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lunedì 9 maggio 2011

nel_vigneto_del_diavolo


Chi è l’amico della Fillossera?


Cosa immaginiamo quando parliamo di vigneto?
Quanti anni pensiamo che viva?
Come pensiamo che le piante che lo compongono siano state scelte, selezionate, propagate?

Cosa pensiamo quando parliamo di vini di territorio, quindi sintesi della coevoluzione e simbiosi fra pedoclima, vitigno e uomo?

Piccolo antefatto: i nuovi vigneti sono costituiti piante composte da una parte radicale che è americana su cui si innesta la parte aerea europea che dà i frutti da vendemmiare.
Questa tecnica agronomica serve a rendere la pianta resistente ad un afide, la fillossera che attacca l’apparato radicale portando alla morte le viti europee.
Ma anche su questo ci sarebbe da discutere.

Se sostenessi con forza che il vigneto è un Frankenstein?
Se non credessi che questi due corpi innestati fra loro siano il meglio che si possa avere dal punto di vista organolettico e di espressione territoriale?


Se facessi notare che ormai gli impianti dei vigneti sono una scelta a tavolino di cloni per i portainnesto da abbinare a cloni (pochi e tutti identici a sé stessi) di cultivar?
Se facessi notare che questi cloni sono stati propagati da vivaisti a chilometri di distanza dal luogo degli impianti?
Se facessi notare che alla fine il vigneto produttivo sarà composta da migliaia di piante ma solo da poche decine di cloni e magari nessuna pianta originaria del luogo?
Se facessi notare che i cloni prodotti da marze sono tutti uguali alla pianta madre (stesso dna)?
Se facessi notare che questa identità è foriera di squilibri e fragilità dell’ecosistema vigneto?
Se facessi notare che i portainnesto americani patiscono molto i terreni calcarei?
Se facessi notare che il 95% dei terreni europei vocati alla viticoltura sono calcarei?
Se facessi notare che la produzione ettaro con i portainnesto è praticamente raddoppiata a fronte di una diminuizione drastica della fittezza d’impianto?
Se facessi notare che un tempo i contadini propagavano le loro piante in perfetta solitudine ed autonomia?
Se facessi notare che di fatto perpetuavano un processo continuo e naturale di coevoluzione fra terreno e la sua microbiologia con le piante ed il loro genoma, dando luogo a decine se non centinaia di geno-tipi e feno-tipi?
Se facessi notare che l’età media dei vigneti si è meno che dimezzata?


Dov’è andata a finire la biodiversità?
Dov’è andata a finire la autodeterminazione e indipendenza del contadino dai vivaisti?
Perché le Università e gli studiosi hanno preso per buona una soluzione transitoria del problema adottandola come definitiva e interrompendo ogni approfondimento ulteriore?

Quante varietà sono state sacrificate nella corsa verso il progresso?
Lasciamo all’andamento pedoclimatico l’onere dell’espressione del terroir in quanto i vegetali sono prodotti paraindustriali o parascientifici?
E noi beviamo o no dei vini Frankenstein?
E voi cosa pensate di queste cose?

Luigi


2 commenti:

  1. quella della fittezza degli impianti non l'ho capita molto!
    cmq, in linea di massima concordo con te, tanto per il discorso sulla biodiversità, quanto sulfatto che a volte i vivai sono l'ambiente ideale per la propagazione di problemi (vedi flavescenza dorata e legno nero).
    concordo sul fatto che la scienza e l'università debbano fare qualcosa, la solzione seclta era necesaria ma mica sarà la sola, soprattutto se pensiamo che fu una scelta compiuta nell'800, all'alba del nuovo millennio saremo in grado di trovare una soluzione ad un afide!

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  2. I coniugi Bourguignon sostengono che in Francia (in particolare in champagne) in epoca pre fillosserica, le densità si aggirassero sui 50.000 ceppi ha e così facendo i pinot noir riuscivano ad estrarre quel poco ferro presente nella craye e si ottenessero vini rossi piuttosto scuri.

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