Pagine

martedì 9 dicembre 2014

FORNOVO 2014: AVANTI AL CENTRO CONTRO GLI OPPOSTI ESTREMISMI

Fornovo è la Festa dell’Unità del vino naturale. Cioè, non quelle di adesso, le feste-democratiche-poi-ritornate-feste-dell’unità. Le vecchie Feste dell’Unità. Dure e pure. Dove si magnava tanto, certo, e si ballava il liscio e ci si buttava sul tombolone e se bevevi troppo e iniziavi a disturbare venivano i portuali ad accompagnarti all’ingresso. Ma dove poi c’era il dibattito.
Venivano i dirigenti e si parlava di Palestina, di diritti dei lavoratori, di statuti e sol-dell’avvenire. E i compagni si incazzavano, chiedevano, rompevano le palle, lodavano, criticavano. E poi, tutti insieme, si finiva ad ingurgitare quantità industriali di cappelletti e sfuso rosso friccicarello sotto il tendone e passavano le cuoche e davano ai dirigenti pacche sulle spalle  (che erano, indubbiamente, molto larghe) e dicevano, “Mi raccomando…” e fissavano quei dirigenti con aria gioviale e torva.
Fornovo è la festa dell’unità di un mondo che, in effetti, a volte ha poca unità ma che dibatte tanto. E’ una festa che si ripete ogni anno uguale a se stessa. E questo è bene. E questo è male. I palloncini a forma di grappolo all’esterno. L’effetto tendone-che-rimbomba che verso le 13 diventa molto utile il linguaggio dei segni. I secchi sputacchiere che fanno tanto Casa-Delle-Libertà, sputiamo un po’ dove cazzo ci pare (cit.). I banchetti tutti uniti strettistretti. Un abbraccione collettivo a volte soffocante e frastornante. Ma è amore. Perlopiù. Quindi chissene.
A Fornovo 2014 quell'ammmore si è respirato nonostante i blogger cazzari e blogger cazzuti e i wine critics e i wine journalists. Nonostante la crisi e nonostante le ombre nei vini e le (tante) luci. Nonostante il numero di produttori sia aumentato a livelli da tangenziale-alle-18 e le sorprese siano ridotte e ci si affidi al caldo rassicurante delle conferme. Insomma, poco di nuovo sotto il sole. Ma è pur sempre il sol dell'avvenire.
E a Fornovo si respira un senso di fine della critica, una sospensione del giudizio e tana-libera-tutti da ultimo giorno di scuola. Liberatoria. In un senso. Desolante. In un altro. Agrodolce, riassumendo.
Insomma, ci si diverte tanto, vedi gggente e saluti amici e bevi e sputi e sputi e bevi e dibatti. E così partecipi al tombolone finale sentendoti parte di qualcosa.
Ah, ecco cos’ho pescato dalla saccoccia dei 144 (circa) vignaioli per il tombolone delle valutazioni.
E, ah, non ho vinto niente.


(nota esplicativa del mischione di colori buttati sulle seguenti righe:
diciamo che per favorire un approccio agile e “easy” alle note degustative che interessano mediamente tanto/poco/nulla (cioè, non l’ho ancora capito), in ogni scheda aziendale sarà simpaticamente colorato di verde il nome del produttore nel caso di un giudizio globale positivo, di viola in caso di giudizio chiaroscurale, di rosso come negativo.
E’ chiaro che la Direzione non si assume responsabilità e si scusa per l’obbligo di dover effettivamente leggere le schede in caso di daltonismo.)


Toh. Costadilà. Che mi fece ammalare qualche tempo fa. E il virus mi deve essere rimasto dentro. Con una batteria di rifermentati 2013 da capogiro, in salita gustativa nell’empireo dei migliori vini tout court. 330 SLM che sprizza e sprazza e sotto tutta quell’acidità avverti materia e frutto. Il 450 SLM  e il 280 SLM che scazzottano per dire “Prima io, prima io!”, col primo che controlla l’acido partendo da un turbo-naso e immette toni floreali e rugosità e dolcezza a fine sorso; e il secondo che scavalla l’asticella del 2012 e parte dritto per la Hall Of Fame dei VPD (Vino Per Deficienti), una bibbita frizzo-orange da convertire un astemio.

Patrick Uccelli. Alias, Tenuta Dornach. Di cui si favoleggia da qualche mese di un Gewurztraminer macerato sulle bucce. Ma ci arriviamo subito. Prima i Pinot. Il Bianco che esibisce una buona precisone, gioca molto sull’equilibrio perdendo in grip e complessità, una dinamica gustativa un po’ zoppa. Il Nero in edizione interlocutoria, aromaticamente abbastanza elementare e la bocca rientra nella media di un discreto AA. Il macerato: esperimento (?) su un aromatico come il traminer che centra alcune cose e sbarella su altre. Gli odori pompati della rosa canina, dolci e in un sottofondo buccioso/amarognolo, e la sensazione amara che si amplifica e blocca il finale in deglutizione assieme ad altre scompostezze alcoliche.

