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lunedì 2 febbraio 2015

Il tempo, il ricordo, il progresso (la retorica del),


Negli anni settanta-ottanta, ad agosto, mia mamma si dedicava alla raccolta della frutta e alla sua trasformazione in marmellata. Raccogliere la frutta matura direttamente dall’albero era una esperienza sensoriale incredibile sia per il sapore sia per la impagabile sensazione di autonomia alimentare che dava.
Era bello pianificare le nuove piantumazioni e salutare le vecchie piante ormai esauste (i peschi, ad esempio, piante generose e belle hanno purtroppo una vita breve a differenza di ciliegi, noci, meli, peri, fichi, cachi).
A dire il vero la raccolta era faticosa e, vista la mia pigrizia, non mi esaltava, però il risultato finale: la marmellata era una scheggia di sole fondamentale per attraversare gli inverni nebbiosi.

Poi,
un giorno, a casa di un amico, assaggiai una marmellata, sempre “di casa” ma completamente diversa!
Una sorta di gelatina quasi trasparente che teneva in sospensione dei pezzi di frutta, i quali avevano la consistenza e il sapore del frutto quasi crudo!
Rimasi colpito da questa innovazione tecnica*, mi feci spiegare come replicarla e convinsi mia madre l’estate seguente ad utilizzare la nuova metodologia produttiva.

Acquistai della pectina in buste e via verso un “nuovo e migliore” orizzonte organolettico! (in noi occidentali è radicato il concetto abnorme e irreale del progresso continuo, del futuro che sarà sempre meglio del passato per cui il “nuovo” sarà sempre meglio del vecchio e dimentichiamo che il futuro non esiste, le uniche cose che possiamo conoscere sono legate al passato!).
Devo dire che subito la nuova marmellata mi piacque molto, manteneva la freschezza di frutto appena colto, una acidità maggiore e una croccantezza superiore.
Però a distanza di mesi questa esasperata crudità (che peraltro scemava e mutava non sempre in meglio) sembrava anomala, caricaturale, assurda.

Oggi dopo venticinque anni, quella esperienza tecno-organolettica mi è sembrata didattica se riferita al mondo del vino che pare ormai spaccato fra i soliti “tecnici” e i soliti “artigiani” e questa spaccatura mi ha sempre lasciato il dubbio che la mia visione (pro artigiani) fosse arcaica, reazionaria e che la mia avversione verso i propugnatori della tecno-scienza-perennemente-innovatrice fosse errata, antimoderna.



L’ossessione dei tecnoscienziati è quella di essere sempre e comunque portatori di un fattore di miglioramento legato esclusivamente al circolo vizioso della novità tecnica vista come miglioramento in quanto “novità” tout court!
Invece di lavorare sull’esistente e affinare i processi produttivi provenienti dall’esperienza, hanno deciso di sostituire la “memoria”, ritenuta retrograda, con il “nuovo”, con un processo continuo che quasi mai guarda indietro e raramente integra i saperi.
Questo ossessiva  sostituzione del passato e delle sue tecniche con altre sempre più recenti, ha portato ad un processo “culturale” che genera oblio e ignoranza e ad un processo “produttivo” che genera la perpetua obsolescenza degli impianti e delle attrezzature e dei protocolli (la manna per i venditori di tecnologia).
Non ci accorgiamo che spesso la “nuova tecnologia”, prima che essere una risposta ad un problema, è la risposta al mercato dei venditori, i quali supportati da “studi mirati e pubblicazioni scientifiche” creano la necessità di acquisto dei nuovi macchinari nei produttori sensibili al mantenimento della “contemporaneità”.
Un anno fa una mia cara amica produttrice mi disse che era entusiasta del nuovo enologo che aveva portato in dote una nuova tecnologia per produrre una malvasia frizzante ancora più fruttata, floreale, profumata.
Ci ho ragionato un anno prima di decidere che mi pare una follia affidarsi alla tecnologia per esaltare il varietale di quell’uva, negandole la complessità di altre componenti.
Probabilmente, avrei provato a vinificarla come un rosso normale per esplorare la profondità dell’acino completo e non mi sarei fermato alla superficialità dell’aroma primario, ottenuto oltretutto con gran dispendio di energia e mezzi.
Perché puntare alla semplicità, con derive banali, con costosi mezzi tecnici quando si può raggiungere grandi complessità con minimi mezzi tecnici?
E soprattutto perché dimenticare?
Perché sostituire invece di manutenere e migliorare?

Luigi

4 commenti:

  1. Bello scritto. Ai tempi si facevan marmellate non per esperienza sensoriale. Si facevano e basta. Il punctum dolens è l'ossessiva ricerca di consenso. Di qui consegue quanto tu descrivi con cuore. Ciao.

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  2. Caro Luigi,
    ho apprezzato , sento il tuo sentimento e l'ancestralità del 'gusto' dei misteri della vita che ti è dentro . Non ci sono competizioni da avviare, il valore rimane quello che abbiamo noi e,qualche volta, anche per l'opportunità di poterlo comunicare agli altri..ma non tanti son 'maturi' per capire e la giostra continua. Forse avrai letto il libro di Pollan "Il dilemma dell'onnivoro": se non , te lo vorrei regalare. ciao

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  3. Ciao Luigi, centrato in pieno!.Nella semplicitá le migliori soddisfazioni. E' arrivato il tempo del togliere. Viva il salasso! A presto!

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  4. Grazie di essere passati dal bar oggi.
    Lorenzo parlare con te quindici anni fa ha dato il via alla concezione che ho oggi dell'agricoltura e della viticoltura, reincontrarti due anni è stata una seconda illuminazione, assaggiare i tuoi un privilegio che custodisco nel cuore.
    Pollan l'ho già letto avidamente, comunque è come se a regalarmi il libro fossi stato tu.

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