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mercoledì 4 aprile 2012

l'agricoltura nell'epoca del capitalismo finanziario



Dalle “sane” polemiche (le polemiche trovo che non siano mai sane e tendono sempre a costruire muri e confini invalicabili irti di incomprensioni e risentimento) nate dal mio post “agricoltura alto artigianato” e “Bio! Bio chè? Pensieri sparsi” ho avuto momenti di profondo ripensamento e anche di altrettanto profondo malumore.
Però la diatriba sui vini naturali versus industriali è continuata su altre piattaforme.
Così va la vita.

Il malumore che mi ha colto è stato causato più che altro dalla durezza con cui il discorso sul biologico e sulla sostenibilità delle pratiche agricole è stato attaccato nei commenti, portando come argomentazioni il grande e mirabolante successo della “rivoluzione verde” (che di fatto vuol dire industrializzazione dell’agricoltura e il massiccio uso di fertilizzanti minerali, pesticidi, meccanizzazione, monocoltura, irrigazione, selezione genetica mirata all’aumento di produttività delle varietà) che secondo i suoi sostenitori avrebbe salvato milioni di vite umane destinate alla morte per fame, sancendo la superiorità del “metodo scientifico” sulla gestione tradizionale e empirica dell’agricoltura .
Assistendo alla proiezione di The last farmer e ascoltando le voci di Luciano Gallino e Giorgio Cingolani ho capito che forse avevo colto nel segno e i miei scritti erano in assonanza con le loro tesi.
Giorgio Cingolani sostiene che il 70% della popolazione mondiale è alimentata (sicuramente non con i tassi calorici dei paesi occidentali) da agricolture contadine e solamente il 30% dall’agroindustria.
Inoltre le carestie, eventi sempre portati ad esempio di arretratezza delle agricolture contadine, hanno per lo più una base economica e non una assenza di generi alimentari, ossia le fasce più deboli non riescono ad avere un reddito sufficiente per accedere al cibo i cui costi aumentano in base alla momentanea scarsità (scarsità non assenza) per cui redditi più elevati scongiurerebbero molti problemi di sottonutrizione e morte per fame.

Questa consapevolezza non mi ha aiutato a guarire dal malumore perché Luciano Gallino1 rincara la dose sostenendo che l’attuale modello di sviluppo della civiltà-mondo è di fatto una scellerata corsa verso l’esaurimento completo delle risorse del pianeta con conseguente distruzione degli ecosistemi che sostengono la vita.
Dalla distruzione delle foreste primarie all’inquinamento dell’aria, acqua, suoli; dalla perdita di biodiversità alla erosione, desertificazione e salinizzazione dei suoli; dalla perdita di biodiversità di specie animali e vegetali all’accumulazione di rifiuti tossici.
“Sono tutti aspetti di un deterioramento sistemico dell’ambiente terrestre che è il prodotto diretto e indiretto di una civiltà la quale, in base alle teorie economiche che la orientano, attribuisce valore principalmente al consumo delle risorse naturali, ignorando del tutto nella sua contabilità il valore della loro produzione e riproduzione ad opera della Terra”2.