Dario Princic. The King. Chevvelodicoaffà.Con i 2011 a consolidare una vetta gustativa assoluta. Chiamateli orange, macerati, antichi, bucciosi. Chiamateli come vi pare ma difficile trovare bevande più addictive. Vini che riscrivono l’universo sensoriale e cosmopolitizzano il vino, abbattono le barriere e peccato per chi non li capisce. E il Jakot, saldo e vertiginoso sotto ogni parametro, a sbancare la fiera (e il tombolone).

Podere Pradarolo. Per restare in topic. Uno dei Signori del Macerato Emiliano. Carretti sfodera la solita batteria da slurp con la Malvasia di Candia Vej. 05 puro highlander orange, sempre saldo e da innamoramento. 06 che perde qualcosa in equilibrio, ossidazione sul filo. 07 e la nuova 11 dove, tra polpa e frutto, il tannino scalpita e morde. Rossi sempre in via di definizione, con un trittico di barbere sfuocate e un interessante primo imbottigliamento di croatina, massiccia e appena sovratannica. Un viola parecchio mischiato di verde per quei campioni chiamati Vej.

Aiò. Giovanni Montisci. Il sardo garagista che puntò dritto al petto e sparò col Barrosu Franzisca 2010. Ho ancora quel proiettile nel cuore e aspetto altri colpi e proprio per questo quel rumore sordo l’altro giorno mi ha spiazzato. E’ che qui siamo sul piano delle aspettative, di un’asticella che Montisci ha alzato a certi livelli. Giovanni, è colpa tua. E se il Franzisca 12 non è a quel livello (come pure la 11), se scende di qualche gradino, il fanboy che è in me un po’ di dispiacere lo prova. Intendiamoci.  A livello di intensità e ampiezza aromatica, pochi competono. Una slenzuolata di rimandi aromatici, frutta e spezie, nani e ballerine. Spinti dal turbo di un alcool avvolgente ma anche appena fuori registro, che brucia un finale altrimenti da fin absolue du monde. Ma comunque, nonostante tutto, uno degli assaggi della giornata.

Poi Togni Rebaioli. La visita da El lumbard questa volta è stato dicotomica. Lui il solito vulcano energico e coinvolgente. Lui che lotta "alla periferia del mondo del vino italiano di qualità" (cit.) in una Italia che a livello vinicolo è un 90% periferia e a cui bastano le sue vigne e la sua volontà e la sua competenza per essere un'altra tessera di quel meraviglioso mosaico che l'Italia dei vini. Enrico Togni che trasmette pura passione. E i vini invece in questa fase mediamente stanchi, con ossidazioni al limite e acidità un po’ troppo slegate. E poi la sensazione di un discorso che riprende dopo questa interruzione con le fragranti e centrate anteprime dei 2013.

Emidio Pepe. Se non capisci i vini di Emidio sei scemo. Così mi disse una mia amica abruzzese mentre mi sgollavo un Montepulciano ‘08 e un Trebbiano ‘09 alla fiera di Torano (qui i resoconti di quei due fari-nella-notte). E più che scemo mi sentivo un bambino felice, si, magari un bambino scemo ma comunque felice. Quella scintilla poi non s’è più spenta. Certo, con annate minori e maggiori. Ma difficile rimanere delusi dai vini di Pepe. E quindi conferme su conferme con un delizioso, carnoso, fruttoso Trebbiano ‘12 e con i didattici Montepulciano ‘10 e ‘11, dove nell’11 rivedo tanti rimandi alla favolosa intesità e dinamicità del ‘08. Unico neo un poco centrato Pecorino, il bianco new-entry che continua a mostrare brucianti scompostezze e flaccidità di beva. Ma si tratta, appunto di un neo ed Emidio può giustamente affermare: “La Storia sono io.”


Cappellano. O Mr. Chinato. Parto dal fondo perché il suo Barolo Chinato fatto non si sa come, sapete, ricetta segreta, e per me ci possono pure sputare dentro come Celentano in quel film, avete capito, no?, vabbè, rimane una delle cose più gustose che si possano bere urbi et orbi. Prima una barbera in anteprima che è una rasoiata acida e regolarsi di conseguenza. Poi due Barolo 09, il Pie Rupestris e il Piè Franco, entrambi in edizione più consistente del solito, consistente ma non massiccia (claro…), fedeli comunque al loro stile vino-che-sussurra-agli-uomini, rifrazioni minime certamente poco adatte ad un mordi-e-fuggi da fiera, animali non da competizione, nel bene e nel male.


