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lunedì 23 settembre 2013

La leggenda del "vino italiano" - di Riccardo Avenia




Tutto ebbe inizio a luglio, durante le vacanze in Sicilia (in realtà da molto prima). Ero con la mia compagna al ristorante, con l'intenzione di trascorrere una bella serata. Dopo aver ordinato le portate, il cameriere si avvicina per la scelta del vino. Sfogliando la carta, escludendo le storiche industrie siciliane ed i pochi vini "certezza", vedo un'etichetta a me sconosciuta, recante la scritta "Bio". "Massí proviamo", esclamo. Così, dopo aver chiesto qualche delucidazione - rivelatasi blanda a dir la verità - mi faccio portare la bottiglia: uno Zibibbo.

Il cameriere versa il calice. Nessun difetto, il vino è buono. Ricolmato, butto d'istinto il naso dentro e: boom! Senza volerlo, la mia mente parte dall'estremo sud Italia e compie un velocissimo viaggio, fino ad arrivare a Chiusa, in Alto Adige. A quel giorno in cui assaggiai quel buonissimo Kerner. Un vino ben fatto, niente da dire. Tuttavia, nella mia testa, qualcosa non tornava. Come poteva ricordarmi un Kerner? Ma certo: probabilmente il suolo sarà lo stesso, stessa altitudine. Magari i due vitigni in questione sono imparentati in qualche modo. Stessa forma di allevamento, stesso periodo di vendemmia, identico metodo di vinificazione ed affinamento. "Sarà per forza così", mi sono detto. Poco male, accantonata l'idea della nuova esperienza enoica - ripromettendomi di scriverne, rientrati a Bologna - mi sono dedicato anima e cuore alla bella serata che mi si prospettava.

A casa, passo dal blog dall'amico Daniele Tincati di Profumi di Vino e leggo un post - qui - che sembra la fotocopia di quello che avrei voluto scrivere io. Lui però si trovava all'isola d'Elba. Ora siamo già in due a cui non tornano le cose. Oppure anche qui il terreno, il vitigno, l'altitudine... Insomma come sopra: tutto identico. Sì sì, come no!

Successivamente, durante la settimana di ferragosto, mentre l'Italia intera si divideva tra spiaggia e montagna, vengo invitato - in modo forse non troppo felice - a dare la mia opinione sul termine -  nella sua accezione più negativa - di "vino tecnico". Cosa dice a rigurado Wikipedia? Interessante.

Dunque, anche se non sono mai stato ad un Master of Wine, a differenza di alcuni grandi guru del settore, provo a spiegare quello che si intende, o per lo meno, quello che io intendo con questo termine. Perché sentiamo tutti la necessità di chiarire definitivamente. Questo vocabolo ha il diritto di esserci e di essere usato.

Un vino ottenuto da pratiche di cantine eccessivamente invasive: filtrazioni (soprattutto sterili), refrigerazioni, uso di lieviti secchi (magari anche aromatici), solfitazioni elevate (per i più rigidi, basta poca so2 per alterare le caratteristiche del vino), interventi di acidificazioni, aggiunta di tannini, osmosi e, compagnia cantante, possono rendere il vino troppo "uniforme". Lavorazioni probabilmente indispensabili per correggere un'uva di dubbia qualità o provenienza. In altro caso, per unificare le diverse parcelle portate in cantina dai soci conferitori, da un'annata minore, oppure sfortunata. Se poi questi interventi vengono applicati da esperti usciti dalla medesima scuola enologica, con preparati ottenuti dalla stessa azienda produttrice, il vino potrebbe davvero risultare eccessivamente standard, omologato, appiattito o, appunto, tecnico.

Credit by sorgentedelvino.it - un post che consiglio di leggere.



Vini che organoletticamente, al novanta per cento, risulteranno impeccabili, ma che a livello emozionale non varrebbero nulla. Progettati a tavolino in cantina laboratorio, senza anima, senza origine - che in molti casi, in etichetta, riportano la scritta: Vino di qualità prodotto in regione determinata - in cui non ci si trova nessuna sbavatura, ma nemmeno nessun tipo di emozione. Proprio come quello Zibibbo bevuto in Sicilia. Del quale chiaramente, non ne è rimasto nemmeno un semplice ricordo.

Un argomento delicato, dalle molteplici ipotesi e sfumature, ma insomma il risultato spesso non cambia. In ogni caso, se non siete d'accordo, se avete qualche riflessione cui sottopormi, se volete aggiungere qualcosa o raccontare la vostra esperienza: questa è l'occasione giusta. Intervenite e portare il vostro contributo, per noi è importante.