La New Economics Foundation, nel 2008, ha stimato che il limite massimo oltre il quale gli ecosistemi saranno irreversibilmente compromessi, recando danni a centinaia di milioni di persone sarà l’autunno del 2016.
Al di là della veridicità di tale profezia è ormai provato che gli ecosistemi che ci forniscono cibo, acqua, legno e fibre; regolazione del clima, del livello delle acque e della loro qualità; lo smaltimento dei rifiuti; il sostegno di processi vitali quali la formazione di suolo fertile, la fotosintesi e il ciclo alimentare, hanno ormai subito un degradamento del 60% dei servizi che ci forniscono.
A questa analisi che definire negativa rasenta l’umorismo macabro, innesterei un tema caro ai tecnici che è la fiducia incondizionata e tranquillizzante nella capacità di correzione delle storture da parte delle tecnoscienze (e dell’industria sempre vista come buona, etica e giusta) questo è un modello di ragionamento tecno centrico che esclude ogni altro attore dai suoi ragionamenti e affida un ruolo metafisico alla scienza e quello di “sacerdoti contemporanei” agli scienziati.
Premettendo che non ho nulla in contrario con la ricerca scientifica e il metodo scientifico, non bisogna ignorare che il clamoroso successo della scienza e della tecnica in simbiosi con la politica e le teorie economiche neoliberiste, hanno portato all’attuale situazione di non ritorno. Già negli anni settanta il Club di Roma aveva avvertito gli Stati e gli economisti di questa stortura concettuale della crescita senza fine.
Solo che era troppo presto per dire che era troppo tardi.
Gli stessi media, le università inglobati anzi coevoluti con il finanzcapitalismo, tacciono o abbracciano le confortanti tesi del: “tutto bene, stiamo tranquilli, tanto gli scienziati risolveranno tutto, ora passiamo alla finale di Champions League.”
In un commento ad un mio intervento su Face Book uno stimato docente universitario, ha detto che nel momento, drammatico, in cui si assisteva alla fine (per eccesso di estrazione) del caucciù qualcuno ha inventato la plastica che ora lo sostituisce (non facciamogli notare che la plastica è un prodotto petrolchimico difficile da smaltire, energeticamente oneroso da produrre  e in ultimo che il petrolio è in fase di esaurimento).
Perfetto, quindi con quest’ottica noi dobbiamo continuare a viaggiare a duecento all’ora verso un muro, nella speranza che qualcuno lo abbatta prima di sfracellarcisi contro e nella speranza che dietro non c’è ne sia un altro.

Forse è il caso, ora, di tentare di spiegare in poche parole cosa Gallino intenda per finanzcapitalismo.
“Il finanzcapitalismo (o capitalismo finanziario) è una mega-macchina che è stata sviluppata nel corso degli ultimi decenni allo scopo di  massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e potere, il valore estraibile  sia dal maggior numero possibile di esseri umani, sia dagli ecosistemi.”
…“Come macchina sociale, il finanzcapitalismo ha superato ciascuna delle precedenti, compresa quella del capitalismo industriale, a motivo della sua estensione planetaria e della sua capillare penetrazione in tutti i sotto-sistemi sociali, e in tutti gli strati della società, della natura e della persona.”3
Il potere non è il potere “del” capitale ma il capitale è potere in sé organizzato e pervasivo, esercitato sulla società e decide cosa e dove produrre, quante persone occupare o licenziare, che prezzi abbiano i generi alimentari, quali tecnologie o farmaci o linea di ricerca sviluppare.
 “Ancora il capitale è il potere di trasformare le foreste pluviali in legno per mobili e i mari in acque morte; di brevettare il genoma di esseri viventi evolutisi nel corso di miliardi di anni e dichiarato proprietà privata; di decidere quali debbano essere i mezzi di trasporto usati dalla grande maggioranza della popolazione e con essi quale debba essere la forma della città, l’uso del territorio, la qualità dell’aria.”4.

La capacità di governo poi di questa macchina è affidata a persone che più volte sono state scoperte falsificare i bilanci e mentire sulle attività svolte, ignorando ogni interesse che non fosse il loro e quello degli azionisti. Dice meglio di me D.J.H.Greenwood “Il paradigma centrato sul valore delle azioni incoraggia i manager a vedere il loro lavoro come se gli richiedesse di ignorare tutti i valori politici, morali e umani tranne uno: il profitto. Questa concezione sollecita i manager a vedere il mondo in termini puramente strumentali.”5

