei piatti sporchi sino ai fornelli e alla ideazione di nuovi piatti.
In cucina esiste ancora una struttura a scalini dal basso verso l’alto e una organizzazione ad atelier e la conoscenza la si ottiene e la si consolida attraverso l’esperienza, l’osservazione, la copia, la prova e l’errore, un processo continuo di ricerca e apprendimento.
Ognuno porta qualcosa, qualche tecnica, qualche sapore.

Daniel, foto courtesy Pomodoro & Basilico, San Mauro Torinese
La cucina non è mai ferma.
Sperimenta e sperimenta anche il melting pot in cui la credibilità, l’autorevolezza è data non dall’essere autoctoni ma dall’essere “bravi”, creativi, disciplinati, veloci ad apprendere.
Il colore della pelle, i paesi natali importano poco o nulla.
Dobbiamo ragionare ogni giorno su questi concetti quando applichiamo i nostri modelli reazionari ed immobilisti di pensiero nei confronti degli “altri”.
E’ sicuramente una vita grama quella della cucina ma mi pare si eserciti una sorta di laboratorio dell’integrazione costruito sul lavoro, sulla condivisione, sulla fatica e sulle soddisfazioni umane e professionali.
Poche parole roboanti, poca retorica e molta umiltà.
Cosa penserà la gente quando uno chef di cucina straniero con brigata multietnica farà la migliore cucina di tradizione piemontese, lombarda, veneta, campana, siciliana, marchigiana…?
Kempè

Luigi



4 commenti:

  1. Anni fa a Roma assaggiai piatti di tradizione italiana, romana, da L'Arcangelo a Roma perfettamente eseguiti da cuochi indiani, credo di origine bengalese.

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  2. Grande Luigi. Va da sé che il ragionamento si applica anche al vino.

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  3. Mélange di persone mélange di cose e culture realtà degli imperi + grandi e con maggior evidenza con l'impero romano

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  4. Il cibo, il convivio, sono veicoli di cultura e integrazione.
    In Sicilia le brigate multietniche sono già affermate realtà e valore aggiunto ;)

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