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mercoledì 17 ottobre 2012

La campagna che ci azzecca con i formaggi? Ragusano Dop II° parte




“la campagna
Non ho molto da dire a proposito della campagna; la campagna non esiste è un illusione.
Per la maggior parte dei miei simili, la campagna è uno spazio di svago che circonda la loro seconda casa e che fiancheggia un tratto delle autostrade che prendono il venerdì quando vi si recano, e di cui la domenica pomeriggio, se se la sentono, percorreranno qualche metro prima di tornare in città dove, per il resto della settimana, saranno i cantori del ritorno alla natura.”
Georges Perec

L’altro giorno in un tweet mi si chiedeva cosa c’entrasse la “campagna” con i formaggi.
Anch’io ho dovuto pensarci un attimo poi ecco la risposta, come sempre parziale e faziosa.
I formaggi sono il prodotto di una agricoltura (spesso di un mondo agro-silvo-pastorale) complessa, fragile e oggi pochissimo remunerata a fronte di grandi fatiche fisiche e privazioni, fatta di presenza continua in azienda, di rotazioni colturali, di allevamento, di cura dei prati insomma di gestione della terra e degli animali (che qualcuno dice essere un’arte e non un mestiere).

Come ho detto prima, bisogna gestire i prati per evitarne il sovrasfruttamento e poi tagliare, essiccare e raccogliere il fieno per i periodi di assenza di pascolo, integrandolo magari con altre colture cerealicole da unire al fieno per l’alimentazione, produrre paglia per le lettiere.
Gli Spata affiancano un uliveto (ormai per solo uso privato) e l’allevamento dei maschi per la carne.



E già!
L’allevamento.
Bisogna ricordare che le vacche non sono delle macchine che producono latte a nostro comando.
La lattazione avviene perché hanno dei piccoli da nutrire, banale vero!
Questo vuol dire che a rotazione una quota parte di vacche avranno dei vitelli e non tutti saranno femmine, quindi tradizionalmente i maschi erano venduti o trattenuti in azienda per l’ingrasso e la vendita come animali da carne.


Fino a pochi anni fa erano i singoli macellai che compravano direttamente dal pastore/casaro l’animale intero in un rapporto quasi fiduciario fra allevatore, macellaio e la propria clientela.
Oggi questo circolo virtuoso si è spezzato, perché malgrado il grande aumento di consumo di carne, sono drasticamente diminuiti i tagli e le pezzature consumate, per cui la resa in carne commerciabile del singolo animale è bassissima e i macellai preferiscono rivolgersi a grosse società di macellazione che forniscono solamente i pezzi pregiati, già porzionati a prezzi competitivi.


Però così facendo si perde il controllo della provenienza del capo e della affidabilità dell’allevatore e noi consumatori compriamo carni ottenute da animali allevati in stabulazione forzata, alimentati con mangimi non compatibili con lo stomaco dei ruminanti (mais, fave, cereali, farine di carne e latte) e macellati sempre troppo presto.

Mi è parso doveroso parlare di ciò che gravita intorno al mondo apparentemente à la page e gourmet della produzione dei formaggi perché testimonia lo stato di profonda prostrazione che, i processi industriali e la grande distribuzione, hanno indotto in agricoltura erodendo ogni nicchia di possibile guadagno compensativo dei contadini/allevatori/casari costringendoli a vivere una profonda e insanabile dicotomia fra il loro prodotto caseario apprezzato e ricercato che però non riesce a mantenerli se non si recupera l’interezza del processo e se non si ridà dignità anche ai prodotti collaterali.



La quantità tanto invocata dai profeti della civiltà del consumo si potrebbe ottenere opponendo alla concentrazione produttiva una “diffusione produttiva” e i risultati dal punto di vista umano, occupazionale, culturale e di salvaguardia del territorio sarebbero ampiamente sufficienti a compensare i (presunti) maggiori costi produttivi.
Ogni caseificio industriale, così come i macelli industriali amplificano il processo di abbandono delle campagne e peggiorano la gestione silvo pastorale di luoghi marginali e il latte stesso e le carni perdono di qualità per effetto della stabulazione forzata e all’alimentazione con insilati.
Il territorio si spopola e le comunità subiscono un progressivo ma inesorabile declino.

E noi mangiamo peggio e pochi guadagnano molto anzi moltissimo.
Così va la vita.