La ricerca del profitto ha avuto negli ultimi decenni come obiettivo, quello di attenuare la concorrenza a mezzo di fusioni e acquisizioni che però hanno generato un impressionante sperpero di risorse con le quali si sarebbe potuto facilmente finanziare ricerche mirate all’agroecologia o alla ricerca in generale, invece il primo pensiero delle multinazionali è stato quello di contenere e laddove possibile eliminare la concorrenza che a dispetto del credo neoliberista è l’elemento di maggior fastidio per i loro affari. Le concentrazioni oligopoliste inoltre, a fronte dell’assenza di concorrenza, determinano una inevitabile diminuzione degli investimenti in ricerca e sviluppo a favore del marketing per smaltire un eccesso di produttività non richiesta dal mercato invece di migliorare i beni necessari.
Va da sé che il problema della riduzione dell’uomo a uomo economico investa con brutalità l’agricoltura, la cui filiera è stata oggetto di imponenti concentrazioni sia nella produzione sia nel comparto sementiero e chimico sia nella distribuzione e vendita, che ha subito e subisce una estrazione di valore fortissima a cominciare dall’esternalizzazione di innumerevoli forniture: dall’energia, ai concimi (che dovrebbero preservare la fertilità del terreno e la cui efficacia è messa in forte discussione), ai pesticidi, ai sementi, alle attrezzature meccaniche e i mezzi d’opera (utili ma costosissimi e ad alto grado di obsolescenza).

L’agricoltura ha inoltre pagato un costo umano elevatissimo, le nuove tecnologie e il basso valore riconosciuto dal mercato ai prodotti hanno determinato, anziché un miglior salario ai braccianti agricoli, lo spopolamento delle campagne, dei territori montani (in cui i comuni sono ormai costretti a vendere terra per rimpinguare i bilanci esangui e dando il là al progressivo e distruttivo fenomeno della cementificazione da seconda casa o da turismo “insostenibile”), la chiusura di moltissime aziende agricole, l’accorpamento di terreni in pseudo latifondi gestiti in pressochè totale monocoltura. E i costi sociali, ambientali, culturali di questo processo sono magicamente finiti fuori bilancio e riversati sulla collettività.

E’ ormai assodato che l’estrazione di valore dalla produzione agricola abbia come obiettivo l’abbassamento del prezzo delle materie prime che ormai vengono pagate meno del costo di produzione (che viene in parte compensato agli agricoltori europei e statunitensi con la politica delle sovvenzioni  all’agricoltura, denari prelevati dagli erari pubblici degli stati). Quindi è palese il circolo vizioso e demoniaco in cui siamo finiti, le imprese acquistano (spesso determinando o influenzando i prezzi di acquisto speculando sui future nel mercato borsistico) i prodotti agricoli a costi irrisori, li trasformano (spesso delocalizzando la produzione in aree a basso costo del lavoro e altrettanto bassa tutela del lavoratore), li rivendono nei paesi a maggior reddito (ancora per poco a maggior reddito, visto il trend di compressione dei salari, indotto proprio dalla delocalizzazione produttiva) “infestando” il mercato di cibo spazzatura e caricando di costi occulti la società (sanitari, è di questi giorni la querelle sulla tassa ai junk food, ambientali, sociali) .

L’allargamento della visione all’economia e al funzionamento della mega-macchina, secondo me, sposta e rende quasi ridicolo l’antagonismo fra bio e non bio, fra scienziati e stregoni, relegandolo ad una posizione di chiacchiericcio inutile, perché al di là dell’uso o no di prodotti chimici e di agrotecniche più o meno scientifiche o olistiche, è chiaro l’effetto di estrazione di valore che l’economia globalizzata sta operando sul lavoro e sui prodotti agricoli e la tendenza sarà quella di travolgere tutti i produttori medio piccoli quale che sia il loro orientamento produttivo.
Colpisce tutte le produzioni agricole compresa la viticoltura che godeva fino a poco tempo fa di una maggiore redditività ma che sta subendo l’effetto del dumping sui propri prodotti.
Le uve retribuite a prezzi ridicoli, sempre inferiori di anno in anno, i fiumi di vino prodotto in maniera industriale e meccanizzata (o sfruttando manodopera a basso costo), l’asfissiante politica dei ribassi imposti dalla GDO hanno determinato la progressiva perdita di reddito agrario, il tutto accompagnato dalla retorica del presunto efficientismo delle concentrazioni agroindustriali sono il problema contro cui lottare per evitare di perdere quel poco di cultura agricola e di vitalità e preservazione del territorio.