14 commenti:

  1. C'è un libro di P.C. Conti il cui titolo è "la leggenda del buon cibo Italiano" (da cui penso Riccardo si sia ispirato) non è un libro schierato come quelli di Pollan, in fondo l'autore ha un approccio laico con il tema, non è un militante.
    Malgrado ciò vengono fuori chiaramente due aspetti "retorici" e mistificatori su cui si regge la leggenda del buono "cibo"/"vino" italiano.
    1°) la fama del cibo/vino italiano derivano da processi produttivi piuttosto antichi, molto radicati nei territori, figli di metodologie agro/silvo/pastorali arcaiche che hanno generato quello che oggi in pieno linguaggio da "markettari" definiamo le Eccellenze.
    2°) questi giacimenti sono stati tra i primi ad essere industrializzati visto la buona resa economica e gestiti in maniera scientifica/economica.
    Quindi il buon cibo/vino italiano è una leggenda, anzi un ricordo perchè ormai non c'è più traccia dei sapori, mestieri, tecniche, saperi che hanno generato i miti della nostra alimentazione, tutto è ricaduto nel processo e nella mercificazione.
    Provate a sostenere il contrario!

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    1. Luigi, non mi sono ispirato assolutamente al libro che citi. Non l'ho neppure. Ma sto già rimediando:
      http://libreriarizzoli.corriere.it/La-leggenda-del-buon-cibo-italiano-e-altri-miti-alimentari-contemporanei/80.sEWcWicgAAAEpIyxgjLC9/pc?CatalogCategoryID=RhWsEWcWbs8AAAEpqHkfmqGA

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  2. Grazie Riccardo di aver, in qualche modo, ripreso il discorso che avevo iniziato io col post sull'Elba.
    Mi rendo conto che il mio naso sta diventando un pò troppo esigente, come penso anche il tuo, e ci sono milioni di persone che apprezzano quei vini.
    Il punto è che è possibile comunque diversificare la produzione, valorizzando le caratteristiche della zona di produzione e, magari, del vitigno.
    Faccio un'esempio semplice, di casa mia.
    La Malvasia Aromatica di Candia che dalle mie parti viene vinificata per la maggior parte frizzante, trova un'abbinamento perfetto con i piatti del territorio.
    Molti produttori della zona stanno facendo delle versioni ferme, che assomigliano più a vini friulani che dei Colli di Parma e, perdipiù difficilmente abbinabili con i piatti locali.
    Che senso ha ?
    E' un semplice esercizio di stile ?
    Ci sarebbe anche qui il discorso, più legato al tuo post, dell'uso di lieviti selezionati e del metodo Martinotti, anche perchè la tradizione sarebbe quella della rifermentazione naturale in bottiglia.
    L'argomento è complesso, tenendo in considerazione il fattore economico che porta molti produttori a seguire la strada più semplice della certezza, quella di monetizzare il prima possibile, cioè trovare il mercato per il proprio prodotto.
    Come biasimarli ?
    E se il mercato richiede Kerner o Muller Thurgau da abbinare al pesce della Sicilia ?
    Certo che se poi uno assaggia lo Zibibbo di Nino Barraco, allora le cose cambiano.
    Si deve fare informazione, fare si che la gente torni a riscoprire i vini come erano prima dell'avvento della tecnica industriale invasiva.
    La gente deve riscoprire i gusti di un tempo.
    In questo modo anche chi segue il mercato sarà costretto ad adeguarsi.

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    1. Daniele, sulla Malvasia di Candia che assomiglia ad alcuni Friulani, penso di capire a chi ti riferisci. In quel caso si sposa di più la filosofia del produttore che la riconoscibilità territoriale e/o della tradizione.

      Il metodo Martinotti - come sai bene - è un'evoluzione del Metodo Classico. Non penso che Don Pierre Pérignon - senza entrare nel merito di chi abbia realmente scoperto il suddetto metodo - a suo tempo abbia usato i lieviti selezionati.
      In ogni modo, non limiterei la questione del vino tecnico ai soli lieviti. Ben vengano i selezionati, nel Martinotti, nel Classico o nei vini fermi. Purché non influenzino eccessivamente il risultato. Ci sono tantissimi vini straordinari ottenuti con i lieviti secchi.