17 commenti:

  1. Purtroppo ormai le vacche sono invece considerate proprio come macchine.
    Noi emiliani (per avere sempre più Parmigiano Reggiano) siamo forse uno degli esempi peggiori.
    Gli vengono fatti produrre 40-50 lt di latte al giorno(!!), poi rifecondate circa dopo 60-90gg dopo il parto (ormai con la biotecnologia si riesce anche a decidere al 90% se partoriranno un maschio o una femmina :( ).
    La vita media è di 4-5 anni, poi vengono vendute ormai sfiancate da questi immani sforzi di vita.
    Il vitello appena dopo scolostrato viene levato alla madre (pochissimi giorni) per evitare che poi fatichi a prendere il latte in polvere (!) e la vacca abbia fastidio alle mammelle durante la mungitura meccanica.
    Noi non lo vediamo, ma è pur sempre un figlio allontanato dalla madre praticamente appena nato.
    E paradossalmente una volta era pure peggio. Pensare che solo fino a qualche anno fa quasi tutte le stalle erano a stabulazione fissa, quindi la bestia non aveva praticamente spazio per muoversi. Legata ad una catena poteva solo decidere se stare in piedi o sdraiarsi.
    Se questa è vita...

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    1. Sono colpito e amareggiato, queste sono cose da divulgare, bisogna imparare a non farsi "fregare" dalla pubblicità dove tutto è bello e buono, no è ora di dire che non è tutto bello e buono e soprattutto non è etico, a cominciare dal parmigiano reggiano. Credo che in ambito produzione parmigiano reggiano ci sia qualche "isola felice", almeno lo spero tanto, sta a noi renderla "visibile".
      Grazie Andrea per queste considerazioni che sono un forte stimolo ad approfondire una materia che mi sta a cuore.

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    2. Possiamo anche parlare dell'enormità (in termini numerici) di vitelli/agnelli/capretti da latte ammazzati solo per produrre il caglio.

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    3. La questione del caglio che tu Roberto hai giustamente sollevato, per il fatto che viene prodotto con logiche industriali in luoghi lontani da quelli in cui viene utilizzato è una presa di coscienza per me relativamente recente, per cui non ho chiesto agli Spata cosa usassero per la cagliata ma d'ora in poi non mancherò di informarmi.

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    4. Per quanto riguarda il caglio so che ora ci sono metodi per prelevarlo senza ammazzare i vitelli. Ma quello è il meno.

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    5. @Vittorio
      putroppo non conosco isole felici in merito al PR, ma spero vivamente anche io che ce ne siano rimaste. E' che ormai tutto vogliono produrre in quantità.
      E ti dirò che ho sentito gente esaltarsi perchè la sua vacca è una campionessa di produzione lattifera!
      Non per nulla ora si cerca di selezionare, con la solita fecondazione artificiale (eh già perchè la fecondazione naturale non esiste più, sapevatelo), le vacche in base alla maggior produzione di latte.

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  2. enrico togni viticoltore di montagna17 ottobre 2012 alle ore 15:53

    chi ti ha chiesto cosa centrasse la campagna coi formaggi è IGNORANTE, ma più maiuscolo di così, poi magari pensa di essere uno pseudo esperto agroalimentare!
    la prossima volta twittagli uno sputo in faccia da parte mia!

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    1. Enrico,
      sai cosa mi piace di te?
      a parte il Merlot e il Vidur naturalmente.
      La tua tolleranza ;)
      La prossima volta sputazzo a chi mi fa quelle domande, te lo giuro.

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  3. enrico togni viticoltore di montagna17 ottobre 2012 alle ore 16:13

    sai che sono un tipo tranquillo, ma quando leggo cose del genere mi girano al quoto, possibile che la gente non abbia ancora capito che mungendo le mucche non esce il fomaggio?che sulle vigne non crescono bottiglie tappate ed etichettate? che in stalla non ci sono salumi già pronti e stagionati?
    è incredibile che non si capisca che la filiera agroalimentare cominci dalla terra, qualsiasi prorotto si prenda in considerazione!

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    1. Infatti ho deciso di parlare di queste cose per non contiunare ad alimentare la falsa convinzione che carne, formaggi, verdure, cereali, vino si materializzino nei banchi frigo già confezionati.
      Perchè come dici tu molto bene e ti ringrazio per gli interventi tutto ciò che mangiamo (e non solo) nasce dalla terra: per fare un pranzo ci vuole un fiore!

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    2. Finchè avremo big pubblicità come quella del Mulino Bianco che fa vedere una macina da olive al posto di quella del grano, avremo confusione, finchè la scuola non ci spiegherà, in modo autonomo senza l'aiuto delle multinazionali, cos'è l'agricoltura e come nasce il cibo che mangiamo tutti i giorni, non ci sarà eduzione, finchè persino una istituzione per molti versi meritevole come SlowFood non eviterà certe sponsorizzazioni, finchè...