Massa Vecchia. Mumble mumble. Grattata di testa. Reduci da qualche annata minore, ancora nella testa le magnificenze post-2000, anche a Fornovo le sofferenze continuano, specie nei due capisaldi. Il Bianco mostra la consueta consistenza declinata sul floreale ma la bocca fatica a partire, ad innescare il virtuoso circolo dolcezza/amaro-acido. Il Rosato (lui si comunque affidabile e costante in quasi ogni annata) pure lui si mostra in una veste dimessa, aromaticamente chiuso (e può essere una fase) e bocca in lieve ossidazione. Resta da capire se trattasi di conseguenza di annate o qualche cambiamento in in vigna/cantina. Per quelli che restano, comunque, tra i duri-e-puri del naturalismo.


Radikon. Un piacere enorme rivederlo in fiera. Autore di mitologie vinicole come la strepitosa batteria dei 2004. Pioniere, o forse solo uomo curioso e legato a doppio filo alla sua terra. Uno che dal solco della tradizione prova, sperimenta, dilata e restringe i tempi di macerazione, si inventa formati diversi delle bottiglie e tappi su misura (quel 0,50 litri che ottimizza il rapporto vino/aria a livello di una magnum). E che qui porta tutti i 2007 in bella mostra sul banchetto. Che sono in fase interlocutoria, over-tannici e di espressività ridotta, forse bisognosi di tempo o forse no. Ma che poi tira fuori uno Slatnik ‘12 esemplare, rugoso e glicerinoso, toccato dal nerbo acido per allungare un sorso godurioso. Un brindisi al passato, presente, futuro.


E poi Le Coste di Gradoli e rezpect per Gian Marco e Clémentine. Perché ci sono i Sorcini e ci sono i Litrozzini e i primi cantano “I migliori anni della nostra vitaaaa…” e i secondi “I migliori vini della notra vitaaa…” E da Litrozzino da poster sul muro e t-shirt addosso, posso solo giustificare la mia passione per il combo laziale con una batteria di vini sempre più centrati, una batteria che è un work-in-progress tra esperimenti e conferme, sempre sotto la bandiera del pasdaranismo naturalista, 0 trucchi e tanto lavoro in vigna. Bianchetto ‘13 e Rosato ‘13 con quel passo da vino quotidiano, mai ruffiani ma nerbuti e innervati da una spinta acida per ripulire gli eccessi e predisporre al nuovo sorso. Bianco ‘12, Bianco R ‘11 e Le Vigne Più Vecchie ‘10 che sono variazioni sul tema del Procanico (più tagli vari ed eventuali), vini più concettuali (Antonuzi dixit) ma concettuali senza troppe seghe (semper Antonuzi dixit), ragionamenti sui singoli vigneti, sui contenitori, sui tempi di raccolta e di maturazione che portano magari meno immediatezza ma aggiungono stratificazioni e complessità. E il Rosso ‘12 e ‘13 croccanti vin-de-soif che uniscono Gradoli alla Loira, clorofilla e frutto, tannino e dolcezza per i nostri produttori più europeisti.

E poi i tanti (ri)assaggi al volo, come Voltuma con un Pinot Nero che spara il Mugello dritto nell’empireo dei migliori terroir italiani per quest’uva, dove la maturita del frutto fa da sponda ad una bocca velluto; come Stefano Amerighi, il Signore Dello Syrah, che con l’Apice alza ancora l’asticella e spalleggia il Rodano come opulenza e carnosità, il cui unico appunto può essere solo uno stile che lo porta a fronteggiare le talcature e dolcezze di un Auguste Clape anziché andare verso quella dinamicità elettrizzante di un, per rimanere sul Cornas, Thierry Allemand; come Casa Belfi e il Colfòndo Anfora o SPQV (Sono Pazzi Questi Veneti), dove alla consueta pulizia del suo Prosecco qui si unisce una certa rugosità gustativa, un tentativo (assolutamente riuscito) di ampliarne il profilo gustativo, della serie "piccoli 280 SLM crescono"; come Bera e il solito Moscato d’Asti che sembra ridefinire una categoria e una Barbera muscolosa e acida eppure in equilibrio, sapida e marcata da quel timbro dolce molto Canelli, e il nostro amato Dolcetto Bricco Della Serra il nostro piccolo vulcano in mezzo al Piemonte; e tanti e tanti altri e anche tanti francesi ma per una volta facciamo gli italocentrici. Compagni, siamo pure alla Festa dell’Unità...

4 commenti:

  1. Ciao Eugenio . Gabriele del boteghin

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ciao Gabriele, un piacere risentirti anche solo via web. E sicuramente a presto, quando tornerò dalle tue parti e piazzerò una tenda nel tuo locale e mi berrò la tua carta dei vini dalla A alla Z :-)
      PS: se non l'hai letta, qualche riga che non rende fino in fondo il piacere di stare da te l'ho scritta qui http://gliamicidelbar.blogspot.it/2014/10/ghost-wines-bootleg-series-vol-1.html

      Elimina
  2. Si , l'ho letta e ti volevo ringraziare per le belle parole.. Lo faccio ora .. Ti aspetto :)🍷🍷🍷

    RispondiElimina