      Non biasimo di certo i piccoli produttori che lavorano duramente per arrivare a fine mese.
      Biasimo chi ha il potere, le grandi potenze, chi con i soldi riesce comunque ad ottenere tutto ciò che vuole. Magari diventare persino bioqualchecosa.
      Quello che noi divulgatori del vino possiamo fare, come scrivi, è fare informazione corretta e sincera.

      Le parole che scrivi:
      "Si deve fare informazione, fare si che la gente torni a riscoprire i vini come erano prima dell'avvento della tecnica industriale invasiva.
      La gente deve riscoprire i gusti di un tempo.
      In questo modo anche chi segue il mercato sarà costretto ad adeguarsi." Le condivido totalmente e non mi stanco mai di ripeterle.
      Grazie per il bel commento.

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    2. Non volevo riferirmi specificatamente a chi pensi tu, al di là dei macerati, ci sono un sacco di vini pesanti, ,carichi di alcool e senza capo ne coda. Quello per lo meno è originale e personalissima interpretazione del produttore.

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  3. Quindi se non ho capito male, Riccardo, hai assaggiato uno Zibibbo Biologico ch ti ricordava un buonissimo Kerner bevuto in A.Adige e quindi una sorta di "fotocopia enoica" che non ti ha convinto nè emozionato. Uno zibibbo probabilmente molto asciutto. Basta questo per definirlo "vino tecnico" e omologato? Non credo.

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    1. Maria Grazia mi pare ovvio che non è uno Zibibbo che pare un Kerner o un Cannonau che pare un Bardolino a fare la regola. Epperò di esempi così se ne incontrano davvero tanti (almeno quasi ogni volta che mi capiti di bere un bottiglia di vino industriale (evento per fortuna raro)). Ecco quindi che una coincidenza, magari clamorosa, sia poi un modo di raccontare tanti indizi e così didascalicamente di raccogliere prove.
      Il paradosso suggerito da Riccardo e di cui Luigi ha dato un'esegesi in effetti è proprio quello di aver imposto dei canoni di qualità ai vini, fino al punto che fossero loro a caratterizzare il gusto, prima ancora che i vitigni e i terroir e i viticultori... ma e qui secondo me è il valore aggiunto della riflessione proprio quei canoni di "qualità" così generici (ma così invasivi) sono diventati i criteri secondo i quali si attribuisce poi un titolo di territorialità e di tradizione, come dovrebbero essere le denominazioni di origine. E lo stesso sembra capitare anche in altri settori dell'alimentazione.

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    2. Se pensiamo anche alle stesse denominazioni che (si, con maglie molto larghe) "impongono" colore del vino che in alcuni casi e alcune annate è doveroso ritoccare per rientrarvici

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    3. Maria Grazie, grazie per essere passata anche nel blog a commentare.
      Niccolò mi ha anticipato. Sto comunque notando che in molti si sono soffermati sull'esempio dello Zibibbo/Kerner, facendo passare in secondo piano il succo del post.

      L'intento, oltre a spiegare ed eventualmente leggere i pareri altrui, sul termine "vino tecnico". Oltre a sensibilizzare il lettore sull'omologazione del gusto, era quello di far capire quanto sia importante essere in territorio vocato alla viticoltura. Se non ci si trova in tali zone, spesso e volentieri intervenire è d'obbligo. La pianta da sola non ce la fa a produrre qualità. Di conseguenza sarà necessario intervenire anche in cantina per bilanciare e rimediare ad un'ipotetica uva non all'altezza. È, ad esempio, come piantare degli ulivi nella mia zona (Pianura Padana Bolognese) e pretendere che le piante crescano sane e ne esca dell'olio di qualità. Improbabile.

      Purtroppo su questo argomento le sfumature sono tante: enologi che fanno vino come piace a loro, critici internazionali che con il loro credo fanno andare l'ignaro produttore verso una determinata strada e, per dire, disciplinari - come scrive Andrea qui sopra - che ti obbligano ad intervenire per avere il colore come da regolamento. Tutto questo e molto altro ancora, per sostenere un'economia gigantesca che ormai gira solida attorno al mondo del vino e dell'enogastronomia in generale.

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  4. Partiamo da qua: il Kerner viene dal Traminer-padre e si è sviluppato con la domesticazione secondaria della vitis vinifera, quella (per intenderci) che è finita in Europa Centro-Orientale senza passare per il Mediterraneo, mentre lo Zibibbo è uva-padre venuta direttamente dal Medio Oriente e domesticata con le colonizzazioni fenicie e greche, si è fermato in Nord Africa, diventando l’uva simbolo dei popoli mediterranei e mantenendo, infatti, fino ad oggi l’appellativo di Moscato di Alessandria.
    Quindi parentele genetiche no, proprio pochine.