Cosa bisogna fare non lo so, di sicuro bisogna aprire gli occhi e cercare di smetterla di ragionare come uomini economici e tentare di rispolverare valori etici e culturali che ora giacciono coperti dalle menzogne propinateci dai fautori del “libero mercato” visto come panacea di tutti i mali.
Probabilmente è anche un rischio rifugiarsi nella nicchia delle produzioni di eccellenza, perchè ho il sospetto che si possa tramutare in loculo.
Per cui nel mio piccolo, forse già da tempo, intuivo che i produttori bioqualcosa così orientati al loro ecosistema e alla sostenibilità delle loro azioni agricole, compiessero, magari in maniera inconscia e istintuale, un atto di disobbedienza sociale, una svolta etica mirata alla sopravvivenza stessa della loro famiglia e della loro comunità.
Una sorta di ribellione o quantomeno un chiamarsi fuori dalle dinamiche economiche del finanzcapitalismo.
Il tentativo, forse naif, di abbandonare la schiavitù nei confronti dell’industria chimica, dell’agroscienza, del mercato, della politica e dalle loro pressioni culturali e dall’estrazione di valore cui sono (siamo) sottoposti.
Per cui, con una forte semplificazione, è possibile che la formazione di una comunità di bioqualcosa abbia permesso loro di poter condividere una visione diversa, seppur vaga, dell’economia, dell’agricoltura e della socialità.

Quindi per me, ancora di più adesso alla luce di questi approfondimenti, il consumo di prodotti “contadini” coltivati in maniera sostenibile e rispettosa degli ecosistemi, è un atto etico e penso che tutti coloro che sono agricoltori oggi, dovrebbero compiere un atto etico di abbandono delle logiche produttive e commerciali attuali non per rituffarsi in un “medioevo” tecnico ma per riprendere il controllo della propria libertà e un briciolo di speranza nel proprio futuro.





1) Luciano Gallino, “Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi” Torino, 2011
2) Luciano Gallino, “Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi” Torino, 2011 pg39.
3) l’estrazione del valore è un processo che si discosta dalla creazione di valore attraverso la produzione e vendita di un bene e si tratta per lo più di manipolazioni dei tassi di interesse, artificiosi aumenti di beni in monopolio, distruzione di risorse naturali per l’edificazione, aumento dei ritmi di lavoro a parità di salario.
4) Luciano Gallino, “Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi” Torino, 2011 pg5 e sgg.
5) D.J.H.Greenwood, “Enronitis. Why Good Corporation Go Bad”, in Columbia Business Law Review, pg776.


3 commenti:

  1. Adoro questi tuoi post, Luigi.
    L'abbandono di logiche produttive e commerciali deviate dovrebbe essere visto, dagli agricoltori stessi intendo, oltre che come un atto di disobbedienza civile e di ribellione etica contro un sistema economico assurdo, anche come un gesto di profondo rispetto verso il territorio che si coltiva, verso le persone che consumeranno i propri prodotti e, infine, anche verso se stessi.
    In fondo è un po' una piccola rivoluzioncina e per attuarla serve soprattutto una coscienza ed un'etica e questi, oggigiorno, sono fattori profondamente laceri nell'animo umano.

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    1. Sono giorni che cerco le parole per risponderti e non vengono, le avrò spese tutte nel post.
      Però una cosa devo farla ed è ringraziarti per l'apprezzamento ai miei post (forse mi sopravvaluti).
      Seconda cosa è che sono d'accordo con te completamente sia sulla necessità di una ribellione civile sia sull'etica ormai lacerata e dispersa.

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  2. Ho letto il tuo post con grandissimo interesse.
    Sono pensieri che girano per le teste di molte persone, pensieri angoscianti il più delle volte. Purtroppo sento di essere molto pessimista a riguardo.
    Saluti

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