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  4. Il prodotto alimentare (compreso il vino) dovrebbe essere vietato per legge poterlo produrre su scala industriale.
    So di ripetermi, ma io sono fermamente convinto che l'industria alimentare sia estremamente dannosa su più fronti.
    Poiché è fine ultimo dell'impresa fare profitto viene da se che cercherà sempre di massimizzare gli utili acquistando materie prime a prezzi sempre più bassi, ottimizzando al massimo i processi di conseguenza impoverendo il prodotto.
    Le conseguenze della presenza dell'industria alimentare sono nefaste!
    Come citato in questo bell'articolo di Luigi assistiamo allo spopolamento delle campagne che divengono così improduttive e si trasformano da aree di reddito ad aree di costo.
    Poi abbiamo la perdita di intere tradizioni, culture millenarie che svaniscono assieme agli ultimi artigiani trasformatori.
    L'utilizzo di semilavorati (lieviti, basi, cagliate ecc ecc) sta progressivamente impoverendo la bio e la microbiodiversità.
    I sapori ed i gusti si omologano, la quantità di tossine ingerite aumenta, l'alimentazione è diventata un problema per molti.
    In tutto questo la minaccia reale di nuove malattie accanto alle già note non è certo da trascurare.
    Credo che civilmente ciascuno di noi dovrebbe (io lo faccio) abbandonare il prodotto industriale per una forma di coscienza civile, per rispetto della vita propria e in senso più grande della vita in sé, umana, animale e vegetale per non parlare del pianeta stesso.
    Oggi abbiamo l'opportunità di acquistare direttamente dai produttori senza muovere un passo da casa e i costi sono diventati persino sostenibili.
    Non sono per natura un complottista, ma vi garantisco che negli anni ho conosciuto tanti bravi produttori di ogni genere di alimento desiderabile e acquisto direttamente da questi boicottando di fatto la distribuzione organizzata che è il principale sbocco commerciale dell'industria alimentare.
    Personalmente, sono due categorie, l'industria alimentare e la distribuzione organizzata, che l'intero pianeta si avvantaggerebbe di molto se scomparissero.
    Scusate per il lungo pensiero
    Paolo

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    1. Come dire, se non che mi trovi in sintonia con ciò che scrivi.
      Aggiungerei inoltre che i costi dei cibi industriali appaiono vantaggiosi al consumatore ma è solo una apparenza fallace infatti gran parte dei surgelati e sopratutto dei cibi pronti (che vengono assemblati con pochissima materia prima e percentuali altissime di acqua ed emulsionanti e additivi e aromi) costano molto se valutate a peso, con gli stessi soldi potremmo acquistare chicche gastronomiche.
      La morte microbica degli alimenti industriali (ricercata per eliminare problemi tecnologici e per sanitizzare materie prime di infima qualità) dà poi il colpo finale, a mio avviso, per dubitare fortemente di questi prodotti.
      Assistiamo come dici bene tu ad un processo "industriale" colpevolmente deterritorializzato che consuma o ignora il luogo in cui è posto e si orienta verso mercati globali per il reperimento delle materie prime, valutate solamente con parametri economico-quantitativi.
      L'abbandono delle logiche di gigantismo delle aziende agricole e la reintroduzione della produzione diffusa artigianale e contadina avrebbe delle ricadute molto positive per i territori e per l'occupazione e non obbligherebbe la gente a nefaste diaspore verso i luoghi di concentrazione industriale; tanto più che se l'obiettivo è il contenimento dei costi queste fabbriche, libere da ogni vincolo territoriale, non saranno stabili ma tenderanno sempre più a migrare verso luoghi dove il lavoro è più economico, instaurando un folle processo di ricerca dei massimi profitti e minimi costi.
      Però oggi ci governano i massimi esponenti italiani dei Neo-liberisti che di sicuro non appoggierebbero queste nostre tesi e mi duole anche aggiungere che al coro dei Neo-liberisti si associano molti "scienziati" obnubliati e fiduciosi nel progresso e nella scienza come panacea di tutti i mali.
      Così va la vita.

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  5. Per quello che riguarda il Parmigiano Reggiano, posso dire che la maggior parte dei piccoli caseifici sta sparendo, se non è già sparita, a favore delle grandi produzioni.
    Per fortuna, anche i grossi caseifici sono poco di più di artigiani, facendo, in maggior quantità, quello che facevano i piccoli, uniformando però il prodotto.
    Le stalle piccole stanno purtroppo scomparendo.
    Al giorno d'oggi, è diventato economicamente impossibile avere una stalla con 10 mucche.
    Ci sono solo dei mega allevamenti con centinaia di capi.
    La produzione di qualità è ridotta ormai all'osso, strozzata dalla guerra sul prezzo fatta dai grandi gruppi, che sono ahimè ormai tutti di proprietà extraregionale.
    Ormai il Parmigiano non ha più il sapore che aveva quando ero piccolo, per non parlare del prosciutto.
    Un paio di anni fà, mi sono inginocchiato davanti ad un Prosciutto di Parma di 30 mesi, che profumava come lo ricordavo da piccolo.
    Era una selezione del produttore che, naturalmente, non commercializza.

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