    Cosa ci rimane?

    1) La terra: anche se i due vini avessero avuto – per pura coincidenza – un suolo identico, con la stessa composizione di sostanze minerali e organiche, rimane pur sempre l’influenza del clima, che (per fortuna) ancora l’uomo non riesce a modificare sensibilmente, e che impronta a se stesso ogni vegetale, animale, fungo, microorganismo che vive nel suo ambito.

    2) L’uomo: ecco il problema. L’uomo che sceglie la tecnica di coltivazione e vinificazione e gli (eventuali) additivi da utilizzare. Due vini identici per me sono un problema culturale, più che un problema di prodotto. Mi spiego meglio: sia che io voglia cercare di riprodurre uno “stile” adottando un particolare protocollo enologico, sia che io voglia realizzare il mio vino secondo la mia personale idea, forzando – attraverso lavorazioni particolarmente invasive - la sua identità e modificando le sue caratteristiche, devo essere consapevole, quando lavoro, che il mio approccio è oggettivamente in grado di influenzare sensibilmente il risultato finale della vinificazione.

    Quindi, forse estremizzando un poco il concetto, non è un problema di COSA uso (lieviti, tannini, filtrazioni e via dicendo), ma di COME uso i prodotti che scienza, tecnica, natura mi mettono a disposizione.

    Sono una che usa lieviti indigeni, pochissima chimica e poca tecnologia, ma non per questo credo che la chimica o la tecnologia siano necessariamente il male assoluto.
    La domanda che, secondo me dobbiamo porci tutti (produttori, critici, appassionati, consumatori) è: voglio un vino che parli di sé e della sua terra, o voglio un prodotto che parli di chi l’ha fatto e di chi lo berrà?

    E la risposta non è così scontata come sembra.

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    1. E' vero Marilena, la chimica e la tecnologia non siano il male assoluto. Dipende come vengono usate. Già perché come dice giustamente Riccardo ci sono occasioni in cui sono necessarie (cattiva annata, cattiva uva).
      Ma io credo che chi fa vini tecnici li fa ad ogni vendemmia, indipendentemente dalle situazioni agrometereologiche.
      Perché vuole il SUO vino.

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    2. Sono d'accordo con te, Andrea: chi decide di lavorare in maniera da fare un vino "tecnico" lo fa per scelta, non per necessità.
      E' vero che qualche vendemmia può essere sfortunata, ma non è scritto da nessuna parte che tu debba farlo per forza quel vino. Puoi fare altre scelte sia produttive che commerciali. Perché sennò rischi, per salvare una vendemmia, di ammazzare il lavoro di una vita.

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    3. Marilena, la risposta alla tua domanda:
      "voglio un vino che parli di sé e della sua terra, o voglio un prodotto che parli di chi l’ha fatto e di chi lo berrà?" sta nel mezzo. Nel senso che, chi compra il tuo vino, (ti prendo come esempio) vuole sicuramente un vino autentico e che richiami il territorio. Ma è anche vero che sposa un po' il tuo personale credo e metodo di vinificazione. Che non sarà mai uguale a quello del tuo vicino di vigna, che magari lavora e la pensa in tutt'altro modo.

      Per il resto, come ho già scritto altrove, sono d'accordo con voi: la tecnologia e l'uso di determinati metodi o prodotti, non sono il male del vino.

      Grazie per il contributo e per le spiegazioni sui suddetti vitigni.

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  5. Non lo so Riccardo, non credo sinceramente che la risposta stia nel mezzo, o forse non mi sono espressa chiaramente. Cerco di precisare.

    A volte degusto vini prodotti da questo o quell’enologo e, nonostante siano fatti con uve differenti in territori differenti, si assomigliano pericolosamente, fino al punto da essere poco distinguibili fra di loro. In questo caso, i vini sono fatti per somigliare a chi li fa e perdono completamente di vista il terroir.

    Altre volte, i vini vengono pensati solo per piacere a chi li beve, e quindi vengono impostati in base a precise ricerche di mercato per avere un gusto e un profumo che (si pensa) possano essere graditi ad uno specifico segmento di mercato.

    Poi, se una persona che sceglie il mio vino lo facesse non solo per il vino in sé, ma perché crede nel mio modo di lavorare, non credo questo automaticamente significhi che il mio vino mi somigli, almeno nel senso che ho cercato di spiegare prima…
    Sono comunque concetti difficili, sui quali sto molto riflettendo in questo periodo.
    M.

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