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mercoledì 10 giugno 2015

I “non spazi” * e la narrazione del vino


Ovvero dell’aporia della territorialità estrema che si invera nel nulla assoluto.
 






















E’ un po’ che penso, almeno ogni volta entro (virtualmente) in facebook o instagram o twitter o linkedin o in questo blog,  al fatto che il vino, in particolare quello “minoritario”, chiamatelo se volete “naturale”, abbia eletto come bacheca principale per la comunicazione e dibattito i moderni tazebao 大字报 virtuali.
Questi “non spazi” immateriali, liberi, pervasivi sono uno strumento potente e relativamente democratico, gratuito e disponibile per chiunque, in assenza di fondi e uffici comunicazione, abbia qualcosa da comunicare.
Il movimento degli appassionati e dei produttori di vino “naturale” ha da subito cavalcato l’onda, intrecciando, come se tutte queste piattaforme fossero un unico “testo” anzi un “ipertesto” infarcito di link, le proprie narrazioni su e del vino.

- Ciò che mi ha colpito in primo luogo è che questo movimento ha da sempre avuto come obiettivo la rinascita del territorio (pensiamo alla “Renaissance des Appelations” nata in Francia ad opera di Nicolas Joly), per mezzo della terra, della sua vitalità e del fare artigiano in opposizione alla concezione a-territoriale, business-oriented della viticoltura agro-industriale (o agro-eno-tecnica).
La novità è stata quella di avere nei propri protagonisti e fiancheggiatori delle persone laiche che invece di abbandonarsi ad un rifiuto luddista e antimoderno, hanno fatto proprio e usato per primi
 e forse meglio di altri, le risorse delle nascenti piattaforme web, le quali prima di essere degli strumenti di satana, sono delle tabulae rasae da riempire di contenuti.
Il tentativo (cosciente o incosciente non saprei) è stato, e qui compare netta l’incredibile e irriducibile differenza fra web e produttori naturali, quello di comunicare, raccontare un oggetto reale, locale, unico, irripetibile, solido: il territorio e la sua espressione enoica attraverso il nulla conclamato dei bites, della rete, i non spazi di cui accenna F. Bonami.
Un ossimoro, un controsenso che ha dato frutti e ha creato una grande quantità di luoghi virtuali ad alto contenuto culturale e ha stimolato confronti fra pari (questa estrema uguaglianza dei frequentatori del web è la causa del maggiore scontento e livore da parte delle caste dei giornalisti e degli enotecnici soloni a cui non va proprio giù di essere rintuzzati e contestati da “carneadi” senza credibilità).

Gli “spazi” hanno avuto voce grazie ai “non spazi”

- Ciò che mi ha colpito in secondo luogo è che l’uso dei social network, al di là delle preferenze soggettive, è quasi sempre multiplo, contemporaneo e le narrazioni sono infarcite di link ipertestuali che creano una galassia di riferimenti e di percorsi di senso.
Solo la rete ha dato la possibilità, sempre sognata da parte dei narratori ma irrealizzabile con il solo hardware (carta e penna) di costruire un’opera aperta, infinita, infinitamente modificabile, democratica, libera.
Un sogno realizzato?
Una babele in cui il senso si perde nella proliferazione parossistica dei contenuti?
Non saprei, di sicuro è un’opportunità da sfruttare sino in fondo (sempre che ci sia un fondo).
- Ciò che mi ha colpito in terzo luogo è che sui social network e sui blog indipendenti (non i banner, quelli sì che sono biechi mezzi pubblicitari) la comunicazione dei contenuti anche commerciali è fatta con parole, strategie diverse da quelle tradizionali degli uffici di comunicazione. C’è meno professionalità, meno neuro marketing e più ingenuità e curiosità che cerca appagamento e argomenti credibili e ben raccontati.
E’ anche vero che ormai ogni nostro “viaggio” sulla tastiera è tracciato e le pubblicità che appaiono sui banner sono sempre costruite sui nostri interessi, ogni medaglia ha il suo rovescio.

*il termine “non spazi” riferito a facebook, instagram e twitter l’ho letto in un articolo di Francesco Bonami “Davanti a una sua opera ci si chiede non cosa è, ma dove siamo” su La Stampa n°146, pg 25, Torino, 28 maggio 2015 e l'ho prontamente copiato e storpiato.

5 commenti:

  1. interessanti considerazioni..solo un appunto: la comunicazione "professionale/tradizionale" del vino è, francamente, molto, molto arretrata, se comparata ad altri settori (del resto, la dimensione media delle aziende medio/grandi e grandi nel vino è piccina rispetto a questi altri settori), e quindi non spenderei termini come neuro-marketing: spesso, questa comunicazione è affidata alla nipote che ha studiato un po' di PR, o ha studiato qualcosa, ovvero a piccole agenzie/piccoli studi molto, molto artigianali..ciò che viene dunque definita come segnata da "più ingenuità e curiosità" è in verità una comunicazione più moderna e, sì, sofisticata: non credete?

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  2. Gli spazi, i non spazi, il livore della casta, i "biechi" mezzi pubblicitari".
    Cosa hai bevuto di preciso ieri sera? :)

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    1. Non ricordo, sarà grave?
      Perchè leggi in negativo un post che è positivo?

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  3. Ma perché non si può leggere "livore della casta" nel 2015, dai.
    Te lo sto dicendo col sorriso eh :)

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    1. Filippo io ho letto il post stamattina e mi ha lasciato col sorriso, perché è bello leggere il nostro boss, sereno e in vena tutt'altro che polemica, che filosofeggia su argomenti di enoica quotidianità. Il "livore della casta" mi par quasi un espressione ormai attuale e necessaria. Le caste in Italia, per fortuna, hanno motivi di livore in questi ultimi tempi (vedi anche Uber, per esempio) e quindi vedo l'aggettivo pertinente. Il passaggio sulla pubblicità mi pare metta in evidenza come certi tipi di valori abbiano bisogno di un racconto più che di un calcolo psicosociale per fare presa. Insomma proprio oggi che Luigi è tranquillo me lo vuoi "scaldare"? ;-)

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